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LIBRI
tratto dal n. 01/02 - 2006

Maestro e discepolo: assenti all’appello


Giulio Ferroni parla del libro di Massimo Borghesi Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo. Il libro «tocca il nodo fondamentale dell’educazione, che dovrebbe essere quello di un dialogo aperto e concreto tra il maestro, vigile e sensibile custode di una tradizione, e il discepolo, cosciente della propria distanza da quella tradizione e insieme desideroso di avvicinarsi a essa». Recensione


di Giulio Ferroni


Le immagini di questo articolo sono tratte dal libro Les doigts pleins d’encre di Robert Doisneau e Cavanna

Le immagini di questo articolo sono tratte dal libro Les doigts pleins d’encre di Robert Doisneau e Cavanna

Le condizioni di una scuola che sembra condannata a una crisi senza fine, continuamente messa in gioco da riforme che, piuttosto che rivitalizzarla, sembrano produrre ulteriori derive e lacerazioni, hanno suscitato miriadi di interventi: proposte di modelli pedagogici, lamentazioni e malinconie di docenti, cahiers de doléances, prospettive critiche, eccetera. Ma si può avere l’impressione che quasi tutti i libri sulla scuola sfornati dall’editoria restino troppo ancorati al particolare, o non riescano quasi mai a collegare la crisi della scuola con il più generale quadro culturale e antropologico: programmi e proposte, critiche e denunce, raramente confrontano le contraddizioni del mondo scolastico con l’azione dei modelli culturali dominanti, raramente riescono a individuare il nesso che lega la perdita di prestigio, di vigore, di capacità formativa della scuola ai nodi teorici e alle modalità di rapporto dell’universo culturale in cui siamo immersi e che convenzionalmente definiamo come “postmoderno”. Questi interventi sembrano in genere rivolgersi a un insieme sociale considerato come solidale, offrono dati critici e modelli pedagogici che si ritengono all’altezza di una nozione onnicomprensiva del mondo e della cultura contemporanea; criticando il presente o suggerendo correttivi, perorando o riprovando riforme, si riferiscono comunque a quelle che si ritiene debbano essere le esigenze condivise dalla società contemporanea, pretendono di commisurarsi alle richieste della cultura presente, concepite come un tutto unico e omogeneo, che non sta ricevendo le risposte adeguate, ma a cui ci si propone finalmente di rispondere. Insomma chi scrive della scuola sembra dare sempre per scontato che la scuola non va perché non corrisponde ai livelli culturali e comportamentali richiesti dai valori e dalle prospettive del presente: nell’ambito delle riflessioni pedagogiche questi non vengono quasi mai discussi, vengono dati per scontati, concepiti come qualcosa di omogeneo, e perciò da perseguire doverosamente; e in un modo o nell’altro si cerca di disegnare l’immagine di una scuola capace di rispondere a quei valori e a quelle prospettive. La pedagogia e la stessa critica della pedagogia prescindono quasi sempre da un confronto critico con l’insieme della cultura contemporanea, ne occultano la contraddittorietà, evitano di mettere in questione i caratteri di quell’universo a cui la scuola dovrebbe rispondere; non interrogano i fondamenti e i modelli che spingono le richieste che la società rivolge alla scuola stessa; mancano in genere di una prospettiva filosofica, o fanno genericamente riferimento a modelli filosofici, ideologici, antropologici, psicologici mai discussi e motivati fino in fondo.

Massimo Borghesi, 
Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo, Itaca, Castel Bolognese (Ra) 2005, 172 pp., euro 15,00

Massimo Borghesi, Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo, Itaca, Castel Bolognese (Ra) 2005, 172 pp., euro 15,00

La doppia assenza
Appare allora particolarmente apprezzabile il libro di Massimo Borghesi, Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo, Itaca, 2005 (euro 15,00), che riprende, rielabora e amplia con una nuova Premessa il volume Memoria evento educazione già apparso nel 2002: proprio perché qui il problema dell’educazione e dell’attuale crisi della scuola viene fatto risalire a un essenziale nodo filosofico, ai modelli culturali diffusi che dominano le nostre società, a quella cultura dell’apparenza, dell’esteriorità, dell’edonismo e del nichilismo consumistico, che domina la scena attuale e che spesso proprio alla scuola rimprovera di non essere all’altezza del presente, di essere troppo “elitaria” e troppo staccata dalla vita, o meglio da ciò che oggi perlopiù si crede che sia e debba essere la vita. Già la Premessa del libro sottolinea con chiarezza che «la crisi odierna non risiede tanto nel venir meno di un’immagine “elitaria” della scuola, come da più parti si lamenta, quanto dalla “decostruzione” di una tradizione culturale tale da comportare una doppia assenza: quella del docente-maestro e quella dello studente-discepolo». Si tocca così il nodo fondamentale dell’educazione, che dovrebbe essere quello di un dialogo aperto e concreto tra il maestro, vigile e sensibile custode di una tradizione (complessa, eterogenea, frantumata quanto si voglia), e il discepolo, cosciente della propria distanza da quella tradizione e insieme desideroso di avvicinarsi a essa, di farne parte del proprio presente, grazie al contatto, allo scambio, all’incontro ed eventualmente allo scontro con il maestro. E si mostra che la caduta attuale dell’educazione, la sua perdita di efficacia, legata alla stessa perdita di prestigio sociale della scuola e dei suoi docenti, risale a un carattere determinante della cultura diffusa, a un universo di comunicazione in cui è in atto una guerra senza quartiere contro la continuità della tradizione, in cui si impongono a tutti i livelli schemi, comportamenti, modelli teorici basati sulla trasgressione, sul rovesciamento, sulla provocazione: forme che trovano il loro quadro sociale nell’impero dell’esibizione pubblicitaria e televisiva, il loro metodo nella decostruzione, nella mutuabilità di tutto con tutto, il loro stile ed emblema nel cosiddetto postmoderno.

Il “vento dell’astratto”
A me non sembra però che, come suggerisce l’autore, l’origine di tutto ciò vada fatta risalire indietro fino all’illuminismo, che è stato qualcosa di ben più aperto e contraddittorio, attraversato anche da un vivo senso della concretezza e dell’esperienza, e la cui eredità viene in fondo attaccata e dissolta proprio dalla derealizzazione e dalla virtualizzazione che riducono la cultura a merce e a specchio pubblicitario. Al di là dell’origine storica, la riflessione di Borghesi è comunque rivolta a mettere in luce con acume il «quadro teorico» in cui si dispone oggi la deriva scolastica; e segue gli effetti che questo quadro ha creato all’interno stesso dell’insegnamento, i modi in cui esso ha agito nello stesso esercizio delle discipline umanistiche. A tal proposito, gli appare evidente che le mode didattiche che si sono imposte a partire dagli anni Settanta, e che sono state poi variamente promosse dalle pratiche di aggiornamento e dalle varie riforme, hanno diffuso nella scuola un vero e proprio “vento dell’astratto”, allontanando le discipline storiche, letterarie, filosofiche, dal rapporto con la concretezza della vita, dall’orizzonte della narratività, dell’incontro e del dialogo. L’uso che è stato fatto delle cosiddette “scienze umane” ha dato in effetti una spinta essenziale a questa invasione dell’astrazione: ai contenuti concreti si sono opposte le strutture, all’esistenza reale le motivazioni sotterranee, alla narrazione degli eventi le proiezioni nella lunga durata. Le esperienze trasmesse dalle discipline umanistiche, i loro dati vitali ed esistenziali sono stati destrutturati; e ciò ha pesato particolarmente sui manuali, che si sono sempre più ampliati e nello stesso tempo si sono allontanati dal rapporto vivo con i testi, li hanno privati di corpo e di realtà, con la pretesa di andare a scovare ciò che c’è sotto la loro realtà, approdando a un definitivo nichilismo, alla riduzione a merce di ogni aspetto dell’esperienza. La negazione della tradizione, la sua riduzione a mero inventario, repertorio, archivio esteriore, ha avuto come corrispettivo una destrutturazione del soggetto, un allontanamento dell’io e dell’esperienza personale dalla scena della didattica: con tutta una serie di paradossi che Borghesi mette in evidenza con grande chiarezza e che sembrano culminare in quello per cui da una parte la cultura trasmessa dalla scuola, «fondata sull’abolizione dell’io, è solidale con il nichilismo imperante, solidale con l’idea della mercificazione integrale della vita», e dall’altra si chiede alla scuola «di reagire al degrado, di fornire modelli positivi, di rispondere alle emergenze sociali mediante corsi sulla droga, ambiente, educazione sessuale, stradale, sulla salute, ecc.»; insomma si arriva a chiedere «alla scuola una coscienza etica, “umanistica”, nel momento stesso in cui essa diviene il luogo di sepoltura di quella tradizione».


Realismo ed esperienza della positività del mondo
La risposta a questa situazione non sta allora nel riempire la scuola di compiti incongrui, nel trasformarla in una sorta di indefinita agenzia sociale, che accetta e sottoscrive tutte le contraddittorie esigenze dell’economia e della cultura di massa (come le hanno imposto e continuano a imporle i più diversi interventi di riforma), ma in una sollecitazione a mettere in primo piano la concretezza del rapporto maestro-allievo, a ritrovare il senso della tradizione, che non rappresenta semplicemente la persistenza del passato, ma il «luogo di attestazione del reale come degno di essere», luogo di riconoscimento del valore della realtà e strumento del rapporto del soggetto con il mondo reale. All’astrazione che domina la cultura contemporanea viene opposto qui un realismo, in senso forte, “dantesco”, come esperienza della positività del mondo, attualizzazione della memoria nella temporalità della narrazione, necessità dell’in­contro, avvenimento che nel suo manifestarsi proietta la possibilità della valorizzazione e della redenzione. Questi termini si inquadrano e si proiettano in una prospettiva cristiana, di un cristianesimo «creaturale», che afferma la concretezza della vita, che concepisce la storicità sotto il segno dell’incontro con l’altro e come avvenimento (e che ha essenziali punti di riferimento in pensatori diversi come Rosenzweig, Guardini, Ricoeur, e nella lezione di Luigi Giussani). Questo orizzonte cristiano offre spunti essenziali anche per la cultura laica, per ogni prospettiva segnata dall’esigenza di autenticità e di concretezza, di rispetto della realtà e della vita, di uscita dall’astrazione e dal nichilismo contemporanei.

Quanto a me, mi sento di sottoscrivere molte delle notazioni particolari che promanano nel quadro educativo tracciato da Borghesi e che egli suggerisce con grande coerenza e chiarezza: come quella sulla contraddizione di una storiografia tutta rivolta a strutture di lunga durata (sul modello delle Annales) per i secoli del passato e invece tutta affidata allo «statuto “tradizionale” di storia etico-politica» per il Novecento; o quella sul germe di speranza contenuto dalla «memoria aperta al presente e al futuro», che agisce nel senso della redenzione, e non su quello ingannevole dell’utopia; o ancora quella sull’opposizione tra esperienza autentica e sperimentalismo avanguardistico, nel quale ultimo la ricerca indefinita del nuovo dà luogo a «un iter spossante in cui il soggetto si nega e si rincorre dietro le maschere, di volta in volta, immaginate». Acuti sono tutti i rilievi sulle varie forme di nichilismo contemporaneo, sui disastri che esso produce nell’educazione, proprio per la sua negazione della positività del rapporto, del valore della realtà, della consistenza del soggetto, dell’incontro tra soggetti in cui si risolve l’autentico rapporto educativo. Muovendosi tra etica, estetica, ermeneutica, letteratura, questo libro tocca i nodi nevralgici della condizione contemporanea e suggerisce un’ottica culturale e umana che si oppone a molti di questi nodi: mostra quanto le ragioni dell’attuale crisi della scuola vadano cercate in profondità e come non sia possibile cercare una risposta in ingegnerie riformistiche, in astrazioni pedagogiche, in perorazioni programmatiche, tutte cose che, proprio per la loro natura contraddittoria, finiscono per ampliare la crisi, per renderne più distruttivi e forse insanabili gli effetti. Si può avere solo il dubbio che l’immagine «positiva» del rapporto educativo qui suggerita trovi oggi rispondenza soltanto in ambiti parziali, nell’azione di insegnanti coscienti della loro missione, del loro compito umano e culturale, dotati di profonda cultura e sensibilità, capaci di resistere fino in fondo alle sirene del postmoderno. Ma le condizioni della società e della scuola, il rilievo che oggi vi assumono le tecnologie virtualizzanti e derealizzanti, i modi di formazione delle giovani generazioni, la presa sempre più invasiva dei media e dell’orizzonte televisivo-pubblicitario, lo sfascio attuale dell’università (e in essa dei corsi di laurea umanistici), rendono particolarmente difficile il formarsi e lo svilupparsi in un prossimo futuro di simili coscienze educative; temo che sia legittima una dose ulteriore di pessimismo.


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