Home > Archivio > 09 - 2011 > Dalla Valtellina alle Ande
RACCONTI DALLE MISSIONI
tratto dal n. 09 - 2011

Operazione Mato Grosso

Dalla Valtellina alle Ande


«Ho sempre desiderato vedere con i miei occhi come fosse l’oratorio di Valdocco quando c’era don Bosco. Il mio desiderio è stato esaudito qui, ai piedi delle Ande».
Così il cardinale Martini visitando la missione del salesiano Ugo de Censi, iniziatore dell’Operazione Mato Grosso. Ne raccontiamo la storia


di Giovanni Ricciardi


Padre Ugo de Censi con padre Daniele Badiali a Yanama, in Perù, nel 1992 [© Don Mirko Santandrea]

Padre Ugo de Censi con padre Daniele Badiali a Yanama, in Perù, nel 1992 [© Don Mirko Santandrea]

 

Padre Ugo de Censi oggi ha ottantasette anni, e sessanta di sacerdozio nella congregazione salesiana. Dal 1976 vive a Chacas, un paesino sperduto dell’est del Perù, ai piedi della Cordigliera delle Ande, che gli ricordano, nella loro maestosità, le montagne della sua Valtellina. Un luogo dove la vita è precaria, i mezzi di sostentamento devono ogni giorno essere strappati alla montagna, e la povertà è la condizione di tutti.
«Con los pobres de la tierra quiero yo mi suerte echar», canta una delle più famose melodie latinoamericane, Guantanamera: un verso che riassume, nella sua bellezza, la bellezza dell’esperienza missionaria di padre Ugo: «Con i poveri della terra voglio gettare la mia sorte». Gettare la sorte, scommettere, seminare un seme che a Chacas ha dato un frutto eccezionalmente abbondante, tanto che il cardinale Martini, quando visitò la missione per inaugurare una casa donata dalla diocesi di Milano, disse: «Ho sempre desiderato vedere con i miei occhi come fosse l’oratorio di Valdocco quando c’era don Bosco. Il mio desiderio è stato esaudito qui, ai piedi delle Ande».
Padre Ugo ritorna ogni tanto in Italia per incontrare i gruppi di volontari che da molti anni gli danno una mano raccogliendo ogni mese cibarie, vestiti, e lavorando gratuitamente per inviare denaro alla missione: un’esperienza aconfessionale, senza un’identità giuridica nella Chiesa, in cui sono accolti tutti quelli che hanno voglia di dare una mano. Dagli anni Settanta, il suo nome non è cambiato: si chiama Operazione Mato Grosso. Padre Ugo predica dei ritiri per chi desidera un momento più spiccatamente cattolico all’interno del movimento. Le formule sono semplici, si prega secondo la tradizione della Chiesa, si sta in ginocchio, anche per confessarsi. C’è tanta gente, che in silenzio prende appunti che il padre detta, come un maestro elementare, aggiungendo poco a voce. Quest’anno il tema è stato: “Bernadette e Aquerò”. Scopo del ritiro: “Imparare a far bene il segno di croce”.
Il riferimento a Lourdes non è un caso, ma una tappa fondamentale nella vita di questo salesiano “vivace, allegro e contestatore”, come lo definivano i suoi superiori. Ma anche cagionevole di salute. La spondilite tubercolare che gli fu diagnosticata in seminario lo aveva tenuto fermo per tre anni in ospedale. E la fistola aperta che lo costrinse a una degenza così lunga si chiuse solo davanti alla grotta di Massabielle. Così padre Ugo, finalmente ristabilito, poté essere ordinato prete nel 1951 dal cardinale Schuster, nel Duomo di Milano. «Ma i superiori», racconta, «mi consideravano comunque una testa calda. E così, per “farmi passare la voglia di scherzare” mi diedero l’incarico di direttore spirituale di un riformatorio maschile ad Arese». Lì rimase per ben vent’anni: «E lì ho imparato che le parole religiose non servono a niente. I ragazzi che ascoltavano i miei sermoni si giravano dall’altra parte. E alla fine, di fronte alla mia delusione, qualcuno diceva: “Ma ti sei guardato? Ma non vedi che faccia hai? Cerca almeno di volermi un po’ di bene”».
E così, sul finire degli anni Sessanta, commosso dai racconti dei confratelli missionari che parlavano della povertà e delle immense esigenze delle missioni, iniziò a viaggiare in Sud America e a organizzare aiuti per queste opere salesiane. Finché, nel 1976, a 52 anni, prese la decisione di andare a vivere stabilmente in Perù, a Chacas. Ad accompagnarlo, alcuni ragazzi usciti dal riformatorio di Arese. «Avevo perso molto dell’esteriorità della religione. Ma a Chacas sono ritornato bambino. E ho riscoperto le cose semplici della fede: la vita di Gesù e la devozione, cantare bene in chiesa, tenere le mani giunte nella preghiera. Queste cose le ho riprese con i ragazzi della missione».
«Io per ora faccio il prete», scriveva nei primi mesi della sua permanenza sulle Ande: «Chacas ha una chiesa enorme, la domenica si riempie di gente, tutti silenziosi. Io mi sento a casa mia, li sento la mia gente. Mi piace farli cantare. Sento che mi vogliono bene, vorrei conoscerli uno ad uno». E ancora: «Io credo che qui farò proprio il prete all’antica: catechismo, canto, visitare gli ammalati, messe… con questa gente che ha bisogno di pane, strade, lavoro, igiene. Per trovare soluzione a questi bisogni mi aiuteranno i ragazzi dell’Operazione che verranno».
E questo avvenne, negli anni a seguire. Con l’aiuto dei volontari dell’Operazione Mato Grosso, padre Ugo ha realizzato un numero impressionante di opere di carità: scuole professionali per intagliatori del legno, per infermiere e maestre di scuola, un ospedale a Chacas, case per bambini orfani o abbandonati, riparazione e costruzione di ponti e strade, addirittura la realizzazione di una centrale idroelettrica che fornisce energia al paese. Tutte queste opere portano i nomi di don Bosco o di Maria Ausiliatrice, nella più genuina tradizione salesiana. E naturalmente, non poteva mancare l’oratorio per migliaia di bambini e ragazzi, che lo affollano ogni domenica.
«Dovreste venire a Chacas», scrive di padre Ugo un suo confratello e collaboratore salesiano, «per conoscere la sua casa, perché possiate scoprire la ricchezza di un cuore libero come il suo, un cuore del quale è facile innamorarsi. Scoprireste che la casa del padre Ugo è una piazza senza mura, senza porte, non perché non ci siano ma perché sono state buttate giù dalla gente che alla porta si è accalcata per entrare in casa. Un po’ come dice il Salmo: “Della vigna del Signore sono state abbattute le mura di cinta e ogni viandante ne fa vendemmia”».

Il santuario di Pomallucay in Perù (presso il quale dal 1992 sorge il seminario della diocesi di Huari) progettato e realizzato dai volontari dell’Operazione Mato Grosso <BR>[© Don Mirko Santandrea]

Il santuario di Pomallucay in Perù (presso il quale dal 1992 sorge il seminario della diocesi di Huari) progettato e realizzato dai volontari dell’Operazione Mato Grosso
[© Don Mirko Santandrea]

In questi anni, centinaia di volontari italiani hanno fatto l’esperienza di dedicare alcuni mesi ad aiutare padre Ugo nella sua missione. Qualcuno si è fermato per più di un anno, qualcun altro ha deciso di rimanere per sempre. Altri hanno sentito per l’esempio del padre il desiderio di seguirlo sulla via del sacerdozio. Padre Ugo ha fondato così un seminario per aspiranti al sacerdozio che poi vengono “donati” alle diverse diocesi del Perù, non avendo l’Operazione Mato Grosso un inquadramento giuridico nella Chiesa. Tra loro, c’è stato un giovane prete italiano, padre Daniele Badiali, che ha concluso la sua esistenza terrena nel 1997, assassinato da un gruppo di banditi che lo avevano rapito per chiedere un forte riscatto.
Padre Daniele aveva maturato la sua vocazione nell’Operazione Mato Grosso. Due anni di volontariato a Chacas, dal 1984 al 1986, lo portano a prendere la decisione definitiva. Rientra a Faenza, studia nel Seminario regionale di Bologna e, subito dopo la sua ordinazione per la diocesi di Faenza – Modigliana, viene inviato come sacerdote fidei donum alla diocesi di Huari in Perù, per aiutare padre Ugo nella sua missione, prendendo in carico, il 1° settembre 1991, la parrocchia di San Luis, sulla Cordillera Blanca: un territorio vasto, con più di sessanta paesini sparsi sulle montagne, che si raggiungono solo a piedi o a cavallo. Padre Daniele cerca di raggiungere tutte le comunità, anche le più lontane, e la sua casa parrocchiale diventa un punto di riferimento per i tantissimi bisogni dei poveri. In una sua lettera descrive questa condizione: «Ho rubato questo tempo per scrivere alla gente che continuamente bussa alla mia porta per chiedere viveri, per chiedere medicinali, per chiedere, per chiedere, per chiedere… Sono intontito da questi assalti continui, mi è difficile uscire di casa, subito vedo che mi corrono dietro per cercarmi, per chiedere. Non so cosa fare… Scapperei di fronte a tutto questo, perché non so dire di sì e sento bene che non posso negargli l’aiuto… Sono chiamato a dare via tutto sapendo che domani ricomincio daccapo e devo dare ancora via tutto. La spina me la mettono i poveri ed è un dolore continuo che vorrei calmare ma non dipende da me. È mezzogiorno, vado a mangiare con i ragazzi del taller [officina, ndr], una vecchietta è qui sull’uscio di casa. Non parla, altri invece ti supplicano fino a stancarti. Il suo silenzio mi è arrivato al cuore, chiudo gli occhi, vado giù a prendere una scodella di minestra, la pasta è quella italiana: gliela do, mi vergogno, è lei che deve implorare a Gesù la grazia che mi salvi. Mi ringrazia con un sorriso che mi sembra dolcissimo. Se dietro questa vecchietta così sporca ci fosse davvero Gesù?».
Inizia il lavoro dell’oratorio con i bambini. Nel marzo del 1992 ne prepara quattrocento alla prima comunione. Nell’ottobre di quello stesso anno, un volontario e amico di Daniele, Giulio Rocca, che stava maturando anch’egli la vocazione al sacerdozio, viene ucciso da un gruppo di terroristi. Daniele scrive così della sua morte: «Giulio è morto come un martire, non l’ha scelto lui, la situazione delle cose l’ha portato a morire con una morte violenta simile a quella dei martiri. Ora è chiaro anche per me il cammino dell’Operazione Mato Grosso: perdere la vita fino al martirio. Tutto ciò mi spaventa, ma nello stesso tempo sento una quiete dentro di me…».
Negli anni seguenti, a parte qualche rientro in Italia per motivi di salute, si dedica anima e corpo al lavoro della missione. Costruisce un rifugio andino con i suoi ragazzi per accogliere scalatori e turisti e ricavare con i guadagni un aiuto economico ai più poveri. Nel 1997, pur avendo programmato un ritorno in Italia, decide di restare in Perù assumendosi anche gli impegni di padre Ugo, venuto in Italia per predicare i ritiri ai volontari. Passa otto settimane nel paese di Yanama per portare ottocento bambini alla cresima. Tutti i venerdì li prepara alla confessione: è il momento più importante per padre Daniele, che in quell’ultimo anno della sua vita lo descrive così: «Oggi è il giorno della Passione. Sono senza parole, vorrei solo piangere. Ho sentito freddo. Desideravo la mano dei ragazzi, non chiedevo che venissero al mio posto, ma solo che mi dessero la mano. Cosa vuol dire dare la mano a uno che soffre? Dovevo parlare della morte di Gesù, non potevo dirla come una favola. La distrazione dei ragazzi mi ritornava dritta al cuore come le risa del diavolo: “Cosa ti affanni, cosa ti agiti, è tutto inutile…”. Almeno dovevano pregare o tenere le mani giunte. Ma non si può pretendere, bisogna solo dare… perdonare. Mi sono sentito un condannato, la stessa scena della Passione si ripeteva qui. Ricevevo tutti i colpi. Ho dovuto accettarli tutti, sarebbe stato un errore non volerli. Spero solo che questo soffrire serva a qualcuno. Lo offro. Dio mio, solo di Te desideravo dire ai bambini».
Al suo ritorno nella parrocchia di San Luis, il 10 marzo 1997, incomincia la preparazione per la comunione di cinquecento bambini: due settimane di intensa condivisione, divisa tra catechismo, preghiera e giochi, fino al Giovedì Santo in cui avrebbero ricevuto per la prima volta Gesù. Padre Daniele lavora instancabilmente e insieme attende il ritorno di padre Ugo dall’Italia. In quei giorni scrive: «Mi ritrovo incapace di abbandonarmi, di lasciare a Dio condurre ogni cosa: anche se mi sembra di giocare tutto, mi ritrovo che ancora devo scommettere a favore di Dio. Essere servi inutili è davvero chiamare il padrone, lasciargli in mano ogni cosa, non voler condurre nulla. Essere servi di Gesù è davvero invocarlo con le sue stesse armi: la bontà, il perdono, l’abbandono, la pazienza, un sorriso… il morire».
Padre Daniele durante una confessione [© Don Mirko Santandrea]

Padre Daniele durante una confessione [© Don Mirko Santandrea]

Sei giorni dopo, il 16 marzo, una domenica, dopo aver celebrato la messa serale nel paesino di Yauya, si trova improvvisamente la strada bloccata da pietre. Compare un bandito armato che chiede una persona in ostaggio. Una volontaria italiana, Rosamaria, fa per scendere dalla jeep, ma Daniele la ferma: «Vado io, tu rimani». In un biglietto da consegnare a padre Ugo è indicata una richiesta di riscatto per il prigioniero. Ma due giorni dopo, il 18 marzo, il corpo di padre Daniele viene ritrovato in una scarpata piena di pietre. Giorni prima, quando era ancora in libertà, aveva scritto a un amico in Italia, a proposito della “buona battaglia” della fede: «Soprattutto ci si accorge che la battaglia a favore di Dio è già persa… si deve morire sul campo di battaglia perché entri Dio a vincere il nemico, il diavolo. Noi dobbiamo solo preparare la venuta di Dio. Costa tanto, perché dobbiamo dare la vita per un Dio che conta sempre meno nella vita degli uomini. Te ne accorgerai ben presto, che quel Dio al quale desideri servire non è poi così tanto cercato e ben voluto dagli uomini. E più andrai avanti, più ti sembrerà che questo Dio scompaia dalla vita degli uomini, anche dalla nostra. Ti lascia da solo a rappresentarlo sul campo di battaglia. Ti chiederai spesso: “Ma quando arriverà il Signore?”. Non sentirai nessuna risposta, tu stesso dovrai dare la risposta con la tua vita. Il generale entrerà quando e come vorrà Lui… Non conosciamo né il momento, né l’ora… L’unica cosa certa sono le disposizioni lasciate per combattere il nemico: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri… Se vuoi essere mio discepolo prendi la mia croce e seguimi…”. Tuo compagno di battaglia, padre Daniele». Ora, presso la diocesi di Faenza – Modigliana, si è dato l’avvio al suo processo di beatificazione.
Dal martirio di padre Daniele è nato un fiorire di vocazioni nell’Operazione Mato Grosso. Oggi il seminario della diocesi di Huari ha circa quaranta aspiranti al sacerdozio e la missione di padre Ugo è più attiva e florida che mai. Anche se lui, a quasi novant’anni di età, non ne vuole sapere di nominare un successore, né di dare una regola alla sua opera: «Se è opera di Dio», ripete spesso, «allora resterà. Altrimenti è meglio che finisca».
Alla sua veneranda età, sembra veramente tornato un bambino: «Dio non è ciò che ho», dice, «ma ciò che mi manca e che più desidero. Non so far altro che riconoscere la mia incredulità. Essere peccatore, essere incapace di vivere di Dio, essere un poveraccio che ha bisogno solo della misericordia di Dio, bisogno di Dio. Che Dio mi prenda e faccia di me ciò che Lui vuole. Ma che mi prenda».

 

 

 

 

 

PER SAPERNE DI PIÚ

 

Operazione Mato Grosso

Ci puoi contattare via e-mail all’indirizzo info@donbosco3a.it

Per informazioni riguardanti l’omg, i gruppi di lavoro in Italia, i campi di lavoro estivi e su come aiutare l’omg, contatta direttamente l’indirizzo info@operazionematogrosso.it, oppure visita il sito www.operazionematogrosso.it.

 

Per contribuire al processo di beati­fi­cazione e canonizzazione di padre Daniele Badiali (dando la propria testimonianza su padre Daniele, portando lettere scritte da lui, fornendo racconti di eventi miracolosi attribuiti alla sua intercessione) rivolgersi a don Alberto Luccaroni, giudice delegato. Per ricevere informazioni e pubblicazioni su padre Daniele rivolgersi a don Mirko Santandrea, vicepostulatore.

 

Per ulteriori informazioni visita il sito www.padredanielebadiali.it



Español English Français Deutsch Português