Paolo VI, Maritain e la fede degli apostoli
Il 30 giugno 1968, con la solenne professione di fede pronunciata in piazza San Pietro, papa Montini indicava una via semplice per custodire il tesoro donato dal Signore alla sua Chiesa. Quarant’anni dopo, il cardinale Georges Cottier racconta a 30Giorni quanto influì sulla stesura di quel prezioso documento l’amicizia gratuita che univa il Pontefice al filosofo francese e al cardinale Charles Journet. Intervista
Intervista con il cardinale Georges Cottier di Gianni Valente
Paolo VI bacia la roccia dove Gesù affidò il primato a Pietro
Il Credo del popolo di Dio è uno dei gesti più limpidamente profetici tra quelli compiuti da tutti i successori di Pietro nel secolo scorso. Succede spesso, soprattutto quando i papi si limitano a fare il proprio mestiere. Ma poco si sa di circostanze e fattori che suggerirono al Papa dell’Ecclesiam Suam e della Populorum progressio di ripetere in tutta semplicità «i punti capitali della fede della Chiesa stessa, proclamata dai più importanti Concili ecumenici».
Quale fu la dinamica concreta con cui venne predisposto quel testo prezioso? A distanza di quarant’anni, alcuni documenti d’archivio consentono di ricostruire fin nei dettagli come andarono le cose. E raccontano di quanto influì sulla genesi e sulla stesura di quella professio fidei l’amicizia gratuita e preferenziale che univa papa Montini, il cardinale elvetico Charles Journet e il filosofo francese Jacques Maritain.
La vicenda emerge nei dettagli dal fitto carteggio che il teologo ginevrino divenuto cardinale nel 1965 intratteneva con l’autore di Humanisme intégral e di Le paysan de la Garonne. Il cardinale Georges Cottier, teologo emerito della Casa pontificia, ha accettato di ricostruirla per 30Giorni, sulla base delle lettere che saranno raccolte nel VI volume della Correspondance Journet-Maritain, che raccoglie le 303 lettere che i due si sono scambiati dal 1965 al 1973, e che sarà pubblicato entro il 2008. Cottier, anche lui nato nei dintorni di Ginevra, fu discepolo di Journet (che lo portò come proprio “esperto” al Concilio Vaticano II) ed è membro della Fondation du Cardinal Journet, che con le Èditions Saint Augustin sta curando la pubblicazione della ricchissima Correspondance tra il cardinale-teologo scomparso nel ’75 e Maritain.
Charles Journet e Jacques Maritain
All’inizio del 1967, il Concilio si è concluso da poco più di un anno, ma – come ha già registrato il teologo Joseph Ratzinger nella sua rinomata conferenza tenuta a Bamberg, nel luglio precedente – «regna un certo disagio, un’atmosfera di freddezza e anche di delusione, quale segue solitamente i momenti di gioia e di festa». In quella condizione, con l’esortazione apostolica Petrum et Paulum, pubblicata il 22 febbraio 1967, Paolo VI indice l’Anno della fede: dal 29 giugno 1967 al 29 giugno 1968, tutta la Chiesa è chiamata a celebrare il 19° centenario del martirio degli apostoli Pietro e Paolo, «primi maestri della fede».
L’anno della fede, nelle intenzioni del Papa, è tutto incentrato sul Credo. Nella stessa esortazione Petrum et Paulum si chiede ai vescovi di compiere più volte, durante quell’anno speciale, una proclamazione solenne del Credo «coi preti e i fedeli, secondo l’una o l’altra delle formule in uso nella Chiesa cattolica». Nelle catechesi e nelle omelie di quei mesi, papa Montini suggerisce a più riprese a tutta la Chiesa l’urgenza di ripetere l’atto di fede. «Non crediate di avere la fede se voi non aderite al Credo, al simbolo della fede, cioè alla sintesi schematica delle verità di fede», ripete all’udienza generale del 31 maggio 1967. Eppure, all’inizio, non appare all’orizzonte alcuna idea di chiudere l’anno della fede con la proclamazione di una nuova professio fidei. Solo un vecchio amico del Papa vede affacciarsi nei suoi pensieri una prima, embrionale intuizione di quello che avverrà.
Jacques Maritain a quel tempo ha 85 anni. Dal 1961, dopo la morte dell’amata moglie Raïssa, vive nella comunità dei Petits frères di Charles de Foucauld, a Tolosa. Il grande intellettuale, legato da una pluridecennale amicizia con Montini – che lo ha pubblicamente difeso quando c’era chi voleva condannarlo con l’accusa di “naturalismo integrale” –, ha da poco riversato nel libro Le paysan de la Garonne tutte le sue critiche davanti alle storture dottrinali e agli pseudoaggiornamenti culturali che vede alimentarsi tra laici ed ecclesiastici sotto il pretesto dell’apertura al mondo. Il motto del volume è un proverbio cinese: “Non prendete mai troppo sul serio la stupidità”. Scrivendo all’altro suo amico e confidente Journet, si augura che Roma («che finirà ben per vedere la gravità immensa della crisi») non reagisca puntando solo su misure disciplinari che non sarebbero comprese e rischierebbero solo di aumentare la rivolta, «perché è la luce della libertà, quella che serve». Racconta oggi il cardinale Cottier: «Paolo VI gli appariva come un uomo solo. Maritain pregava per lui, e diceva a tutti di fare lo stesso. In una lettera del dicembre 1966 scrive a Journet: “Penso spesso al Papa e alla sua terribile solitudine. Mi sembra che occorrerebbe far molto pregare per lui le anime contemplative”».
Qualche giorno dopo, il 12 gennaio 1967, nel post scriptum di una sua lettera, Journet avverte Maritain di essere stato convocato a Roma da Paolo VI. A Maritain la circostanza appare provvidenziale. Risponde subito al suo amico cardinale: «Un’idea mi è venuta in mente da parecchi giorni, con una tale intensità e una tale chiarezza che io non credo di poterla trascurare. Era come un tratto di luce mentre pregavo per il Papa e consideravo la crisi tremenda che la Chiesa sta attraversando». Davanti a tale crisi – spiega nella lettera Maritain – «solo una cosa è in grado di toccare universalmente gli spiriti, e di custodire il bene assolutamente essenziale, che è l’integrità della FEDE»: non «un atto disciplinare, né delle esortazioni, né delle direttive, ma un ATTO DOGMATICO, sul piano della fede stessa»; un «atto sovrano dell’AUTORITÀ suprema che è quella del Vicario di Gesù Cristo». «Maritain», sottolinea il cardinale Cottier, «scandisce i suoi concetti-chiave con l’uso delle maiuscole: secondo lui, quello che serve al momento presente è “che il Sovrano Pontefice rediga una PROFESSIONE DI FEDE completa e dettagliata, nella quale sia esplicitato tutto ciò che è realmente contenuto nel Simbolo di Nicea – questa sarà, nella storia della Chiesa, la ‘professione di fede’ di Paolo VI”».
Papa aveva chiesto allo stesso Congar di prepararne un testo. Ma il risultato non aveva convinto: Paolo VI, pur apprezzando il “tono biblico” della bozza di Congar, aveva di fatto accantonato il progetto».
Quando scrive a Journet la sua idea di una nuova professio fidei, Maritain non chiede all’amico di trasmettere a suo nome il suggerimento al vescovo di Roma. Parla di sé stesso come di un «vecchio folle»: «Io», scrive ancora nella sua lettera del 14 gennaio 1967, «non sono di quei laici illuminati che si permettono di elargire consigli al Papa». È Journet che prende l’iniziativa: fotocopia per Paolo VI le parti della lettera in cui l’amico filosofo espone le sue idee, e le consegna al Papa nell’incontro del 18 gennaio. In quell’occasione, Paolo VI chiede a Journet un giudizio sulla situazione della Chiesa. «Tragica», risponde il cardinale elvetico. È solo allora che papa Montini confida al suo amico teologo il progetto di indire l’Anno della fede, che verrà ufficialmente reso noto più di un mese dopo, con la pubblicazione dell’esortazione Petrum et Paulum. Il 24 febbraio, commentando il primo annuncio dell’Anno della fede da parte di Paolo VI, Maritain scrive nel suo diario: «È forse la preparazione per una professione di fede che lui stesso proclamerà?».
Nota il cardinale Cottier: «Paolo VI, a quel momento, non aveva ancora in programma nessuna nuova professione di fede. Dal canto suo, Maritain non aveva saputo nulla dell’intenzione papale di indire un Anno della fede. Ne aveva preso atto a cose fatte, al momento dell’indizione ufficiale. Ma le due iniziative vanno per così dire una incontro all’altra, spinte dalla stessa percezione della crisi in cui versa la Chiesa».
Quello stesso anno, dal 29 settembre al 29 ottobre, si riunisce a Roma il primo Sinodo dei vescovi. Il rapporto finale della Commissione dottrinale, interrogandosi sui problemi che attraversano la compagine ecclesiale nel dopo Concilio, propone di sottomettere al Papa anche il votum riguardo alla stesura di una dichiarazione sulle questioni della fede. L’arcivescovo di Quito Pablo Muñoz Vega in una conferenza stampa accenna alla possibile elaborazione di un Simbolo di fede e alla stesura di un Catechismo universale che sarebbero stati proposti da alcuni dei padri sinodali. Il vescovo di Pittsburgh John Wright, che nel ’69 sarebbe divenuto prefetto della Congregazione per il Clero e cardinale, precisa che non si registra tra i vescovi «nessun entusiasmo per le soluzioni negative della crisi come sarebbero delle semplici liste o Syllabi d’errori», ma che invece c’è un interesse diffuso «per una “regola della fede“ che si potrebbe definire come una norma popolare», grazie alla quale il popolo cristiano possa distinguere con chiarezza ciò che appartiene alla fede cattolica «e, dall’altra parte, ciò che è speculazione teologica o anche semplice opinione privata». Lo stesso Paolo VI, nel discorso di apertura del Sinodo, ha denunciato i tentativi di «sottomettere a una revisione il patrimonio dottrinale della Chiesa per donare al cristianesimo nuove dimensioni ideologiche».
«A condizionare il clima», ricorda oggi padre Cottier, «c’era stato anche il caso del Catechismo olandese, presentato dal cardinale Alfrink nell’ottobre 1966. Anche il cardinale Journet faceva parte della commissione cardinalizia nominata dal Papa per esaminare tale compendio controverso approvato dai vescovi olandesi. Nel suo rapporto conclusivo, Journet ne parlava come di un “tutto organico”, uno strumento usato per “sostituire, all’interno della Chiesa stessa, un’ortodossia a un’altra, una ‘ortodossia moderna’ all’ortodossia tradizionale”».
Proprio il lavoro della commissione d’esame sul Catechismo olandese riporta Journet a Roma. Il 14 dicembre del ’67, il cardinale svizzero viene di nuovo ricevuto da Paolo VI, e ne approfitta per rinnovare il suggerimento che aveva raccolto da Maritain all’inizio dell’anno. Racconta il cardinale Cottier: «Journet chiese a Paolo VI se per la fine dell’Anno della fede avesse in animo di pubblicare qualche grande documento, per orientare quelli che volevano rimanere nella Chiesa. Il Papa gli rispose che qualcuno aveva già suggerito una simile prospettiva alla fine del Concilio, e ricordò espressamente il progetto – accantonato – di Congar. Poi, rigirò a Journet una richiesta sorprendente e impegnativa. Disse al cardinale: “Preparatemi voi uno schema di ciò che voi pensate debba essere fatto”».
Davanti alla richiesta papale, appena tornato a Friburgo, Journet coinvolge subito Maritain. Nella lettera del 17 dicembre scrive all’amico filosofo: «Allora, Jacques, come era possibile non pensare di chiedere subito il vostro aiuto? È la questione del tono da trovare, così come delle cose da dire, che è difficile da risolvere. Si dice che non servirebbe un nuovo Syllabus. […] Potreste voi pensare un poco a queste cose, e dirmi ciò che a voi sembra appropriato per illuminare le anime? Più sarete preciso, più questo mi sarà d’aiuto». Racconta il cardinale Cottier: «All’inizio di gennaio, durante un periodo trascorso a Parigi, Maritain redige un progetto di professio fidei. Lo termina l’11 gennaio, e il 20 invia il testo a Journet. Nella lettera d’accompagnamento scrive: “Sono stato contento di farlo: ansioso, allo stesso tempo, di ciò che voi ne penserete; e mortificato e confuso, d’aver dovuto, per redigere queste pagine, mettere per qualche istante, con l’immaginazione, un povero diavolo come me al posto del Santo Padre! Non c’è situazione più idiota”. Poi aggiunge: “Charles, fatene quello che volete, gettatelo nel fuoco se volete. Io sono in uno stato più miserabile che mai; e pur con questo, il documento che il Papa vi ha domandato di preparare mi sembra sempre più così d’importanza capitale”».
Journet, nella sua lettera di risposta, si dice «sbalordito di riconoscenza» alla lettura delle pagine di Maritain. L’indomani, invia il testo tale e quale a Paolo VI: «La questione», scrive Journet al Papa per giustificare il coinvolgimento del comune amico filosofo, «è così difficile, dato lo stato attuale degli spiriti, che io ho pensato di parlarne a Jacques Maritain, che da lungo tempo prega in questa direzione e la cui esperienza del mondo è grande. Io ho appena ricevuto da lui una risposta che Vi trasmetto tale e quale». Aggiunge all’invio due estratti della lettera che aveva ricevuto da Maritain il 20 gennaio. In uno di essi, Maritain suggerisce di radicare la nuova professione di fede «nei Credo antichi, ma con uno stile più semplice».
Dalle lettere emerge chiaramente che il testo elaborato da Maritain voleva essere soltanto una bozza sperimentale che fosse d’aiuto all’amico Journet. È Journet che, con un’iniziativa non concordata, “rigira” il testo sine glossa a Paolo VI. E non lo fa per “promuovere” agli occhi del Papa l’amico Maritain. Ma perché il testo preparato da Maritain gli appare davvero come la risposta sovrabbondante alle attese del momento. «Il miracolo», scrive Journet a Maritain il 24 gennaio, «è che tutti i punti difficili sono stati toccati e riposti in luce». Aggiunge il cardinale Cottier: «Quali fossero i dati essenziali della fede che occorreva confessare davanti alla confusione teologica del tempo, lo stesso Journet lo aveva chiarito nel rapporto che aveva inviato a Roma il 21 settembre ’67, dove enumerava i punti in cui il Catechismo olandese gli sembrava essersi allontanato dalla dottrina della Chiesa: “La caduta originale, il senso della Redenzione, la natura del sacrificio della messa, la presenza corporale di Cristo nell’Eucaristia, la creazione ex nihilo del mondo e di ciascuna anima umana, il primato di Pietro […]. La dottrina del battesimo e dei sacramenti della Nuova Legge […]; il ruolo della Vergine Maria, la sua maternità verginale […], la sua scienza delle cose divine, la sua Immacolata Concezione e la sua Assunzione”».
Paolo VI e Maritain durante la cerimonia di chiusura del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre 1965
Nell’introduzione al testo preparato su richiesta di Journet, Maritain aveva aggiunto alcuni suggerimenti di metodo. Secondo lui era opportuno che il Papa usasse una procedura nuova, confessando la sua professione di fede come una pura e semplice testimonianza: «La testimonianza della nostra fede, ecco ciò che noi vogliamo portare davanti a Dio e davanti agli uomini». Secondo Maritain, la pura e semplice confessio fidei avrebbe aiutato meglio la moltitudine delle anime travagliate, senza dover presentare la professione di fede come mero atto d’autorità: «Se il Papa avesse l’aria di prescrivere o d’imporre la sua professione di fede a nome del suo magistero, o dovrebbe dire tutta la verità, sollevando tempeste, o dovrebbe usare dei riguardi, evitando di trattare i punti più pericolosamente minacciati, e ciò sarebbe la cosa peggiore di tutte». La cosa più efficace e necessaria era confessare chiaro e forte l’integrità della fede della Chiesa, senza anatemizzare nessuno.
La prima risposta da Roma arriva il 6 aprile seguente, tramite una lettera inviata a Journet dal domenicano Benoît Duroux, a quel tempo collaboratore del segretario dell’ex Sant’Uffizio Paul Philippe. Duroux, anche a nome del vescovo Philippe, elogia la bozza di Maritain, «mirabilmente concepita». Aggiunge alcune puntualizzazioni – che Journet interpreta come provenienti dallo stesso Paolo VI – sul modo in cui la professio fidei andrà presentata al mondo. Secondo il domenicano di Curia occorre evitare che essa sia sminuita dai partiti ecclesiastici in lotta come se fosse una sorta di professione di fede personale di Giovanni Battista Montini, cosa che la renderebbe del tutto inefficace. Occorre che essa sia proclamata «evitando ogni allusione alla forma anatematica. Ma a nome di colui che occupa attualmente la sede dell’apostolo Pietro. In modo che tutte le ambiguità saranno escluse». Secondo Duroux andrebbe aggiunta anche la precisazione che quando la Chiesa si occupa delle questioni temporali non ha lo scopo di instaurare un paradiso sulla terra, ma semplicemente di rendere la condizione presente degli uomini meno inumana. Un’inserzione che servirebbe a sgombrare il campo da interpretazioni ambigue riguardo alle posizioni assunte da ampi settori ecclesiali soprattutto in America Latina davanti alle ingiustizie politiche e sociali.
Nel successivo scambio di lettere con Journet, Maritain si conferma pienamente d’accordo con le considerazioni provenienti da Roma. Riguardo al giudizio e all’azione della Chiesa nelle vicende temporali, suggerisce di citare nel nuovo Credo l’enciclica Populorum progressio. Questo suo consiglio non verrà accolto, ma evidenzia come nella mente del suo principale autore, il Credo del popolo di Dio fosse in piena continuità armonica con l’enciclica montiniana del 1967, che tante critiche aveva sollevato per il suo realismo di giudizio sulle cose del mondo.
Il Giovedì Santo del 1968, Journet e Maritain rispondono a Duroux per manifestare pieno consenso davanti alle puntualizzazioni giunte da Roma sulle modalità e il tono da impiegare in una eventuale professione di fede di Paolo VI. Montini, dal canto suo, risponderà con un breve biglietto di ringraziamento inviato a Journet. Poi, da Roma, silenzio.
Paolo VI serve il pranzo ai bambini vincitori del “Concorso Presepi” il 30 gennaio 1966
Il 30 giugno, Paolo VI proclama a San Pietro il Credo del popolo di Dio. Solo il 2 luglio, leggendo il giornale come ogni altro cristiano, Maritain ritrova nelle sintesi riportate ampi estratti del testo che lui aveva inviato a Journet all’inizio dell’anno.
Il Credo del popolo di Dio coincide sostanzialmente con la bozza preparata da Maritain. Lo studioso benedettino Michel Cagin, che sta per pubblicare la sinossi dei testi, conferma in una nota aggiuntiva preparata per il VI volume della Correspondance che la professio fidei firmata dal Papa riprende «la sua concezione di fondo – integrando la trama del Simbolo di Nicea-Costantinopoli con gli sviluppi omogenei del dogma sopravvenuti dopo quello –, e la sua stessa formulazione, sia letteralmente, sia condensandola un poco, omettendo certi ampliamenti, certe esplicazioni, per donare al testo lo stile conciso di un Simbolo». Ma allora, si tratta del Credo di Paolo VI o del Credo di Maritain?
Padre Cottier non ha dubbi. Ogni tentativo di liquidare la professio fidei di Paolo VI come esercitazione di un vecchio filosofo amico del Papa risulta fuori luogo: «Papa Montini aveva scartato già altri progetti, come quello predisposto da Congar. Il testo che si trova davanti, nelle intenzioni nell’autore non era indirizzato a lui, ma a Journet. Semplicemente, papa Montini ha riconosciuto nei contenuti e nella formulazione di quella bozza ciò che era suo compito confessare come pastore, a nome di tutti i sacerdoti e di tutti i fedeli. Nello stendere il suo testo, Maritain aveva solo seguito quasi istintivamente il sensus fidei, lo stesso che si esprimeva in maniera concorde nelle richieste provenienti dal Sinodo dei vescovi e che aveva ispirato Paolo VI nel proclamare l’Anno della fede. Con quella libertà che accompagna sempre le vicende della Chiesa, quando a guidare è il Signore. Al Successore di Pietro non restava altro che riconoscere e autenticare quelle formule, che ripetevano semplicemente l’insegnamento ricevuto da Cristo, che attrae i cuori con la sua grazia».
Nel suo taccuino, dopo aver letto i giornali del 2 luglio, anche il vecchio filosofo annotò con parole struggenti la sua emozione, mettendo tutto a conto dell’aiuto celeste di sua moglie: «Sono confuso. Travagliato dal fatto di essere stato ingaggiato in un mistero che mi sorpassa così tanto. Per fortuna è Raïssa che ha tutto condotto, che ha fatto tutto, dopo l’inizio di questa straordinaria avventura».