IL CANONE E IL CONCILIO DI TRENTO
Breve nota sulla traduzione italiana del Canone Romano
di Lorenzo Bianchi
L’inizio del Canone Romano, Sacramentario gelasiano, detto di Gellone (secolo VIII), Bibliothèque nationale de France, Parigi
Tranne queste variazioni di Paolo VI, il testo che oggi appare nel Messale in latino di cui, il 20 aprile 2000 è stata approvata la terza edizione successiva alla riforma liturgica postconciliare, è identico al testo che il Concilio di Trento ha definito, nella sessione XXII (17 settembre 1562), come dogmaticamente immune da errori e non modificabile.
Il testo del Canone è in uso fin dai primissimi tempi della Chiesa, noto in redazioni originariamente in lingua greca e in lingua siriaca; la versione latina comincia ad apparire a partire dalla seconda metà del IV secolo, quando nella Chiesa di Roma il latino sostituisce il greco nella celebrazione del sacrificio della messa, e risale sostanzialmente nella sua attuale forma all’epoca di papa Gregorio Magno (fine VI secolo).
Il Canone è anche l’ultima parte della messa a essere stata tradotta, a seguito della riforma postconciliare, nelle lingue attuali. Le prime richieste di poter utilizzare nella celebrazione della messa traduzioni del Canone nelle varie lingue volgari risalgono già alla fine del 1966. In particolare la prima richiesta partì dalla Conferenza episcopale olandese, e il 21 ottobre 1966 venne incaricato di esaminare la questione il Consilium ad exsequendam constitutionem de sacra liturgia, di cui era segretario monsignor Annibale Bugnini. Il 13 febbraio 1967 le varie commissioni delle principali lingue vennero incaricate dal Consilium di preparare le traduzioni, «letterali e fedeli».
Intanto, l’istruzione della Congregazione dei Riti Tres abhinc annos del 4 maggio 1967 concedeva alle Conferenze episcopali la facoltà di usare la lingua volgare nel Canone. Le prime traduzioni furono inizialmente respinte, poiché risultate troppo libere e semplificate, dalla Congregazione per la Dottrina della fede, che in particolare tramite il Consilium richiese che si rendesse «fedelmente il testo del Canone Romano, senza variazioni o omissioni o inserzioni» che le differenziassero dal testo latino (comunicazione del Consilium alle conferenze episcopali del 10 agosto 1967, approvata da Paolo VI il 4 agosto precedente); nello stesso tempo si faceva presente il «desiderio del Santo Padre che i messali... portino sempre a lato della versione in lingua volgare il testo latino, su doppia colonna, o a pagine rispondenti, e non in fascicoli o libri separati»: desiderio che di fatto trovò molte resistenze, tanto che Paolo VI il 10 novembre 1969 dovette dispensare da tale principio, stabilendo che la parte latina fosse stampata in appendice al Messale (ma anche questa disposizione verrà di fatto ignorata).
Dalla documentazione dell’epoca sembra trasparire quasi una faticosa resistenza del Papa di fronte a richieste di variazioni spesso giustificate con «gravi motivi pastorali», e nello stesso tempo una sorta di malumore dei traduttori a fronte delle precisazioni del Papa (cfr. ad esempio quanto dice lo stesso Annibale Bugnini in La riforma liturgica (1948-1975), CLV-Edizioni liturgiche, Roma 1983, p. 116: «Il Consilium era perplesso...», e p. 117: «Le Conferenze, e soprattutto le Commissioni liturgiche, non rimasero molto entusiaste: vi vedevano quasi un atto di sfiducia nel loro lavoro, al quale veniva preferita la traduzione dei messalini, letterariamente spesso scadente»).
Alla fine, comunque, si giunse all’approvazione della prima traduzione, quella francese, che il 31 ottobre 1967 venne inviata come modello alle Conferenze episcopali.
Poco dopo, il 13 gennaio 1968, fu approvata la prima versione italiana che andò in uso dalla domenica Laetare, 24 marzo 1968.
Tutte queste prime traduzioni riguardano evidentemente il testo del Canone senza le variazioni introdotte da Paolo VI.
Nell’attuale traduzione italiana, la chiarezza del testo latino ha talvolta perso qualcosa: sarebbe forse opportuno correggere, in occasione della traduzione della terza edizione del Messale latino, imprecisioni nella lettera all’apparenza minime ma che rendono in qualche caso differente anche il contenuto.
Un esempio è la parte del Canone in cui si prega per i ministri celebranti. Dice il testo latino:
«Nobis quoque peccatoribus famulis tuis, de multitudine miserationum tuarum sperantibus, partem aliquam et societatem donare digneris, cum tuis sanctis Apostolis et Martyribus: cum Ioanne, Stephano, Matthia, Barnaba, Ignatio, Alexandro, Marcellino, Petro, Felicitate, Perpetua, Agatha, Lucia, Agnete, Caecilia, Anastasia, et omnibus Sanctis tuis: intra quorum nos consortium, non aestimator meriti, sed veniae, quaesumus, largitor admitte».
Messale ambrosiano (fine XI-inizio XII secolo), Biblioteca Ambrosiana, Milano
«Anche a noi, tuoi ministri, peccatori, ma fiduciosi nella tua infinita misericordia, concedi, o Signore, di aver parte nella comunità dei tuoi santi apostoli e martiri: Giovanni, Stefano, Mattia, Barnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino e Pietro, Felicita, Perpetua, Agata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia e tutti i santi: ammettici a godere della loro sorte beata non per i nostri meriti, ma per la ricchezza del tuo perdono».
Il testo latino presenta due espressioni, “aestimator meriti” e “largitor veniae”, riferite al Signore, dove “aestimator” e “largitor” sono i soggetti, e “meriti” e “veniae” gli oggetti. “Aestimator” è colui che fa la stima, la valutazione puntuale, colui che conta le cose una per una: è il termine che si usa, ad esempio, per il cambiavalute. “Largitor”, al contrario, è colui che distribuisce con abbondanza, senza preoccuparsi di ricevere in cambio.
È ben chiaro dal testo che la contrapposizione è tra i due atteggiamenti del Signore; e non tra i due oggetti, il merito e il perdono (la misericordia gratuita).
I traduttori italiani invece, forse intendendo il “non” latino riferito a “meriti” e non anche ad “aestimator” (che non viene tradotto), hanno trasformato la frase, creandone una nuova in cui la contrapposizione appare spostata fra i due oggetti (“meriti” e “veniae”). Si è introdotta in tal modo come una opposizione dialettica tra i meriti s en accordant ton pardon». In italiano questa parte potrebbe dunque essere trasposta alla lettera con «senza misurare il merito, ma elargendo con abbondanza il tuo perdono». Una traduzione come questa o simile a questa manterrebbe infatti, conformemente al testo latino, il riferimento dell’antitesi all’atteggiamento del Signore, cui viene chiesto di giudicare non secondo una rigida applicazione della legge, ma secondo la misericordia. Non dunque, ripetiamo, i meriti considerati in alternativa alla grazia, ma innanzitutto come dono di Dio secondo quanto da bambini abbiamo imparato a ripetere nell’Atto di speranza: «Mio Dio, spero dalla tua bontà, per le tue promesse e per i meriti di Gesù Cristo, nostro Salvatore, la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla con le buone opere, che io debbo e voglio fare. Signore, che io non resti confuso in eterno».