Gli intravisti sorrisi della Grazia in terra d’esilio
Massimo Lippi ha posto a introduzione del suo ultimo libro di poesie un verso della Salve Regina. Dieci anni fa utilizzò come esergo di un’altra sua raccolta di liriche il Magnificat. Così questo poeta cristiano tesse le sue povere parole come preghiere e le rivolge al cielo
di Paolo Mattei
Massimo Lippi, Exilium, Cantagalli, Siena 2008, 192 pp., euro16.00
Exilium, proprio il titolo dell’ultima raccolta di liriche di Massimo Lippi, riporta nell’esergo il verso «nobis post hoc exilium ostende», dalla Salve Regina, la preghiera in cui si chiede alla Madonna che mostri agli «exules filii Evae» Gesù, il frutto benedetto del suo seno, nato alla terra duemila anni fa. Dopo l’annuncio dell’angelo, e dopo che nel grembo di Elisabetta aveva sussultato di felicità il bambino Giovanni, fiorirono sulle labbra di Maria le parole del Magnificat, che Lippi ha voluto utilizzare poco più di dieci anni or sono per introdurre alla lettura di Passi il mondo e venga la grazia, silloge edita da Scheiwiller e salutata da Pier Vincenzo Mengaldo sul Corriere della Sera come l’opera di un poeta che «si abbandona […] agli intravisti sorrisi della Grazia, pace anche per il lettore non credente».
Gli intravisti sorrisi della Grazia: Lippi li racconta coi singulti della sua lingua, mescidata e franta proprio come la terra che si sfarina tra le mani e che può germinare, grazie al cielo, i più bei fiori: «Andare per trasalimenti / da quest’esilio ad un altro / costantemente avversi / e fatti salvi / da la mano che sbuca / oltre la ràgia di nuvolette / come fossero il vestito bono / del Pastore / che traccia col rosso / del sangue / l’abbeverata dell’agnelli». I sorrisi della Grazia, quelli che il bambino Gesù regalò dalla sua culla ai poveri pastori chiamati ad adorarlo, e che in ogni Natale si aprono ai poveri, a tutti, anche ai non credenti, come accennò Mengaldo, contenti della buona fortuna di poterlo incontrare ancora su questa terra d’esilio. Da loro, quel Bambino, che li ama così tanto, non desidera altro che di essere voluto bene; e come si fa a non volergliene: «Basterà un fastellino / asciutto bene / d’ogni nostro dolore / o di creatura misericorde / docile in ascolto / bontà nascosta / che offra a Dio nei poveri / almeno un bicchier d’acqua / un fruscèllo di Speranza / lieve corona».
Leggere le poesie di Lippi è come farsi “una girata” in sua compagnia a Siena e nella bellissima campagna dei dintorni, sentirlo parlare di Duccio e Simone Martini, ascoltarlo raccontare le storie dei santi passati da lì e quelle dei suoi amici sconosciuti al mondo, ma notissimi al piccolo popolo della Val d’Orcia. A volte le parole premono forte nel cuore, e fuoriescono, quasi gemiti inesprimibili, per dire di giorni che sembrano d’abbandono: «Qui dilaga un piangere / sommesso / l’immane linfa che deserto / avanza / senz’altri profeti de le rondini / ora che ingollano i moscini». A volte i versi sono un grido, un richiamo nella notte, alla gente cristiana che ieri abitò quei luoghi e che oggi pare abiti soltanto i ricordi dell’infanzia: «Popolo mio / atticciato forte / al sangue de’ Martiri / a la vena rotta de’ secoli / nel gran cuore d’altri popoli, / dove sei?». A volte sembrano arrendersi alla sconsolata constatazione di come ogni sforzo umano messo in atto per conservare la bellezza dell’istante non basti a riscaldare il cuore nell’ora che fulminea trascorre: «La memoria / di oggi / non sarà / che niente, / stasera. / Finirà tutto in pula / la boria stanca / del giorno».
Ma la poesia di Lippi è una preghiera che anche solo la bellezza del creato – i colori e i profili così dolci e inebrianti della campagna senese, in qualsiasi stagione dell’anno lo sguardo si imbatta nei suoi coltivi e nelle sue miti colline punteggiate di cipressi – può far affiorare sulle labbra: «Noi che da sempre / abbiamo di Te / quel vago tremore / che spicca / il ramo dai fiori / e tende / nel gelo ultimo di marzo / al tuo rossore / a la palma ariosa del vento».
Questo libro è un viaggio nella terra d’exilium del poeta, un viaggio in versi nell’esilio di ogni cristiano, di ogni uomo, dove ogni istante può far scorgere il dramma estremo del pericolo mortale, ma in cui la morte, grazie al cielo, non ha più l’ultima parola: «Fermate o Santi / del nostro cielo / il diabolico assalto / con l’umile / potentissima preghiera».
E le parole di quel popolo, con le quali il poeta modella le proprie liriche e che si mischiano in vertiginosa e policroma armonia con le preghiere della tradizione cristiana e con i Salmi, sono un piccolo dono di riconoscenza nei confronti del Creatore, così grande che nessuna parola è in grado di comprenderlo: «Quanto è vasto / l’Amore / anche / se non grida. / Quant’è gioioso / il bene che tragitta e spera / quale grido nascosto / quale profonda carità / sincera».
Così, dal Magnificat alla Salve Regina recitate ogni giorno, questo poeta cristiano tesse come preghiere le sue povere parole – e le sue sculture – di terra, e le rivolge al cielo, serbando nel cuore e nella voce l’eco dell’«ad te clamamus» affinché nel viaggio mai manchi la compagnia di intravisti sorrisi della Grazia: «Tra nidi e giunchiglie / pastura / l’altra moribonda vita / a lei ricorre / la placida notte / la silente piuma / de la Speranza».