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CONCISTORO
tratto dal n. 01/02 - 2006

Le scelte di Benedetto XVI

A piccoli passi


L’analisi del vaticanista della Stampa: le scelte di papa Ratzinger sono state comunicate il 22 febbraio al termine dell’udienza generale del mercoledì, con l’atteggiamento sorridente, e quasi lievemente autoironico, che gli piace assumere a tratti, quasi a dire: guardate qua che cosa mi tocca fare!


di Marco Tosatti


Benedetto XVI

Benedetto XVI

Un Concistoro per la creazione di nuovi cardinali è un mosaico composto di tanti elementi diversi. In primo luogo ci sono quelli che si possono chiamare gli “atti dovuti”: le berrette cardinalizie che vanno conferite quasi automaticamente, perché in caso contrario la missione di chi non le riceve ne sarebbe sminuita in maniera fortissima, tale da pregiudicare la sua permanenza stessa in quel posto. Poi – ma la lista non è compilata secondo una scala gerarchica di priorità – ci sono le esigenze della tradizione, secondo cui una certa città ha storicamente goduto per lungo tempo del privilegio di avere alla testa della sua comunità cattolica un cardinale, cioè una persona che fa parte di quel circolo relativamente ristretto di uomini che possono fregiarsi del titolo di consiglieri del Papa. In passato, quando la cattolicità contava anche in politica, la porpora entrava nei giochi diplomatici, con tira e molla storici fra Santa Sede e teste coronate d’Europa, soprattutto. Adesso una nomina cardinalizia è accolta dai governi con entusiasmo formale nella maggior parte dei casi; con – unito all’omaggio – il retropensiero, “mi darà più fastidi?” in non pochi Paesi in via di sviluppo, dove spesso la Chiesa costituisce un argine a desideri e poteri sfrenati; con ostilità e fastidio appena mascherati, presso i regimi in frizione con Roma; con indifferenza, o giù di lì, nell’Occidente che, come sa benissimo Benedetto XVI, sta gaiamente trasformandosi in terra di nuovi pagani. Ma continuiamo a individuare i pezzi del mosaico. Necessità, tradizione, e poi la visione “geopolitica” del Pontefice, e dei suoi collaboratori più stretti; dove una voce dotata di maggiore autorevolezza può servire di più, una presenza più “nobile” può costituire un volano per lo sviluppo dell’evangelizzazione. Infine, idee, convinzioni, conoscenze, intuizioni di quello che del Concistoro è in fondo l’unico responsabile, e cioè il Papa. Con il suo carattere, il suo stile, e la sua agenda; che, nel caso di Benedetto XVI, a quanto pare, dispone di pagine che solo il Papa legge, visto il sostanziale segreto che accompagna il suo regnare.
Creata una griglia, cerchiamo adesso di decifrare le scelte di papa Ratzinger, comunicate il 22 febbraio scorso al termine dell’udienza generale del mercoledì, con l’atteggiamento sorridente, e quasi lievemente autoironico, che gli piace assumere a tratti, quasi a dire: guardate qua che cosa mi tocca fare! Un Concistoro piccolo: quindici porporati in tutto, di cui dodici votanti, a completare il “tetto” (ha detto chiaramente di non volerlo superare) di centoventi cardinali per un futuro e speriamo lontano conclave. Ma è interessante notare che dal 24 marzo – giorno della celebrazione del Concistoro – al 29 maggio 2007 compiranno ottant’anni ben quattordici porporati. In Curia è opinione diffusa che Benedetto XVI, che compie 79 anni il prossimo 16 aprile, voglia abbandonare la scadenza triennale, introdotta dal “giovane” Wojtyla, per la creazione dei cardinali, e tappare le falle che si aprono nel Collegio cardinalizio con frequenza più alta, e numeri più piccoli. Tutto lascia supporre che prima dell’estate 2007 possa aver luogo un’altra “infornata” di porpore. Così, fra l’altro, si placheranno ansie e tristezze per le esclusioni, importanti e relativamente numerose, di questo primo appuntamento ratzingeriano con il Sacro Collegio. O, se non altro, le perplessità. Perché infatti non era così scontato lasciare senza porpora cardinalizia i titolari di diocesi importanti come Parigi, Barcellona e Dublino. È vero che Parigi ha Lustiger, ma comunque lasciare la capitale della “fille aînée”, della figlia maggiore della Chiesa senza berretta per il suo arcivescovo in carica… Per non parlare della cattolicissima (una volta) Irlanda, o dell’orgoglio catalano. E non facciamo cenno alle aspettative di Curia. Ma qui il discorso si farebbe veramente complesso; perché il fatto che solo tre persone – William Joseph Levada, Agostino Vallini e Franc Rodé – all’interno dei palazzi pontifici siano state onorate del titolo cardinalizio autorizza a pensare che realmente dopo Pasqua («come un buon parroco tedesco» aveva detto il cardinal Lehmann) Benedetto XVI abbia intenzione di mettere mano a un’accurata revisione del governo centrale della Chiesa.
William J. Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede

William J. Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede

È possibile individuare delle linee precise nelle scelte compiute dal Papa? Proviamo a indicare alcuni elementi, che poi meriteranno di essere approfonditi. Il primo, evidente, è geografico: ben tre dei nove cardinali diocesani appartengono all’Asia. Cina, Filippine e Corea. Poi il carattere di una buona percentuale dei futuri cardinali: sono dei combattenti, abili, capaci di destreggiarsi nelle complessità del mondo del terzo millennio, ma che non temono di assumere posizioni impopolari, o di denuncia delle situazioni di ingiustizia. In alcuni casi può aver giocato l’affinità dottrinale con il Papa, che ha dimostrato di non temere di affidarsi al proprio giudizio; e alla propria esperienza. Non bisogna dimenticare, in questo settore particolare, come negli altri campi di governo, che per vari lustri Joseph Ratzinger si è visto passare davanti, nelle visite ad limina, tutti i vescovi del mondo (e la Congregazione per la dottrina della fede era una tappa obbligata, insieme a quella per il clero, nel soggiorno romano); grazie alla sua memoria, eccezionale, Benedetto XVI ha di fronte a sé una “scacchiera” eccezionalmente ricca, in cui può pescare – o rifiutarsi di pescare – quelli che ritiene adatti ai vari compiti. Aggiungiamo che la Congregazione che egli guidava è quella in cui confluiscono anche le segnalazioni non particolarmente onorevoli da tutto il mondo. E certo papa Ratzinger non soffre di vuoti di memoria.
L’Asia, come abbiamo detto, appare privilegiata. Anche se non sono certo i numeri assoluti ad aver motivato la scelta; i cattolici a Hong Kong sono una minoranza, il 3,5%; così come in Corea del Sud (il 6,6%). Anche nelle Filippine, dove invece sono maggioranza (83%, unico Paese a maggioranza cattolica in Asia, insieme alla piccola Timor Est), le cifre assolute non sono comparabili con quelle del Vecchio continente. Ma Benedetto XVI ha guardato al futuro. E il cattolicesimo asiatico sembra molto più tonico di quello europeo. Almeno la metà dei fedeli a Roma in quelle terre sterminate va a messa la domenica; i nuovi battezzati (in maggioranza adulti) crescono del cinque per cento all’anno. Le statistiche sui “quadri” dimostrano che in Asia si registra una crescita del clero e del personale religioso (più 1.422 nel 2004), mentre nello stesso periodo in Europa vi è un calo di 1.876 unità. Infine è necessario sottolineare che l’Asia rappresenta per la Chiesa il continente del futuro anche dal punto di vista del gregge, e non solo dei pastori: quasi metà della popolazione asiatica (che complessivamente conta 3,9 miliardi di persone, i due terzi della popolazione mondiale) è costituita da giovani al di sotto dei 25 anni; in quel continente vive l’80% dei non cristiani del mondo. Giovanni Paolo II diceva: «L’Asia è il nostro comune compito per il terzo millennio»; una convinzione che evidentemente Benedetto XVI condivide.
Joseph Ratzinger con Paolo VI in occasione della prima messa da cardinale, il 29 giugno 1977

Joseph Ratzinger con Paolo VI in occasione della prima messa da cardinale, il 29 giugno 1977

Naturalmente è stata la nomina di Joseph Zen a solleticare di più la curiosità; è ben probabile – almeno a giudicare dalla reazione di Pechino – che la nomina non fosse stata preparata diplomaticamente; ma d’altronde, fanno notare gli esperti, Hong Kong gode ancora di un regime particolare; la pressione esterna sulla Cina (motivata da rancori di carattere commerciale) sul piano dei diritti umani, e di conseguenza anche religiosi, sta crescendo, e il governo non può ignorarla completamente; quindi non era opportuno, se anche lo si fosse voluto, abbandonarsi a reazioni eccessive. La Chiesa cattolica in Cina sta vivendo una nuova stagione, e probabilmente i passi futuri porteranno verso una maggiore unità dei due “rami”. In questo senso Joseph Zen, che ha passato anni a insegnare in Cina e conosce molto bene seminaristi, sacerdoti e vescovi della Chiesa ufficiale e sotterranea, costituisce per Benedetto XVI il cardine sul quale questo processo potrà svilupparsi ulteriormente. E in effetti ha già lavorato per rafforzare i rapporti fra i due rami della Chiesa, da cui è profondamente rispettato; e la nuova dignità potrà solo fornirgli maggiore autorevolezza.
Anche la scelta del nome di Nicholas Cheong, arcivescovo di Seoul, è nel segno del futuro; è uno sguardo rivolto al Nord, dove un regime dalla crudeltà quasi irreale ricorda un’epoca passata, quella della guerra fredda. Mentre la decisione di dare una porpora a Manila (in un certo senso “dovuta”, per ragioni storiche e di geopolitica ecclesiastica) assume un valore particolare nell’ottica dell’evangelizzazione, di tutto il continente. Le Filippine, come ben sappiamo, sono un Paese di emigranti; ci sono milioni di lavoratori filippini nel mondo, e anche in Asia; e questo fa di loro una forza missionaria laica di grande penetrazione ed efficacia, anche e persino in Paesi – quelli arabi del Golfo, o addirittura in Arabia Saudita – dove la semplice testimonianza della propria fede può tingersi di eroismo.
Che cosa pensa Benedetto XVI dell’Europa, e dell’Occidente in genere, dal punto di vista della fede, non è un segreto per nessuno. Ma pensiamo che sia importante vedere che cosa diceva il cardinale Joseph Ratzinger nel 2002, in un incontro riportato dall’agenzia Zenit. «La Chiesa sostanzialmente non può riconoscersi nella categoria “Occidente”. Sarebbe sbagliato storicamente, empiricamente, teologicamente. Storicamente, sappiamo che il cristianesimo è nato nell’incrocio di Europa, Asia e Africa, e questo indica anche qualcosa della sua essenza interna. È nato in un incontro delle culture come capacità, possibilità e sfida di una sintesi delle culture e come possibilità di trascendere le culture in qualcosa che è l’essere umano come tale e che precede e trascende le culture. Ai suoi inizi, l’espansione del cristianesimo andava ugualmente a Oriente, verso Cina, India, Persia, Arabia, e a Occidente. Purtroppo, dopo la nascita dell’islam, gran parte di questa cristianità orientale è scomparsa. Ma non del tutto, perché esistono elementi di queste cristianità storiche che testimoniano la sua universalità, e anche la cristianità europea si divide in occidentale e orientale. Quindi l’estensione della Chiesa riferita alla nostra cultura è molto grande e si dettaglia in diverse culture. Empiricamente, non solo abbiamo questa grande eredità storica, ma il cristianesimo è presente, con minoranze di forza spirituale riconosciuta, in tutti i continenti. Sempre più l’asse della cristianità si sposta verso i nuovi continenti, verso Africa, Asia, America Latina. L’Europa è ancora una fonte essenziale per lo sviluppo del cristianesimo, tuttavia comincia a emarginarsi proprio con la discussione sulla sua identità… Non è un comportamento politico dettato dal bisogno di non perdere la simpatia per la Chiesa in Africa, Asia o America Latina, ma è un comportamento teologico. La Chiesa non può riconoscersi semplicemente come Occidente, ma deve sempre di nuovo trascendere la sua definizione occidentale e estendersi realmente verso l’universalità, soprattutto trascendendo sé stessa verso il divino, che è l’unica realtà che può creare una comunicazione delle culture». È una lettura storica, se fatta da cardinale e studioso; ma si trasforma immediatamente in una base per una strategia, se la persona che la formula diventa il responsabile principale della Chiesa cattolica. E forse può far intuire in quale direzione vorrà muoversi Benedetto XVI.
A sinistra nella foto, Nicholas Cheong Jin-suk, arcivescovo di Seoul, con il cardinale Stephen Kim Sou-hwan, arcivescovo emerito di Seoul

A sinistra nella foto, Nicholas Cheong Jin-suk, arcivescovo di Seoul, con il cardinale Stephen Kim Sou-hwan, arcivescovo emerito di Seoul

E veniamo al secondo fra gli elementi che pensiamo di aver isolato fra quelli più caratteristici di questo Concistoro. A Benedetto XVI piacciono evidentemente i combattenti; persone che sorridono molto, parlano a bassa voce, non perdono la calma, ma girano sempre con una lama (etica e teologica, ovviamente) al fianco, e non temono di usarla, se e quando è necessario. Prendiamo per esempio Jean-Pierre Ricard, presidente dei vescovi francesi e arcivescovo di Bordeaux. Un marsigliese sorridente, che però non ha risparmiato né discorsi né interviste contro «gli effetti perversi della legge sui simboli religiosi», contro una concezione iperspinta della laicità, per difendere i diritti dei malati in fin di vita, contro i matrimoni omosessuali, e contro quelli che ha definito gli «effetti liberticidi» della legge francese sull’omofobia. Non ha temuto di scrivere al presidente Chirac (filoturco) per ricordare che la candidatura turca alla Ue deve «essere studiata secondo il criterio, fra gli altri, del rispetto della libertà religiosa». Non solo: membro della Commissione «Ecclesia Dei», quella nata per facilitare la piena comunione ecclesiale dei gruppi più legati alla tradizione, ha assunto certo atteggiamenti di dialogo impensabili solo qualche anno fa nell’atmosfera molto ideologica della Chiesa francese. Fra l’altro, Ricard aveva già “saltato” il Concistoro del 2003; quindi, essendo impensabile l’elargizione di più di una berretta per nazione, in un bouquet così ristretto, Vingt-Trois, fresco di nomina, può attendere il prossimo turno. Cañizares, arcivescovo di Toledo, scherza sul fatto che lo definiscono «un piccolo Ratzinger»; ma unisce alla stamina dottrinale ed etica una grande capacità di dialogo, anche nella Spagna zapaterista. Di Carlo Caffarra si possono dire molte cose, ma non che sia persona che teme di esporre le sue idee, per quanto controverse possano risultare al politically correct vigente. E Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston, è un uomo che non teme le situazioni difficili: chiamato una prima volta a rimettere in sesto la diocesi di Palm Beach, sconvolta dallo scandalo della pedofilia, gli è stata affidata subito dopo Boston, e scusate se è poco. Di Stanislao Dziwisz è inutile parlare, tanto è noto e amato l’uomo che ha condiviso gran parte della vita di Karol Wojtyla, e fa vivere la sua devozione anche dopo la morte; ma invece merita di essere ricordato, sempre nella linea dei pastori chiamati ad affrontare sfide cruciali per il proprio Paese (e per la Chiesa), l’arcivescovo di Caracas, Jorge Liberato Urosa Savino, protagonista con gli altri presuli del Paese di una dura battaglia per la sopravvivenza della democrazia in Venezuela. Avendo di fronte a sé un avversario come Chávez; e scusate se è poco. Non bisogna poi dimenticare che anche i tre “asiatici”, di cui abbiamo parlato sopra, hanno tempra di lottatori; in modi e campi diversi, ma senza cedimenti e compromessi nei confronti dei diversi “poteri forti” presenti sul loro orizzonte. E per chiudere il quadro c’è William Joseph Levada. Anche se ha risposto, a chi gli chiedeva se sarebbe stato un “rottweiler” della Fede: «piuttosto un cocker spaniel», il neoprefetto qualche dente l’ha già mostrato; sia opponendosi alla richiesta dei vescovi Usa di rimandare l’uscita del documento sull’ammissione dei gay in seminario, sia in alcune inchieste personali molto delicate. Ma questo sembra proprio lo stile di papa Ratzinger; ed è giusto un anno da quando lamentava la «sporcizia nella Chiesa».


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