Maestro e discepolo: assenti all’appello
Giulio Ferroni parla del libro di Massimo Borghesi Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo. Il libro «tocca il nodo fondamentale dell’educazione, che dovrebbe essere quello di un dialogo aperto e concreto tra il maestro, vigile e sensibile custode di una tradizione, e il discepolo, cosciente della propria distanza da quella tradizione e insieme desideroso di avvicinarsi a essa». Recensione
di Giulio Ferroni

Le immagini di questo articolo sono tratte dal libro Les doigts pleins d’encre di Robert Doisneau e Cavanna

Massimo Borghesi, Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo, Itaca, Castel Bolognese (Ra) 2005, 172 pp., euro 15,00
Appare allora particolarmente apprezzabile il libro di Massimo Borghesi, Il soggetto assente. Educazione e scuola tra memoria e nichilismo, Itaca, 2005 (euro 15,00), che riprende, rielabora e amplia con una nuova Premessa il volume Memoria evento educazione già apparso nel 2002: proprio perché qui il problema dell’educazione e dell’attuale crisi della scuola viene fatto risalire a un essenziale nodo filosofico, ai modelli culturali diffusi che dominano le nostre società, a quella cultura dell’apparenza, dell’esteriorità, dell’edonismo e del nichilismo consumistico, che domina la scena attuale e che spesso proprio alla scuola rimprovera di non essere all’altezza del presente, di essere troppo “elitaria” e troppo staccata dalla vita, o meglio da ciò che oggi perlopiù si crede che sia e debba essere la vita. Già la Premessa del libro sottolinea con chiarezza che «la crisi odierna non risiede tanto nel venir meno di un’immagine “elitaria” della scuola, come da più parti si lamenta, quanto dalla “decostruzione” di una tradizione culturale tale da comportare una doppia assenza: quella del docente-maestro e quella dello studente-discepolo». Si tocca così il nodo fondamentale dell’educazione, che dovrebbe essere quello di un dialogo aperto e concreto tra il maestro, vigile e sensibile custode di una tradizione (complessa, eterogenea, frantumata quanto si voglia), e il discepolo, cosciente della propria distanza da quella tradizione e insieme desideroso di avvicinarsi a essa, di farne parte del proprio presente, grazie al contatto, allo scambio, all’incontro ed eventualmente allo scontro con il maestro. E si mostra che la caduta attuale dell’educazione, la sua perdita di efficacia, legata alla stessa perdita di prestigio sociale della scuola e dei suoi docenti, risale a un carattere determinante della cultura diffusa, a un universo di comunicazione in cui è in atto una guerra senza quartiere contro la continuità della tradizione, in cui si impongono a tutti i livelli schemi, comportamenti, modelli teorici basati sulla trasgressione, sul rovesciamento, sulla provocazione: forme che trovano il loro quadro sociale nell’impero dell’esibizione pubblicitaria e televisiva, il loro metodo nella decostruzione, nella mutuabilità di tutto con tutto, il loro stile ed emblema nel cosiddetto postmoderno.
Il “vento dell’astratto”
A me non sembra però che, come suggerisce l’autore, l’origine di tutto ciò vada fatta risalire indietro fino all’illuminismo, che è stato qualcosa di ben più aperto e contraddittorio, attraversato anche da un vivo senso della concretezza e dell’esperienza, e la cui eredità viene in fondo attaccata e dissolta proprio dalla derealizzazione e dalla virtualizzazione che riducono la cultura a merce e a specchio pubblicitario. Al di là dell’origine storica, la riflessione di Borghesi è comunque rivolta a mettere in luce con acume il «quadro teorico» in cui si dispone oggi la deriva scolastica; e segue gli effetti che questo quadro ha creato all’interno stesso dell’insegnamento, i modi in cui esso ha agito nello stesso esercizio delle discipline umanistiche. A tal proposito, gli appare evidente che le mode didattiche che si sono imposte a partire dagli anni Settanta, e che sono state poi variamente promosse dalle pratiche di aggiornamento e dalle varie riforme, hanno diffuso nella scuola un vero e proprio “vento dell’astratto”, allontanando le discipline storiche, letterarie, filosofiche, dal rapporto con la concretezza della vita, dall’orizzonte della narratività, dell’incontro e del dialogo. L’uso che è stato fatto delle cosiddette “scienze umane” ha dato in effetti una spinta essenziale a questa invasione dell’astrazione: ai contenuti concreti si sono opposte le strutture, all’esistenza reale le motivazioni sotterranee, alla narrazione degli eventi le proiezioni nella lunga durata. Le esperienze trasmesse dalle discipline umanistiche, i loro dati vitali ed esistenziali sono stati destrutturati; e ciò ha pesato particolarmente sui manuali, che si sono sempre più ampliati e nello stesso tempo si sono allontanati dal rapporto vivo con i testi, li hanno privati di corpo e di realtà, con la pretesa di andare a scovare ciò che c’è sotto la loro realtà, approdando a un definitivo nichilismo, alla riduzione a merce di ogni aspetto dell’esperienza. La negazione della tradizione, la sua riduzione a mero inventario, repertorio, archivio esteriore, ha avuto come corrispettivo una destrutturazione del soggetto, un allontanamento dell’io e dell’esperienza personale dalla scena della didattica: con tutta una serie di paradossi che Borghesi mette in evidenza con grande chiarezza e che sembrano culminare in quello per cui da una parte la cultura trasmessa dalla scuola, «fondata sull’abolizione dell’io, è solidale con il nichilismo imperante, solidale con l’idea della mercificazione integrale della vita», e dall’altra si chiede alla scuola «di reagire al degrado, di fornire modelli positivi, di rispondere alle emergenze sociali mediante corsi sulla droga, ambiente, educazione sessuale, stradale, sulla salute, ecc.»; insomma si arriva a chiedere «alla scuola una coscienza etica, “umanistica”, nel momento stesso in cui essa diviene il luogo di sepoltura di quella tradizione».

La risposta a questa situazione non sta allora nel riempire la scuola di compiti incongrui, nel trasformarla in una sorta di indefinita agenzia sociale, che accetta e sottoscrive tutte le contraddittorie esigenze dell’economia e della cultura di massa (come le hanno imposto e continuano a imporle i più diversi interventi di riforma), ma in una sollecitazione a mettere in primo piano la concretezza del rapporto maestro-allievo, a ritrovare il senso della tradizione, che non rappresenta semplicemente la persistenza del passato, ma il «luogo di attestazione del reale come degno di essere», luogo di riconoscimento del valore della realtà e strumento del rapporto del soggetto con il mondo reale. All’astrazione che domina la cultura contemporanea viene opposto qui un realismo, in senso forte, “dantesco”, come esperienza della positività del mondo, attualizzazione della memoria nella temporalità della narrazione, necessità dell’incontro, avvenimento che nel suo manifestarsi proietta la possibilità della valorizzazione e della redenzione. Questi termini si inquadrano e si proiettano in una prospettiva cristiana, di un cristianesimo «creaturale», che afferma la concretezza della vita, che concepisce la storicità sotto il segno dell’incontro con l’altro e come avvenimento (e che ha essenziali punti di riferimento in pensatori diversi come Rosenzweig, Guardini, Ricoeur, e nella lezione di Luigi Giussani). Questo orizzonte cristiano offre spunti essenziali anche per la cultura laica, per ogni prospettiva segnata dall’esigenza di autenticità e di concretezza, di rispetto della realtà e della vita, di uscita dall’astrazione e dal nichilismo contemporanei.
