Home > Archivio > 03 - 2006 > Uno strumento docile e fedele al Papa
DIPLOMAZIA VATICANA
tratto dal n. 03 - 2006

Uno strumento docile e fedele al Papa


La natura del servizio diplomatico, come si struttura e agisce, i problemi che affronta. Pubblichiamo la conferenza dell’arcivescovo Giovanni Lajolo, segretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati, tenuta il 16 febbraio 2006 al Circolo di Roma


di Giovanni Lajolo


Benedetto XVI con i rappresentanti della Santa Sede presso le Organizzazioni internazionali,  in occasione dell’udienza del 18 marzo 2006

Benedetto XVI con i rappresentanti della Santa Sede presso le Organizzazioni internazionali, in occasione dell’udienza del 18 marzo 2006

1. Natura ecclesiale del servizio diplomatico della Santa Sede
Mi si permetta di iniziare con una precisazione che ritengo di non poco conto, concernendo un’idea che mi sembra diffusa, ma che è del tutto erronea, della “diplomazia vaticana”.
Parlando di diplomazia si pensa spontaneamente a un’attività propria ed esclusiva dello Stato nei suoi rapporti sovrani con gli altri Stati. Per questo quando si parla di “diplomazia vaticana”, molti ritengono che essa sia un’espressione dello Stato della Città del Vaticano. Non è così.
La diplomazia vaticana è espressione propria della Santa Sede, in quanto suprema autorità della Chiesa cattolica. Come dichiara il preambolo del Trattato Lateranense, la Santa Sede gode di sovranità indiscutibile nel campo internazionale; e l’articolo 2 del medesimo Trattato riconosce – con una formula pregnante – che tale sovranità è un «attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione e alle esigenze della sua missione nel mondo». È proprio in forza di tale sovranità che la Santa Sede, insieme all’Italia, ha costituito con il predetto Trattato lo Stato della Città del Vaticano, sul quale la Santa Sede ha sovranità e giurisdizione esclusive (cfr. articolo 4).
È vero peraltro che anche lo Stato della Città del Vaticano gode, in quanto Stato, di una riconosciuta sovranità internazionale, non però separata da quella della Santa Sede, ma anzi con essa collegata e a essa finalizzata, come strumento della indipendenza e sovranità del romano pontefice. È così possibile anche per gli Stati che non intendono per sé avere rapporti formali con la Chiesa cattolica in quanto tale, di avvalersi della riconosciuta sovranità internazionale dello Stato del Vaticano per entrare in rapporti con la Santa Sede.
In ogni caso, i rapporti diplomatici che gli Stati intrattengono con la Santa Sede sono rapporti tra soggetti sovrani di diritto internazionale e quindi formalmente della stessa natura di quelli che intercorrono tra gli Stati. Quanto però al contenuto di tali rapporti, in quanto essi si realizzano in concreto attraverso le ambasciate accreditate presso la Santa Sede, essi si sostanziano principalmente di questioni attinenti all’attività della stessa Santa Sede nel mondo e alla presenza della Chiesa cattolica nei vari Paesi1. Credo che solo l’ambasciata d’Italia, a motivo degli impegni derivanti dal Trattato Lateranense, debba occuparsi con una certa frequenza di questioni inerenti allo Stato della Città del Vaticano.
Parlando di diplomazia si pensa spontaneamente a un’attività propria ed esclusiva dello Stato nei suoi rapporti sovrani con gli altri Stati. Per questo quando si parla di “diplomazia vaticana”, molti ritengono che essa sia un’espressione dello Stato della Città del Vaticano. Non è così. La diplomazia vaticana è espressione propria della Santa Sede, in quanto suprema autorità della Chiesa cattolica
V’è poi anzitutto un aspetto che vorrei dire “visivo”, che deriva da tale natura ecclesiale della diplomazia della Santa Sede, ed è il carattere sacerdotale o episcopale dei rappresentanti pontifici. Papa Giovanni XXIII stabilì, nel 1962, che i nunzi apostolici, fin dall’inizio della loro missione – e non soltanto alcuni anni più tardi, come sotto il pontificato di Pio XII –, fossero insigniti della dignità episcopale: essa mette meglio in evidenza la funzione di collegamento, direi omogeneo, tra il Sommo Pontefice e i vescovi delle Chiese locali. La prima funzione, infatti, che il Codice di diritto canonico attribuisce ai nunzi apostolici è quella di «rendere sempre più saldi ed efficaci i vincoli di unità che intercorrono tra la Sede Apostolica e le Chiese particolari» (can. 364). Questa non è ancora propriamente una funzione diplomatica; ma intimamente connessa con tale funzione dei rappresentanti pontifici è poi quella di esercitare una legazione presso lo Stato accreditatario, promuovendo le relazioni con le autorità dello Stato e affrontando le questioni che riguardano i rapporti tra Chiesa e Stato (cfr. can. 365 § 1). Il titolo stesso di nunzi apostolici proprio degli ambasciatori della Santa Sede ne sottolinea la loro funzione ecclesiale.
Connessa con tale natura ecclesiale della diplomazia vaticana, anzi a essa conseguente, è la focalizzazione e la limitazione dei suoi interessi. Esulano per ciò stesso dalla diplomazia della Santa Sede tutta una serie di questioni che sono invece di interesse primario per le diplomazie degli Stati: per esempio, le alleanze politiche, le strutture militari – le Nunziature sono ambasciate che non hanno attachés militari! – i rapporti commerciali e finanziari, la promozione turistica, ecc.: tutte sfere di azione che alla diplomazia della Santa Sede non interessano, se non, occasionalmente, per eventuali loro risvolti morali2. Fortemente indicativa di tale natura della diplomazia vaticana, è la dichiarazione dell’articolo 24 del Trattato Lateranense: «La Santa Sede, in relazione alla sovranità che le compete anche nel campo internazionale, dichiara che Essa vuole rimanere e rimarrà estranea alle competizioni temporali fra gli altri Stati ed ai Congressi internazionali indetti per tale oggetto, a meno che le parti contendenti facciano concorde appello alla sua missione di pace, riservandosi in ogni caso di far valere la sua potestà morale e spirituale».

2. Odierna consistenza delle Rappresentanze Pontificie
Una conferma storica del fatto che la diplomazia vaticana non è in sostanziale riferimento allo Stato Vaticano è facilmente ravvisabile nel fatto che essa continuò a svilupparsi anche dopo il 1870 e la debellatio dello Stato Pontificio da parte dell’Italia; anzi, tra il 1870 e il 1929 le Rappresentanze diplomatiche degli Stati presso la Santa Sede, e reciprocamente della Santa Sede presso gli Stati, aumentarono da 16 a 29.
Al presente, la diplomazia vaticana è tra quelle dotate di una più vasta “rete” di Rappresentanze. I Paesi che intrattengono piene relazioni diplomatiche con la Santa Sede sono 174; a essi va aggiunto il Sovrano Militare Ordine di Malta. Sono inoltre rappresentate da Missioni speciali la Federazione Russa e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, guidate rispettivamente da un ambasciatore e da un direttore.
Benedetto XVI in udienza con il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il 9 gennaio 2006

Benedetto XVI in udienza con il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il 9 gennaio 2006

Potrà essere interessante notare lo sviluppo numerico che hanno avuto le Nunziature apostoliche nell’ultimo quarto di secolo. Sotto i pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, quindi dal 1963 al 2005, gli Stati con rapporti diplomatici con la Santa Sede sono passati da 46 a 174. Più precisamente: nel 1978, alla morte di Paolo VI, le Nunziature e le Delegazioni apostoliche in Africa costituivano meno della metà del numero complessivo delle rappresentanze pontificie nel mondo, e quel continente era quello con un numero relativamente maggiore di rappresentanze della Santa Sede (43 su 117). Durante il pontificato di Giovanni Paolo II vi è stata una forte espansione della rete di Nunziature e Delegazioni, che ha interessato tutti i continenti. La crescita numerica più forte si è registrata in Europa (da 18 a 45 Rappresentanze), soprattutto come conseguenza dei fatti del 1989, che hanno interessato l’ex Unione Sovietica e vari Paesi dell’Europa centro-orientale e dell’Asia centrale. Sempre sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, il numero delle rappresentanze pontificie è raddoppiato in Asia (da 19 a 38), e significativo è stato il loro aumento anche nelle Americhe (da 24 a 36), in Oceania (da 5 a 15) e in Africa (da 43 a 53).
Le Rappresentanze pontificie presso gli Stati, con un nunzio apostolico stabilmente residente, sono al presente 101. Se ne deduce che per ricoprire tutti i Paesi che hanno relazioni diplomatiche piene con la Santa Sede, non pochi nunzi sono titolari di diverse sedi3.
Molto rapido è stato lo sviluppo delle rappresentanze della Santa Sede presso le Organizzazioni internazionali; esse sono attualmente 15. Si partì nel 1949 con l’accreditamento di un osservatore permanente presso la Fao, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura, con sede a Roma, al quale la Santa Sede ha successivamente assegnato anche la rappresentanza presso il Programma alimentare mondiale (Pam), nel 1963, e presso il Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad), nel 1977.
Sempre con carattere di Osservatore, nel 1952 fu accreditato il rappresentante della Santa Sede presso l’Unesco a Parigi. Nel 1957 la Santa Sede divenne membro fondatore della Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), con sede a Vienna e vi accreditò un delegato permanente, oggi rappresentante permanente.
Fu però sotto il pontificato di Paolo VI che la Santa Sede incrementò la sua presenza nelle Organizzazioni internazionali intergovernative, inviando un osservatore permanente: nel 1964 presso le Nazioni Unite di New York; nel 1967 presso l’Ufficio Onu e le istituzioni specializzate a Ginevra; nel 1971 presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (Onudi), con sede a Vienna. Come è noto, nel 2004 la Santa Sede ha formalizzato il suo statuto di “osservatore permanente” presso l’Organizzazione delle Nazioni Unite (risoluzione N. 58/314 del 1° luglio 2004).
Tale attenzione è continuata anche sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, così che una presenza stabile della Santa Sede è riscontrabile nei più importanti organismi internazionali. Essa è membro di sei altre organizzazioni internazionali4 e presso sei altre ancora ha carattere di osservatore a volte “su base informale”5.
Per gli organismi internazionali intergovernativi a base regionale, la Santa Sede ha nominato un Inviato Speciale presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo, nel 1970, anche se i rapporti con detto organismo risalgono al 1962; e un osservatore permanente presso l’Organizzazione degli Stati americani (1978). Nel 1994 ha inviato un rappresentante permanente presso l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), di cui essa è membro sin dal 1973. Nell’anno 2000 furono nominati gli osservatori permanenti presso l’Organizzazione della Lega araba e presso l’Unione africana, con la quale la Santa Sede ha sottoscritto un accordo di cooperazione il 19 ottobre 2000. Una posizione speciale ha il rappresentante pontificio presso le Comunità europee, in concreto l’Unione europea, con sede a Bruxelles (distinto dal nunzio apostolico in Belgio), che ha il titolo di nunzio apostolico non solo ad personam (come alcuni osservatori permanenti), ma d’ufficio.
Varrà la pena di rilevare che la Santa Sede intrattiene un così vasto sistema di rapporti diplomatici, con un personale estremamente ridotto. Tutti i nunzi apostolici – come sopra riferivo – sono un centinaio; mentre i rappresentanti presso gli organismi internazionali sono 12. Il personale diplomatico subalterno, ossia quello che presta servizio nelle sedi diplomatiche della Santa Sede, conta solo 142 ecclesiastici. Essi appartengono a 50 nazioni. Questa singolare internazionalità del corpo diplomatico della Santa Sede, mentre risponde a un auspicio del Concilio ecumenico Vaticano II circa la composizione degli organi centrali della Chiesa (cfr. Christus Dominus, n. 10,1), riflette anche quella prerogativa della Chiesa che lo stesso Concilio qualifica come «un germe validissimo di unità... per tutto il genere umano» (Lumen gentium, n. 9,2).
Come riesce la diplomazia della Santa Sede ad affrontare i suoi compiti, difficili e complessi, con un personale così ridotto?
Le ragioni sono molteplici. Vorrei rilevare, in particolare, la possibilità che hanno le Rappresentanze pontificie di trovare aiuto da parte delle Chiese locali, che possono fornire, oltre ad alcuni collaboratori per la sede diplomatica, anche preziose informazioni ed efficace assistenza nel campo delle problematiche trattate dalle Nunziature stesse. Altra ragione, che non va sottovalutata, è naturalmente l’impegno di vita dei diplomatici stessi della Santa Sede che, in quanto sacerdoti, non hanno altro scopo che quello di servire la Chiesa e la Santa Sede. Non irrilevante a tal fine (ma anche sotto l’aspetto economico) mi pare anche la circostanza che le Nunziature apostoliche riuniscono in una sola sede la cancelleria e la residenza.
Al presente, la diplomazia vaticana è tra quelle dotate di una più vasta “rete” di Rappresentanze. I Paesi che intrattengono piene relazioni diplomatiche con la Santa Sede sono 174; a essi va aggiunto il Sovrano Ordine di Malta. Sono inoltre rappresentate da Missioni speciali la Federazione Russa e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, guidate rispettivamente da un ambasciatore e da un direttore
Analoghe osservazioni valgono anche per la Sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, il cui «compito proprio» «è di attendere agli affari che devono essere trattati con i governi civili» (costituzione apostolica Pastor bonus sulla Curia romana, articolo 45). Com’è noto, la Segreteria di Stato è presieduta dal cardinale segretario di Stato, al quale è internazionalmente riconosciuto il rango di primo ministro. Essa si articola in due Sezioni, la Sezione per gli Affari generali e la Sezione per i Rapporti con gli Stati. Quella per gli Affari generali è sotto la guida diretta del sostituto con l’aiuto dell’assessore, mentre la Sezione per i Rapporti con gli Stati è sotto la direzione del proprio Segretario con l’aiuto del sottosegretario, ai quali si riconosce internazionalmente il rango rispettivamente di ministro e di viceministro degli Esteri. Il personale di tutta la Segreteria di Stato consta di circa 200 persone, e di queste solo 53 sono assegnate alla Sezione per i Rapporti con gli Stati, la quale si avvale però di un consistente appoggio da parte della Prima Sezione per alcuni settori che presso gli Stati sono propri del Ministero degli Esteri, ad esempio per il protocollo, la cifra, l’ufficio del personale e l’ufficio dei corrieri. Infine, per molte questioni specifiche, la Sezione per i Rapporti con gli Stati ricorre alla consulenza delle Congregazioni o dei Pontifici Consigli della Curia romana, o chiede loro anche di mettere a disposizione esperti da inviare come membri di Delegazioni della Santa Sede a incontri internazionali, e ne riceve una collaborazione molto solerte e sempre molto apprezzata.

3. Presenza diplomatica della Santa Sede nei diversi Paesi
L’attenzione prioritaria delle Rappresentanze pontificie nei diversi paesi riguarda anzitutto lo status della Chiesa cattolica, cioè i suoi rapporti interni, la sua attività sociale e, in particolare, il suo stato giuridico nell’ambito dell’ordinamento dello Stato: a questo riguardo l’interesse precipuo è rivolto all’aspetto della libertà della Chiesa.
Più vasti ambiti di interessi, che non si concentrano solo sulla Chiesa cattolica, sono quello dei diritti umani, del dialogo ecumenico e interreligioso, eccetera.
Di particolare rilievo è poi l’attività pattizia, cioè dei concordati e in genere degli accordi tra Chiesa e Stato. Questi possono essere sia a livello di Santa Sede e Stato, sia a livello di Chiesa locale e Stato, ma anche in questo caso essi non sono solitamente conclusi senza un coinvolgimento della Rappresentanza pontificia.
Per quanto riguarda gli accordi fra Santa Sede e Stato, è ben noto come essi costituiscono un non breve capitolo della storia stessa della Chiesa.
Il primo grande accordo, che ha iniziato la storia dei concordati, è considerato quello di Worms del 1122 (Concordia o Pax Wormatiensis): ponendo fine alla lotta per le investiture, esso costituì un momento determinante nella separazione dei poteri civile e religioso, e quindi della libertà della Chiesa come anche della laicità dello Stato.
Mi sia permessa una parentesi. Il termine “laicità dello Stato” è impiegato nell’ambiente culturale latino, mentre nel mondo anglosassone si preferisce parlare del carattere “secolare” dello Stato; la qualifica “laico” si contrappone a “clericale”, mentre la qualifica “secolare” si contrappone a “religioso”. Certo ha una sua intrinseca ironia il fatto che i cosiddetti “laici” amino definirsi tali con un termine proveniente proprio dal diritto canonico.
Dopo quel patto di Worms, consistente in due documenti unilaterali correlativi, rispettivamente da parte dell’imperatore Enrico V e del papa Callisto II, i concordati come strumento giuridico-diplomatico hanno trovato un crescente favore per regolare le differenze e le contese tra Stato e Chiesa. Nel corso della storia essi hanno assunto una differente fisionomia a seconda anche del sistema politico proprio della parte statale, cioè secondo che si trattasse, per esempio, di un patto con un sovrano assolutista o con uno Stato democratico. Sempre comunque hanno inteso essere strumenti della libertà della Chiesa e al contempo della collaborazione nelle cosiddette “materie miste”.
Giovanni Lajolo, al centro nella foto, e, 
a sinistra, l’arcivescovo Celestino Migliore, 
osservatore permanente all’Onu

Giovanni Lajolo, al centro nella foto, e, a sinistra, l’arcivescovo Celestino Migliore, osservatore permanente all’Onu

In epoca a noi più recente si è rimproverato alla Santa Sede di avere, per il fatto stesso di entrare in rapporti pattizi con Stati totalitari, legittimato in qualche modo il regime al potere. Tale accusa è stata sollevata specificamente in riferimento al nazismo, per la conclusione del Concordato con il Reich (1933), e al fascismo, per la conclusione dei Patti Lateranensi (1929). Una tale interpretazione non regge a una serena critica storica. Per quanto riguarda il Concordato con il Reich, non posso non ricordare le parole di Pio XII: «Nella primavera del 1933, il governo germanico sollecitò la Santa Sede a concludere un Concordato col Reich: pensiero che incontrò il consenso anche dell’episcopato e almeno della più gran parte dei cattolici tedeschi. Infatti, né i concordati già conclusi con alcuni Stati particolari della Germania (Länder), né la Costituzione di Weimar sembravano loro assicurare e garantire sufficientemente il rispetto delle loro convinzioni, della loro fede, dei loro diritti e della loro libertà d’azione. In tali condizioni, queste garanzie non potevano essere ottenute che mediante un accordo nella forma solenne di un Concordato, col governo centrale del Reich. Si aggiunga che, avendone questo fatto la proposta, sarebbe ricaduta, in caso di rifiuto, sulla Santa Sede la responsabilità di ogni dolorosa conseguenza. Non già che la Chiesa, dal canto suo, si lasciasse illudere da eccessive speranze, né che con la conclusione del Concordato intendesse in qualsiasi modo di approvare la dottrina e le tendenze del nazionalsocialismo, come fu allora espressamente dichiarato e spiegato. Tuttavia bisogna riconoscere che il Concordato negli anni seguenti procurò qualche vantaggio, o almeno impedì mali maggiori. Infatti, nonostante tutte le violazioni di cui divenne ben presto l’oggetto, esso lasciava ai cattolici una base giuridica di difesa, un campo sul quale trincerarsi per continuare ad affrontare, fino a quando fosse loro possibile, il flutto sempre crescente della persecuzione religiosa» (AAS 37 [1945] 160-161).
Così Pio XII nella sua allocuzione al Collegio cardinalizio, del 2 giugno 1945. È ben vero, peraltro, che da parte tedesca, subito dopo la conclusione di quel Concordato, si cercò di darne un’interpretazione favorevole al regime; ma non mancarono immediatamente, colpo su colpo, pubbliche prese di posizione della Santa Sede con articoli ufficiosi su L’Osservatore Romano6: i concordati, come tutti i trattati internazionali, sono sempre conclusi con gli Stati, i quali restano, e non con i regimi o i governi, i quali passano.
Con il Concilio Vaticano II (1962-1965) e il ruolo assunto dalle Conferenze episcopali, non pochi osservatori pensarono che l’epoca dei concordati e in genere degli accordi tra Santa Sede e governi fosse ormai tramontata. Non fu però così, per tutta una serie di ragioni, e anzitutto perché gli accordi con la Santa Sede, proprio come accordi di diritto internazionale, hanno un’altra stabilità e danno un’altra sicurezza alle istituzioni ecclesiastiche interessate. L’attività concordataria della Santa Sede non solo non diminuì, ma ebbe motivo di intensificarsi.
Oltre alla riforma o alla modifica di concordati precedenti per adattarli alla nuova situazione sociopolitica e culturale – si pensi per esempio agli accordi con la Spagna, l’Italia, la Germania, il Portogallo – vi sono stati nuovi concordati e nuovi accordi tra Chiesa e Stato, non solo in Europa o in America Latina, ma anche con Paesi africani, asiatici e islamici. Attualmente gli accordi bilaterali in vigore sono circa 160. Diversi accordi sono in cantiere con alcuni Stati in Europa, in Africa e in America Latina (Gabon, Gibuti, Camerun, Congo-Brazzaville, Mozambico, Slovacchia, Andorra, Filippine, Brasile).
Maggiori particolari si potranno ricavare dal testo della conferenza che ho tenuto alla Pontificia Università Gregoriana il 15 novembre 20057.
Circa questi nuovi concordati e accordi vorrei qui mettere in evidenza i seguenti aspetti.
In generale: l’influsso delle dichiarazioni e disposizioni del Concilio Vaticano II e di nuove norme canoniche, così come, da parte statale, di nuove norme costituzionali e legislative: l’“aggiornamento” giovanneo giunge a permeare anche le istituzioni giuridiche e concordatarie.
Più specificamente: il ruolo riconosciuto alle Conferenze episcopali, o circa materie di cui è menzione nell’Accordo stesso, o nell’esecuzione pratica di determinate disposizioni: è questo certo uno sviluppo correlativo a uno sviluppo istituzionale all’interno della Chiesa stessa.
L’attenzione ecumenica: sebbene gli accordi della Chiesa cattolica con gli Stati non possano interferire in re aliena, tuttavia essi non sono senza riflessi positivi sulle altre comunità religiose. Oggi, infatti, in seguito all’accordo di modifica del Concordato Lateranense e alle intese con altre confessioni religiose, sono sette i soggetti che possono beneficiare dell’“8 per mille”: oltre allo Stato italiano e alla Chiesa cattolica, l’Unione delle Chiese cristiane avventiste del settimo giorno, le Assemblee di Dio in Italia, la Chiesa evangelica valdese, la Chiesa evangelica luterana in Italia e l’Unione delle comunità ebraiche italiane.
L’inserimento, tra le materie regolate, di temi attuali, come l’utilizzo da parte della Chiesa dei mezzi di comunicazione sociale o la tutela dei beni artistici e culturali.
Pace significa certamente, anzitutto, “silenzio delle armi”. Per questo la Santa Sede ha dato il suo appoggio attivo a tutta una serie di Trattati, che essa ha sottoscritto e ratificato, o ai quali ha aderito. Anche se da parte sua si è trattato soltanto di partecipazione simbolica, essa è stata sempre molto apprezzata, anzi sollecitata, da parte degli Stati proprio per la sua valenza squisitamente morale
Un’osservazione vorrei fare sui concordati, in riferimento alle recenti prese di posizione da parte di personalità probabilmente meno addentro nella tematica giuridica. È stato infatti affermato che l’esistenza del Concordato – e ci si riferiva espressamente a quello italiano – limiterebbe la libertà degli esponenti della Chiesa cattolica di prendere posizione su questioni di carattere sociopolitico, libertà che essi avrebbero invece se la Chiesa, libera da vincoli concordatari, avesse come suo unico riferimento la Costituzione della Repubblica. Non so in base a quale disposto del Concordato si possa fondare un tale asserto; certo è che il Concordato italiano stabilisce nel nuovo testo dell’articolo 2, n. 1 che alla Chiesa cattolica è assicurata la «libertà di esercizio del Magistero», e al n. 3 si garantisce «ai cattolici e alle loro organizzazioni e associazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero, con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». In tale contesto non si può negare che deve essere rispettata la distinzione tra le materie di carattere politico e quelle di carattere religioso, e il relativo ambito di competenza delle istituzioni statali ed ecclesiastiche. Non raramente peraltro questioni socio-politiche hanno delle implicazioni morali e religiose di grande rilievo. Nella tradizione giuspubblicistica ecclesiastica si parla di “materie miste”. Gli interventi da parte della Chiesa su tali materia, per l’aspetto di sua competenza, non potrebbero comunque essere intesi come una limitazione dell’autonomia propria dello Stato, i cui organi restano del tutto autonomi e indipendenti nelle loro decisioni. Del resto, nessun testo concordatario ha mai limitato, né mai limiterà, quanto disposto dal Concilio Vaticano II, nella costituzione pastorale Gaudium et spes, che afferma: « Se per autonomia delle realtà terrene si vuol dire che le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di una esigenza d’autonomia legittima: non solamente essa è rivendicata dagli uomini del nostro tempo, ma è anche conforme al volere del Creatore... Se invece con l’espressione “autonomia delle realtà temporali” si intende dire che le cose create non dipendono da Dio e che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora a nessuno che creda in Dio sfugge quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce » (n. 36).
Queste parole hanno non minor valore a proposito dell’autonomia di quella realtà terrena che sono gli Stati e la loro attività politica, nazionale o internazionale. Lo stesso documento vaticano aggiunge: «Sempre e dovunque, e con vera libertà, è diritto della Chiesa di predicare la fede e insegnare la propria dottrina sociale, esercitare senza ostacoli la propria missione tra gli uomini e dare il proprio giudizio morale, anche su cose che riguardano l’ordine politico, quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime. E farà questo utilizzando tutti e soli quei mezzi che sono conformi al Vangelo e in armonia col bene di tutti, secondo la diversità dei tempi e delle situazioni» (n. 76).
E ancora, nel decreto Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici si può leggere: «È compito di tutta la Chiesa aiutare gli uomini affinché siano resi capaci di ben costruire tutto l’ordine temporale e di ordinarlo a Dio per mezzo di Cristo. È compito dei pastori enunciare con chiarezza i principi circa il fine della creazione e l’uso del mondo, dare gli aiuti morali e spirituali affinché l’ordine temporale venga instaurato in Cristo» (n. 7).
In questo medesimo senso sono gli sviluppi dottrinali contenuti nel n. 28 a) della lettera enciclica Deus caritas est del santo padre Benedetto XVI, che, essendo molto recenti, considero come a tutti ben noti.
Ma rientriamo nell’alveo del nostro tema più preciso. Rimanendo sempre nel contesto dell’attività bilaterale della diplomazia della Santa Sede, potrà forse sorgere spontanea la domanda su dove siano oggi i “punti caldi” che più la impegnano. Una risposta la si può trovare con facilità nei recenti Messaggi del Santo Padre per la Giornata mondiale della pace, così come nei suoi discorsi al corpo diplomatico d’inizio d’anno. Si ricorderà che nel più recente, quello del 9 gennaio scorso, il Papa ha accennato a Terra Santa, Israele, Libano, Medio Oriente, e in particolare all’Iraq, al Sudan (Darfur) e alla regione africana dei Grandi Laghi.
Giovanni Paolo II con i nunzi apostolici durante il Giubileo dei rappresentanti pontifici, il 15 settembre 2000

Giovanni Paolo II con i nunzi apostolici durante il Giubileo dei rappresentanti pontifici, il 15 settembre 2000

Nell’ambito di quest’ultimo discorso, a motivo del suo carattere di riflessione piuttosto dottrinale, i riferimenti concreti non potevano essere molti. Ma non mancano, purtroppo, molti altri argomenti che la Santa Sede, e quindi la sua diplomazia, segue con viva preoccupazione. Per esempio: in Europa, la fragile situazione della Bosnia ed Erzegovina e l’incerta futura configurazione istituzionale del Kosovo8; in Africa, la Somalia o i rapporti, molto tesi, tra Etiopia ed Eritrea, o la situazione nel nord dell’Uganda, o la Costa d’Avorio; o i problemi di varia natura in alcuni Paesi dell’America Latina (Haiti necessita certo un’espressa menzione), o la situazione dei cristiani in diversi Paesi dell’Asia, soprattutto in Cina, o anche le gravi limitazioni che non pochi regimi islamici pongono alla vita della Chiesa cattolica. Vorrei aggiungere, anche se è evidente, che una diplomazia come quella della Santa Sede, per natura sua “cattolica” e quindi “planetaria”, può doversi trovare ad affrontare di giorno in giorno un problema “caldo” diverso.

4. Presenza della Santa Sede nella diplomazia multilaterale
Vengo ora a illustrare brevemente un tema di grandissima estensione, che è però caratteristico dell’epoca a noi contemporanea. Lo sviluppo delle organizzazioni internazionali, anche se ha dei prodromi dopo la Prima guerra mondiale, ha avuto luogo in maniera crescente, sin a essere esse quasi onnipresenti, dopo la Seconda guerra mondiale9. In merito la Chiesa ha un espresso mandato del Concilio ecumenico Vaticano II, che raccomanda: «La Chiesa dev’essere assolutamente presente nella stessa comunità delle nazioni, per incoraggiare e stimolare gli uomini alla cooperazione vicendevole. E ciò, sia attraverso le sue istituzioni pubbliche, sia con la piena e leale collaborazione di tutti i cristiani animata dall’unico desiderio di servire a tutti» (Gaudium et spes, n. 89).
Ho già indicato in quale maniera la Santa Sede partecipa nelle principali organizzazioni internazionali, o come membro o come osservatore. Vorrei qui accennare a tre sfere di problematiche, che possono essere più attuali per l’interesse della pubblica opinione: pace, disarmo e sviluppo; diritti umani; e cultura10.

Pace: disarmo e sviluppo
L’impegno della diplomazia vaticana in favore della pace è connaturale espressione dell’impegno della Chiesa stessa, la cui missione è, per divina istituzione, missione di pace. Non ho bisogno di illustrare questo assunto, sul quale vi sono innumerevoli documenti pontifici.
Pace significa certamente, anzitutto, “silenzio delle armi”. Per questo la Santa Sede ha dato il suo appoggio attivo a tutta una serie di Trattati, che essa ha sottoscritto e ratificato, o ai quali ha aderito. Anche se da parte sua si è trattato soltanto di partecipazione simbolica, essa è stata sempre molto apprezzata, anzi sollecitata, da parte degli Stati proprio per la sua valenza squisitamente morale. Mi riferisco, in particolare ai Trattati di non proliferazione delle armi nucleari (1968; adesione della Santa Sede: 1971), sull’interdizione globale degli esperimenti nucleari (1996; adesione della Santa Sede: 2001), per la proibizione, dello sviluppo, produzione e stoccaggio delle armi chimiche (1993; adesione della Santa Sede: 1999); per la proibizione, dello sviluppo, produzione e stoccaggio delle armi biologiche (1972; adesione della Santa Sede: 2001); per la proibizione dell’uso, produzione, stoccaggio e trasferimento delle mine antiuomo (1997; ratifica della Santa Sede: 17 febbraio 1998); per la proibizione o restrizione dell’uso di armi convenzionali eccessivamente dannose o con effetti indiscriminati (1981; ratifica della Santa Sede: 1997). Purtroppo, nell’esecuzione dei primi due Trattati ci si trova in una situazione di stallo, dovuta a contrastanti valutazioni da parte delle potenze nucleari, circa il rapporto tra disarmo e sicurezza.
La pace è però ben più che il silenzio delle armi. Il nuovo nome della pace – dice una celebre definizione di Paolo VI – è lo sviluppo (Populorum progressio, n. 87). Il Codice di diritto canonico pone espressamente tra i compiti dei nunzi apostolici la promozione «di tutto ciò che riguarda la pace, il progresso e la cooperazione tra i popoli» (can. 364, 5°). La diplomazia della Santa Sede è impegnata in favore dello sviluppo mediante tutta una rete di interventi, sia per rilevare i bisogni più urgenti, sia per convogliare su di essi gli aiuti che la Santa Sede stessa è in grado di fornire, come anche per attirare su di essi l’attenzione delle organizzazioni cattoliche e anche di enti internazionali. È questa un’azione molto discreta, ma non per questo meno efficace. La diplomazia pontificia agisce qui come un’irradiazione della Ecclesia mater, come strumento della “carità del Papa”.

La diplomazia vaticana è la diplomazia del papa. Essa vuole essere uno strumento docile, fedele, in tutto attento alle indicazioni del vicario di Cristo, cercando sempre tanto di interpretarne le preoccupazioni quotidiane, quanto di operare per la realizzazione delle sue grandi visioni
Diritti umani
Il tema è oggetto di crescente consapevolezza in tutto il mondo. Nel suo ambito vi sono temi più specifici, che sono anche all’attenzione delle Nazioni Unite, sia a New York che a Ginevra. Mi limito ad accennare ai seguenti:
Il tema dei bambini. Secondo una valutazione complessiva, oltre un miliardo di bambini nel mondo sono vittime della povertà, dell’analfabetismo e di sfruttamento. I dati dell’Unicef riportano oltre 240 milioni di bambini costretti al lavoro; oltre 20 milioni come profughi insieme alle loro famiglie; 15 milioni come orfani a causa dell’Aids; e oltre 2 milioni come portatori del virus Hiv. Vi sono poi 300mila “bambini-soldato”, venendo considerati come “bambini” quelli al di sotto dei 18 anni (età definita nel 2002, dopo l’entrata in vigore del Protocollo facoltativo alla Convenzione sui diritti dell’infanzia). Come è noto, dal 1997 la Santa Sede ha cessato di dare il proprio contributo, simbolico, all’Unicef per dissociarsi dall’azione dell’Unicef stessa, aliena dalle sue finalità istituzionali, in favore delle pratiche contraccettive e abortive. Ciò non significa che l’Unicef non svolga, quando resta entro le sue finalità istituzionali, un’attività altamente benefica.
Il tema della donna: punti dolorosissimi sono il feticidio e l’infanticidio femminili, l’analfabetismo, la discriminazione sociale, la violazione della dignità della donna, il suo sfruttamento sessuale, eccetera. Sono ben noti gli interventi della Santa Sede alle Conferenze mondiali del Cairo su popolazione e sviluppo (1994) e di Pechino sulla donna (1995), per impedire che tra i diritti della donna, sotto il termine del diritto alla “salute riproduttiva”, si inserisse surrettiziamente un diritto all’aborto.
Il tema della famiglia. A questo riguardo mi permetto, data la ristrettezza del tempo, di rinviare alla mia conferenza per la presentazione del Lexicon curato dal Pontificio Consiglio per la famiglia. In essa è esposta più particolareggiatamente l’azione diplomatica della Santa Sede nelle organizzazioni internazionali in favore della famiglia11. Sul tema della famiglia la Chiesa è confrontata in molti Paesi dell’area culturale occidentale, e in alcune organizzazioni internazionali, a motivo del tentativo di snaturarne il significato naturale (il quale non è senza riflessi sul suo significato teologico), attribuendo il valore di famiglia anche a unioni omosessuali. Si tratta di un’evoluzione, o meglio, di una involuzione che tocca in realtà il fondamento stesso della civiltà umana. La diplomazia vaticana è impegnata, con tutta la dovuta attenzione, nella difesa della istituzione familiare, quale uscita dalle mani del Creatore, santa e feconda, e quale elevata dal Redentore a dignità di “ecclesia domestica12.
Il tema dei migranti, dei rifugiati, degli sfollati, ecc., che secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite ammontano nel mondo rispettivamente a 175 milioni, 10/11 milioni, e 25 milioni.
Dovrei qui ricordare anche il grande impegno profuso dalla diplomazia vaticana alle Nazioni Unite, in connessione con la trattazione del tema della clonazione umana: la sua proibizione, sancita dalla Risoluzione Onu n. 59/280 dell’8 marzo 2005, è in non piccola parte dovuta agli interventi, a New York e in molte altre capitali, dei rappresentanti pontifici.
Su tutti questi temi e su altri ancora la diplomazia della Santa Sede è presente cercando di far valere le argomentazioni di etica naturale, quindi accessibili alla semplice ragione umana, anche se non ancora illuminata dalla fede, in difesa della persona, della sua dignità, e di un concetto di società umana, dove la tutela della libertà sia suffragata anche dalla promozione della responsabilità non solo verso gli altri membri attuali della società, ma anche nei confronti delle generazioni future.

Sopra, il presidente cubano Fidel Castro firma il libro delle condoglianze per la morte di Giovanni Paolo II presso il palazzo 
della nunziatura a Cuba,  il 4 aprile 2005; sotto, l’arcivescovo Giuseppe De Andrea presenta le credenziali al principe ereditario 
del Qatar, il 20 aprile 2003. Il Qatar è stato l’ultimo Paese con cui la Santa Sede ha allacciato rapporti diplomatici

Sopra, il presidente cubano Fidel Castro firma il libro delle condoglianze per la morte di Giovanni Paolo II presso il palazzo della nunziatura a Cuba, il 4 aprile 2005; sotto, l’arcivescovo Giuseppe De Andrea presenta le credenziali al principe ereditario del Qatar, il 20 aprile 2003. Il Qatar è stato l’ultimo Paese con cui la Santa Sede ha allacciato rapporti diplomatici

La cultura
La Chiesa cattolica è mater et magistra. Essa è stata sempre e ovunque promotrice di scienza e di arte. Se si esaminano i concordati, recenti e meno recenti, si vede in essi un crescente interesse per le istituzioni culturali, dalle scuole elementari fino alle facoltà teologiche e alle università cattoliche. Se è vero, come con profonda preoccupazione asseriva Paolo VI, che «la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre» (Evangelii nuntiandi, n. 20), è però anche innegabile che da parte della Chiesa non è mai mancato un impegno serio e costruttivo, certo attento anzitutto ai bisogni più urgenti, e condizionato dai limiti dei mezzi e delle forze, ma esteso a ogni sfera del vivere, del pensare e del creare umano.
In ambito internazionale la Santa Sede è presente all’Unesco con un proprio osservatore permanente e partecipa all’attività nei tre ambiti di competenza dell’Unesco stessa: educazione, scienza e cultura.
Nell’ambito dell’educazione essa segue i programmi contro l’analfabetismo e in favore dei diritti dei genitori alla scelta dell’educazione per i figli. È inoltre parte delle cinque Convenzioni dell’Unesco concernenti il riconoscimento di studi, diplomi, gradi e titoli dell’insegnamento superiore.
Nell’ambito della scienza ha svolto un ruolo attivo nell’elaborazione delle tre Dichiarazioni sul genoma umano e i diritti dell’uomo (1997), sui dati genetici umani (2003), e sulla bioetica e i diritti dell’uomo (2005). L’osservatore permanente prende parte attivamente anche nei relativi Comitati: Comitato internazionale di bioetica (Cib), Comitato intergovernativo di bioetica (Cigb), Commissione mondiale dell’etica, delle conoscenze scientifiche e delle tecnologie (Comest).
Nell’ambito della cultura, la Santa Sede è parte delle Convenzioni dell’Unesco per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (1954), e per la protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale (1972).
Oltre a ciò si dovrebbero citare altre organizzazioni internazionali di carattere culturale: il Consiglio internazionale dei monumenti e dei siti (Icomos), il Consiglio internazionale dei musei (Icom), il Centro internazionale di studi per la conservazione e il restauro dei beni culturali (Iccrom), il Comitato internazionale di storia dell’arte (Ciha), il Consiglio internazionale degli archivi (Ica), la Federazione internazionale delle associazioni dei bibliotecari e delle biblioteche (Ifla). Con esse e con altre ancora la Santa Sede collabora in vari modi, con il coinvolgimento anche della sezione per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato.

5.Conclusione
I limiti di tempo e della vostra pazienza mi impongono di concludere.
La diplomazia vaticana è la diplomazia del papa. Essa vuole essere uno strumento docile, fedele, in tutto attento alle indicazioni del vicario di Cristo, cercando sempre tanto di interpretarne le preoccupazioni quotidiane, quanto di operare per la realizzazione delle sue grandi visioni.
Quali esse siano non è difficile individuare. Una parola di Paolo VI – sempre suggestivo nelle sue espressioni – ripetutamente ripresa da Giovanni Paolo II e anche da Benedetto XVI, parola che tutto riassume, è: «la civiltà dell’amore». Nella sua prima lettera enciclica Deus caritas est, Benedetto XVI ha indicato l’ispirazione che muove la Chiesa verso così alta finalità, quali le strutture, quale il profilo professionale e spirituale della sua azione. Al centro del disegno di una tale civiltà dell’amore non può esservi che l’immagine dell’uomo. L’uomo – ha detto Giovanni Paolo II – è «la via della Chiesa» (cfr. Redemptor hominis, n. 14). Essa non è un’immagine vaga e sfocata; essa ne riflette, invece, un’altra ricca, inconfondibile, sempre viva e parlante: quella di Cristo, che è la via dell’uomo. Nella sua enciclica, Benedetto XVI ha scritto: «l’amore per l’uomo si nutre dell’incontro con Cristo» (n. 34).
Su questa via e non altra, cammina, con lo stesso passo della Chiesa, anche la diplomazia vaticana in un pellegrinaggio lungo e appassionante quanto la storia stessa dell’uomo.



NOTE

1 Lo Stato della Città del Vaticano è rappresentato nei rapporti con gli Stati esteri e con gli altri soggetti di diritto internazionale, per le relazioni diplomatiche e per la conclusione di trattati, dalla Segreteria di Stato, la quale procede mediante l’invio e l’accreditamento di personale tecnico del governatorato dello Stato della Città del Vaticano. Lo Stato della Città del Vaticano è membro di numerose Organizzazioni internazionali, tra l’altro di: Unione postale internazionale (Upu), Unione internazionale delle telecomunicazioni (Uit), Conferenza europea su amministrazioni postali e telecomunicazioni (Cept), Organizzazione internazionale per le telecomunicazioni satellitari (Itso, già Intelsat), Organizzazione europea per le telecomunicazioni satellitari (Eutelsat), Consiglio internazionale sui cereali (Igc), Organizzazione internazionale per la proprietà intellettuale (Ompi), Istituto internazionale per l’unificazione del diritto privato (Unidroit).
2 Sull’evoluzione storica della figura del rappresentante pontificio fa testo l’opera di Pierre Blet, Histoire de la Représentation Diplomatique du Saint Siège des origines à l’aube du XIXe siècle, Città del Vaticano 1982, (seconda edizione 1990). Una presentazione organica aggiornata della tematica si può trovare in Giovanni Barberini, Chiesa e Santa Sede nell’ordinamento internazionale. Esame delle norme canoniche, G. Giappichelli Editore, Torino 2003. Dello stesso autore è anche la voce “Diplomazia pontificia” nel volume Aggiornamento XIII della Enciclopedia giuridica 2005 dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana Treccani.
3 Casi estremi sono quelli del nunzio apostolico a Trinidad e Tobago, che è titolare di 11 Rappresentanze in altri Stati caraibici e delle Antille, e del nunzio apostolico in Nuova Zelanda, che è titolare di 10 altre Rappresentanze in Oceania.
4 Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr); Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad); Strategia internazionale per la riduzione dei disastri (Isdr); Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (Wipo); Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu), della quale è membro anche a nome e per conto dello Stato della Città del Vaticano; Organizzazione per l’applicazione del Trattato per il bando completo della sperimentazione nucleare (Ctbto).
5 Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim); Organizzazione meteorologica internazionale (Wmo); Organizzazione mondiale della sanità (Who); Ufficio internazionale del lavoro (Ilo); Organizzazione mondiale del turismo (Omt), a partire dal 1979; Organizzazione mondiale del commercio (Wto), dal 1997; Organismi delle Nazioni Unite per l’ambiente e gli insediamenti umani (Unrp e Un/Habitat), sempre a partire dal 1997.
6 «Qua e là nei commenti giornalistici affiora il concetto che il fatto dell’avvenuto Concordato tra la Santa Sede e la Germania significa l’abbandono da parte della Santa Sede stessa del suo costante contegno dinanzi alle diverse forme di governo e vuol essere invece approvazione e riconoscimento di una determinata corrente di dottrine e vedute politiche. Questa asserzione merita subito un chiarimento. Non sarà infatti superfluo ricordar


Español English Français Deutsch Português