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DOCUMENTO
tratto dal n. 05 - 2006

Taccuino di viaggio

Il viaggio di Giorgio Napolitano negli Usa nel 1978


Ripubblichiamo l’articolo che Giorgio Napolitano, oggi presidente della Repubblica, scrisse per Rinascita al ritorno dalla sua visita negli Stati Uniti nel 1978. Era stato invitato da alcune tra le più prestigiose università americane, ed era la prima volta che a un dirigente del Pci veniva concesso il visto per entrare nel Paese



Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano saluta la gente in piazza del Quirinale, il 2 giugno 2006

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano saluta la gente in piazza del Quirinale, il 2 giugno 2006

Il “primo viaggio” di un dirigente del Pci negli Stati Uniti era stato predisposto già da alcuni mesi – in risposta all’invito dell’Università di Princeton e di altre prestigiose Università e centri di ricerca – sulla base di un programma di conferenze e seminari, e quindi di una precisa caratterizzazione politico-culturale. I limiti della visita erano chiari: non si prevedevano, in particolare, né era mia intenzione sollecitare, incontri con esponenti del Congresso e dell’amministrazione. La novità e il significato dell’avvenimento stavano nel fatto stesso del rilascio del visto – per la prima volta a un membro della Direzione del Pci invitato in quanto tale negli Stati Uniti per illustrare la politica del Pci, e non come componente di una delegazione unitaria, di carattere parlamentare o regionale o comunale, per partecipare a una missione ufficiale – e stavano nella possibilità di un contatto diretto, di un confronto non superficiale, con alcuni ambienti qualificati.
Ma l’ampiezza che ha poi effettivamente assunto – nel corso dei quindici giorni della mia permanenza – questa presa di contatto, risulterà meglio da un resoconto concreto, anche se sommario, del viaggio.

1. Fin dal primo giorno – trascorso a New York – ho il segno di un’attenzione della grande stampa, che si rivela senz’altro superiore al previsto. Mi incontro subito presso la sede di Newsweek, insieme con Alberto Jacoviello, con un folto gruppo di redattori dell’importante settimanale, da cui sono stato invitato a una discussione informale. I recenti, drammatici avvenimenti – la strage di via Fani e il rapimento dell’onorevole Moro – hanno evidentemente acuito l’interesse per uno scambio di idee con un dirigente del Pci e, più in generale, con un esponente politico italiano. Si discute sul fenomeno del terrorismo, sulle sue cause, sulla sua dimensione internazionale e sulla sua rilevanza e virulenza in Italia. Mi sembra che venga apprezzato il nostro impegno a non seguire la troppo facile strada della riduzione del fenomeno a complotto reazionario – le Brigate rosse come marionette, opportunamente travestite, della reazione – e a fare invece i conti con le degenerazioni, fino al delirio ideologico e al crimine più barbaro, dell’ispirazione rivoluzionaria del marxismo e del movimento comunista. E mi sembra che si colga l’importanza dell’accordo intervenuto tra i partiti della nuova maggioranza, della loro ferma determinazione a respingere l’attacco e il ricatto terroristico senza uscire dal quadro costituzionale, dell’intervento netto e combattivo del movimento dei lavoratori e del risultato che così si è ottenuto in termini di drastico isolamento dei fautori della violenza sanguinaria e dell’eversione comunque si presentino e si giustifichino.
Gli stessi temi, insieme a quelli della politica generale del Pci, torneranno in altri incontri con la stampa: a New York, a Boston, a Washington, con una decina di top editors di Time e di Fortune, con un gruppo di editorialisti del New York Times, con redattori del Washington Post e di altri giornali. E sempre mi colpirà l’essenzialità e concretezza di queste discussioni informali (off the record, non destinate a essere utilizzate per la pubblicazione, né sotto forma di interviste né per semplici citazioni): le domande sono asciutte, vanno subito al punto che interessa, in un’ora o un’ora e mezzo si svolge un confronto serrato, sostanzioso, di cui si terrà conto.

2. Nelle Università – a cominciare da Princeton, il cui campus e i cui istituti, tra ampi spazi verdi ed edifici di ogni stile, da quelli classicheggianti a quelli sobriamente funzionali, sono parte essenziale di un’assai gradevole cittadina, a poco più di un’ora da New York – le discussioni sono più distaccate, naturalmente, e acquistano maggior respiro.
A Princeton, presso la Scuola “Woodrow Wilson”, che forma quadri per la pubblica amministrazione e la politica internazionale, svolgo le conferenze sui temi a suo tempo concordati (“Strategia e prospettive della sinistra in Europa”; “L’intervento dello Stato nell’economia” – sia l’uno che l’altro, si intende, dal punto di vista dell’esperienza e della politica del Pci). Parlo a docenti e studenti in un auditorium per 150-200 persone, e segue, in tutte e due le occasioni, un nutrito dibattito (gli interventi di norma sono brevi e perciò numerosi) per oltre un’ora. Il programma comprende però diversi altri incontri: con due gruppi di 15-20 studenti del dipartimento di politica e della Scuola “Woodrow Wilson”, con i partecipanti al seminario sul fascismo del corso di storia, con i giornalisti che trascorrono un anno all’Università per iniziativa della Fondazione Sloan. Animatori di questo programma sono Miles Kahler, del Comitato di studi sull’Europa, e altri giovani professori; con altri autorevoli e brillanti docenti ho incontri personali o conviviali, e una visita all’Istituto di studi avanzati mi dà la possibilità di una succosa conversazione con sociologi ed economisti, come il professor Hirschmann, Claus Offe, “in visita” a Princeton per quest’anno accademico, e David Gordon.
 Napolitano risponde alle domande di uno studente 
di Harvard, durante una delle conferenze tenute nelle università statunitensi nel 1978

Napolitano risponde alle domande di uno studente di Harvard, durante una delle conferenze tenute nelle università statunitensi nel 1978

I due-tre giorni che trascorro a Harvard come a Princeton sono ancora più intensi. Al di là della conferenza e del successivo ampio dibattito (sull’attuale crisi economica e politica italiana e le proposte del Pci), che si svolgono in una sala affollata anche oltre i 3-400 posti disponibili, si susseguono le «sedute di domande e risposte»: sugli impegni internazionali del Pci e dell’Italia, sulla via italiana al socialismo e il movimento comunista internazionale, sulle relazioni tra comunisti e socialisti in Europa, sulla politica economica del Pci. Vi partecipano quindici, venti e più persone, studenti e numerosi docenti, di volta in volta del Centro di studi europei e del Centro per le questioni internazionali, dell’Università di Harvard e del Mit, dell’Harvard Business School e della John F. Kennedy School of Government. Sono sedute di circa due ore, che talvolta includono (e travolgono) il pasto, e le domande sono davvero domande, non discorsi, e occorre sforzarsi di dare risposte puntuali.
Promotore dell’invito (rivoltomi già nel 1975) è il Centro per gli studi europei; il suo direttore professor Stanley Hoffmann, docente e autore di alto prestigio scientifico e acuto osservatore delle cose d’Italia e d’Europa, e con lui il giovane e già molto noto “italianista” professor Peter Lange, ha predisposto la fitta rete dei miei impegni ad Harvard. Impossibile ricordare i nomi di tutti gli studiosi di elevata qualifica che ho occasione di incontrare in questo centro eccezionalmente dotato dal punto di vista della presenza di energie intellettuali e di condizioni organizzative e ambientali favorevoli alla ricerca; ma tra i più impegnati nel seguire e rendere stimolante il programma dei miei tre giorni di permanenza vi è certamente il professor Franco Modigliani, presso il quale incontro al Mit il professor Samuelson e altri autorevoli economisti per uno scambio di idee sulla situazione economica italiana.
Ed è infine la volta di Yale, per un soggiorno più breve e un programma analogo, predisposto dal professor Josep La Palombara, anch’egli attento studioso della realtà politica italiana e autore di accurati saggi sul Pci; e anche lì ho modo di conoscere personalità interessanti e prestigiose, dall’economista James Tobin al political scientist Robert Dahi.
Il contatto con ambienti rappresentativi del mondo universitario e culturale americano, in alcuni dei suoi centri più importanti e più impegnati politicamente, ha assunto dunque una notevole ampiezza. E a me pare non dubbio che tra questo mondo e le sedi di elaborazione della politica americana ci sia comunicazione, non separazione; questo dato è forse ancor più concretamente percepibile al Centro di ricerca di politica estera dell’Università Johns Hopkins, diretto a Washington da Simon H. Serfaty, presso il quale tengo un seminario, promosso anche dal Centro di studi strategici e internazionali della Georgetown University. Certo, il processo di formazione delle opinioni e delle decisioni in un Paese come gli Stati Uniti è straordinariamente complesso; le mediazioni sono molte; confluiscono in esso molteplici apporti di varia natura, ma tra questi non va sottovalutato il contributo dei maggiori centri di elaborazione politico-culturale e delle forze intellettuali che li guidano.

Qui sopra, Il taccuino di viaggio negli Usa 
di Napolitano, pubblicato da Rinascita nel maggio 1978

Qui sopra, Il taccuino di viaggio negli Usa di Napolitano, pubblicato da Rinascita nel maggio 1978


3. In ambienti più riservati, nei quali si ritrovano uomini d’affari, giornalisti ed esperti – il Lehman Institute e il Council on Foreign Relations –, dalle domande traspare talvolta più nettamente la riserva o il sospetto. Ma mi son fatto via via la convinzione – passando dalle discussioni con la stampa alle Università a incontri di diverso tipo sia a New York che a Washington – di essermi imbattuto nelle questioni che in sostanza si pongono dovunque nei confronti del Pci e dell’Italia, al di là di un’estrema varietà di toni, di interessi e di livelli di informazione. E queste questioni – le questioni di fondo – investono il rapporto tra le nostre posizioni attuali e le nostre prospettive più lontane (perciò ci si interroga sulle nostre premesse ideologiche: e solo qualche volta le domande sono formulate da marxisti o da un punto di vista marxista rigoroso, ed esprimono dubbi “di sinistra”); investono il nostro rapporto con l’Europa e l’Occidente, e le nostre posizioni di politica internazionale. Le ingenuità, gli schemi, i pregiudizi, pesano ancora molto. Si fa fatica, da parte di molti, a “inquadrarci”; e non parlo di avversari dichiarati e irriducibili, ma di persone e forze impegnate a comprendere e a valutare obiettivamente la realtà del Pci. È comunque un fatto che si è acceso un interesse, che si sono aperti canali di comunicazione e di confronto. Bisogna percorrerli, anche se il cammino non sarà semplice.

Giorgio Napolitano


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