Home > Supplementi > Quanto sono belle le tue dimore

Quanto sono belle le tue dimore

Quanto sono belle le tue dimore

Itinerari in Lombardia: i Sacri monti

 

Introduzione del cardinale Gianfranco Ravasi

di 30Giorni

€ 1,00


In lettura

Presentazione

Montevecchia: non è un toponimo evocativo di un’anziana castellana, ma è più raffinatamente la degenerazione del tardo latino mons vigiliae, il monte della sentinella, della veglia. Su quel colle che domina tutta la pianura e lascia in fondo baluginare le luci di Milano salgo almeno due volte l’anno, proprio per la grande veglia pasquale e per quella natalizia della messa di mezzanotte. È questo il mio “Sacro monte” lombardo, legato ai ricordi della mia infanzia brianzola, alle mie prime preghiere innalzate nel santuario mariano che si erge su quella cima, al termine di un’erta scalinata tagliata a metà dal cerchio di una Via Crucis in arenaria di grande incisività figurativa.
Sono voluto risalire idealmente su quella collina, ignota alla maggior parte dei lettori, perché sono convinto che tutti hanno un loro “Sacro monte”, anche se minore, a cui si annodano ricordi e forse ancora speranze. Sono certo, poi, che molti lettori lombardi ritroveranno nei bellissimi ritratti che seguiranno (sono veri e propri dipinti, sul modello di quelli che approntavano sui loro album i vedutisti del Grand e Petit Tour dei secoli scorsi) il “loro” santuario o, come è accaduto a me, i luoghi sacri più cari della Lombardia. Sì, perché è difficile che un milanese non sia salito almeno una volta lungo la splendida strada, “intagliata a libro nella roccia”, che conduce al Sacro monte di Varese.
Ricorderà le soste a quelle quattordici cappelle dedicate ai misteri del Rosario (a una ha rimesso mano persino Guttuso) per concludere il percorso orante al santuario, ultimo mistero mariano, alonato di spiritualità dalla contigua presenza del monastero delle Romite ambrosiane, anch’esse a loro modo sentinelle con le loro ore scandite dalla purezza assoluta del canto fermo della liturgia ambrosiana. È altrettanto difficile che un lombardo non sappia cosa sia il santuario di Tirano. Certo, forse tante volte ha soltanto costeggiato quell’imponente edificio sacro dall’altera facciata bramantesca e dal mirabile e solenne campanile: sulla sua auto c’erano gli sci che indicavano un’altra meta, i campi di neve di Bormio o dello Stelvio.
Eppure, forse una volta si sarà affacciato all’interno di quel tempio maestoso e avrà ascoltato o letto la storia di quell’apparizione molto campestre avvenuta alle prime luci dell’alba di una domenica settembrina del 1504, una storia per altro affidata a quel delizioso Libro dei miracoli steso in un italiano tutto impastato di dialetto valtellinese. Forse avrà sentito evocare quel terribile “sacro macello”, espressione di un duello in cui s’intrecciavano fede e politica. Ma ai nostri giorni avrà anche scoperto che i riti satanici, celebrati allora in quelle terre da streghe e fattucchiere e condannati da san Carlo Borromeo, sono tutt’altro che il reperto di un paleolitico spirituale: a non molti chilometri da Tirano, a Chiavenna, il martirio di suor Maria Laura Mainetti, a tutti noto, reca ancora la stigmate di quello stesso culto blasfemo, assurdo e sanguinario.
Come accade a me, molti lombardi per le loro vacanze estive o per il fine settimana scelgono le sponde incantevoli del lago di Como. Certo, le guide turistiche rimandano ai grandi alberghi o alle ville patrizie ormai disabitate, mentre il pettegolezzo giornalistico induce a sostare fuori della villa di George Clooney per vederne anche solo il profilo dietro il finestrino oscurato di una Mercedes sfrecciante, quasi fosse una nuova apparizione “laica”. Giuseppe Frangi, invece, ha scelto di farci salire su quella indimenticabile tribuna naturale ove si erge il santuario di Ossuccio, con la sua dolce Madonna di marmo candido e col Bambino che gioca con un uccellino, ma anche con quell’itinerario costellato di cappelle, affollate di almeno duecentotrenta statue, con cinque figure di personaggi “gozzuti”, segno di un realismo generato da una sindrome endemica del passato, con sei cavalli, con nove animali vari e con tante scene vivaci.
Ma c’è una sorpresa in questa selezione di monti sacri. Penso che molti, come me, rimarranno sorpresi per una meta piuttosto “nascosta e appartata” che in questo dossier viene proposta. Il colle santo camuno di Cerveno è, infatti, ignoto ai più, eppure attraverso la rappresentazione che Frangi ci offre si ha l’occasione di un incontro straordinario. È quello con la Via Crucis lignea di Beniamino Simoni, un artista di popolo dotato di una sua genialità figurativa che non era sfuggita all’“occhio febbrile” di Giovanni Testori. La speranza è ora quella di vedere pellegrini e visitatori rivolgersi anche verso questo paesino bresciano finora emarginato per scoprire anche là quel fremito che tutti i Sacri monti riescono a generare nell’anima.
Ho iniziato evocando un santuario del Lecchese, Montevecchia. Vorrei ora concludere questo breve viaggio su alcuni monti santi con parole che tutti conoscono: «Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari…». Chi non ricorda questo struggente addio ai monti del Lecchese che Manzoni ha lasciato nei Promessi sposi? Certo, quelle montagne sono il Resegone, le Grigne e le alture del lago di Lecco. Eppure quella sensazione di nostalgia si sperimenta a maggior ragione quando dalla pace e dal silenzio di un santuario posto su un Sacro monte si scende nel rumore e nella frenesia delle valli e della pianura urbana. È quella stessa nostalgia che provava l’antico ebreo quando lasciava il monte santo di Sion, «altura stupenda, gioia di tutta la terra», e col salmista proclamava una beatitudine e una promessa: «Beato chi abita la tua casa e sempre vi canta le tue lodi! Beato chi trova in te la sua forza e decide di nuovo nel suo cuore il santo viaggio!» (Sal 84, 5-6).



Español English Français Deutsch Português