Giovanni Palatucci, il questore giusto
La figura dell’ultimo questore di Fiume italiana, morto di stenti e sevizie nel campo di sterminio di Dachau nel febbraio 1945, dove era stato internato per aver salvato oltre cinquemila ebrei
di Piersandro Vanzan S.I.

Giovanni Palatucci (a sinistra nella foto) con degli amici a Fiume, dove giunse nel 1937
Del resto consola constatare quanto la memoria del nobile martire Giovanni, a onta di quelli che pensavano ne restasse soltanto il numero di matricola, cresca ognor più tanto nelle comunità ebraiche del nostro Paese e del mondo, quanto tra le comunità ecclesiali, le istituzioni e le autorità civili, registrando un aumento di iniziative massmediali e culturali, di titoli in memoria, di intitolazioni di vie, piazze e scuole. L’acme di questo crescendo sta nel processo di beatificazione in corso presso la Chiesa cattolica, con causa intestata al «Servo di Dio Giovanni Palatucci, laico, funzionario della polizia di Stato, martire in odio della fede».
Sorvolando sul periodo degli studi e del servizio militare, fermiamo la nostra attenzione sugli eventi che, tra il 1935 e il ’37, rivoluzionarono la sua vita. Superati brillantemente gli esami di procuratore legale e iscritto all’albo di Ivrea, pareva realizzarsi il sogno del padre, che lo voleva avvocato in Irpinia, dato che nella zona Giovanni poteva contare su buone relazioni per aprirsi una strada brillante: uno zio vescovo e altri due zii francescani molto conosciuti a Napoli. E invece, deludendo il padre – «mi è impossibile domandare soldi a chi ha bisogno del mio patrocinio per avere giustizia» –, entrò nella Polizia di Stato. Ma fin dal primo incarico, alla questura di Genova, si rivelò un funzionario scomodo per l’ovvia ragione che, intelligente e retto com’era, non poteva accettare le varie disfunzioni, che addirittura denunciò mediante una autointervista pubblicata su un quotidiano locale.
Il servo di Dio, infatti, si rifiutava di tradire i princìpi e i valori nei quali credeva. Ma il regime fascista non sopportava le critiche, tanto più se mosse da un funzionario di polizia, sicché fu mandato letteralmente “al confine”. E così il 15 novembre 1937 raggiunse la questura di Fiume, ma quella che doveva essere una punizione si rivelò l’opportunità per realizzare alla grande quell’umanesimo integrale cristiano nel quale credeva fermamente, senza compromessi. A Fiume infatti, come responsabile dell’ufficio stranieri, il servo di Dio accosta con gentilezza non soltanto la varia umanità di quel crocevia etnico-religioso, ma soprattutto la comunità ebraica, progressivamente turbato dalle nubi che si addensano su di essa e la minacciano. Tutt’attorno infatti, nei territori iugoslavi occupati dai nazisti e dagli ustascia croati, infuria l’antisemitismo e Fiume diventa l’ultima via di salvezza per quanti fuggono dai Balcani3. Ma gli eventi precipitano. La follia razziale di Hitler contagia pure Mussolini il quale, preoccupato di rendere credibile l’Asse Roma-Berlino, il 14 luglio 1938 pubblica Il manifesto della razza che, tradotto in legge (17 novembre 1938), segna la fine della relativa tolleranza precedentemente dimostrata verso gli ebrei.
In questo frangente emerge in pieno l’animus di Giovanni Palatucci, il quale pronuncia una frase che vale un trattato: «Vogliono farci credere che il cuore sia solo un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello che il cuore e la nostra religione ci dettano». Conseguenza: proprio in questura, con l’aiuto di fidati collaboratori, organizza una rete che in vari modi aiuta quanti sono in pericolo. Così proprio lui, che istituzionalmente avrebbe dovuto contrastare la fuga degli ebrei, o li istradava con documenti falsi verso la Svizzera o Israele – allora sotto protettorato inglese –, o più tardi, via mare, sulle coste del Meridione già liberato, o trovava il modo di smistarli nei campi profughi italiani, primo fra tutti quello di Campagna (Sa), dove lo zio vescovo si prodigò non meno del nipote verso i “fratelli maggiori”. Nel frattempo, Giovanni li forniva di strani permessi di soggiorno, per garantire un minimo di sicurezza, o li nascondeva presso famiglie o comunità religiose sicure. In questa epopea della carità, troviamo episodi che hanno del romanzesco e spiegano il vezzo giornalistico di fare di Giovanni lo «Schindler irpino». Come quando, nel marzo 1939, oltre ottocento fuggiaschi dalla Iugoslavia, su una nave greca, erano diretti verso il porto di Fiume, non sapendo che la Gestapo era in agguato. Palatucci, avvertito della trappola, li sottrasse alla cattura raggiungendo la nave in alto mare e dirottandola nella località di Abbazia, dove furono accolti nel locale seminario dall’allora vescovo di Fiume monsignor Sain.

PiersandroVanzan – Mariella Scatena, Giovanni Palatucci il questore “giusto”, Edizioni Pro Sanctitate, Roma 2004, 152 pp., euro 10,00
La notte del 13 settembre 1944, su ordine del tenente colonnello delle SS Kapler, fu perquisita l’abitazione del reggente e venne trovata copia del piano riguardante lo Stato libero e autonomo di Fiume. Accusato di intelligenza col nemico fu tradotto nel carcere Coroneo di Trieste e, nell’ottobre 1944, istradato a Dachau. Fu l’ultimo suo viaggio, ma alla partenza da Trieste gli riuscì ancora un gesto della sua caratteristica pietas amorosa. Come sappiamo dai testimoni, quando il brigadiere di pubblica sicurezza Pietro Capuozzo apprese del treno che avrebbe portato a Dachau il Palatucci, aiutato da un collega della polizia ferroviaria raggiunse i carri piombati e, camminando su e giù per il marciapiede, lungo i vagoni, discuteva animatamente con l’amico nella speranza che Giovanni lo sentisse e potessero così salutarsi per l’ultima volta. A un tratto gli cadde un bigliettino tra i piedi e sentì la voce di Palatucci: «Capuozzo, accontenta questo ragazzo. Avverti sua madre che sta partendo per la Germania. Addio». Raccolto sul binario della morte, quel bigliettino – con indicate famiglia e via di Trieste – resta l’ultimo segno e come il testamento spirituale di un funzionario che letteralmente ha speso tutta la vita per gli altri.