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TURCHIA
tratto dal n. 11/12 - 2002

Un possibile compromesso storico


Come la Dc in Italia, il partito islamico moderato di Erdogan potrebbe essere un fattore di mediazione tra la popolazione di religione musulmana e quel potere che ha costruito e governato finora la Turchia moderna. L’editorialista di Avvenire Maurizio Blondet ripercorre la storia di questo “strano” potere. Intervista


di Paolo Mattei


Chi avrebbe mai detto che all’origine della Turchia moderna ci sarebbe un’eresia ebraica del XVII secolo? Chi avrebbe potuto immaginare quello che racconta lo studioso Maurizio Blondet – editorialista di Avvenire, il quotidiano dei vescovi italiani –, cioè che il movimento nazionalista dei Giovani Turchi, i patrioti nelle cui file si formò il padre della patria Kemal Atatürk, il grande modernizzatore, fosse in gran parte costituito da rampolli delle famiglie aderenti all’eresia di Sabbatai Zevi, il “messia apostata” di Smirne, il quale simulò la conversione all’islam? Di questo personaggio, e dell’ebreo polacco Jacob Frank, l’altro falso messia che si autodefinì reincarnazione di Sabbatai e che apostatò due volte facendosi prima musulmano e poi cristiano, 30Giorni ha già avuto modo di delineare i profili attraverso varie interviste. In alcune di esse gli intervistati hanno spiegato la natura degli “atti strani”, ossia gli incesti rituali, le cerimonie iniziatiche a sfondo sessuale, che gli adepti sabbatei e frankisti praticavano proclamando «la purificazione attraverso il peccato», espressione propria di una gnosi aberrante secondo cui per giungere alla salvezza è necessario calarsi fino in fondo nell’impurità da redimere. In altre occasioni di dialogo sono emersi i dubbi e le perplessità su questa complessa vicenda.
Ma l’ipotesi, avanzata da Blondet, che da questo fenomeno religioso sia potuta scaturire una rivoluzione nazionale come quella turca d’inizio Novecento, determinante la fine dell’impero ottomano e l’inizio di uno Stato laico e moderno, incuriosisce non poco. Specialmente adesso, dopo le ultime elezioni politiche. La vittoria degli islamici moderati di Tayyip Erdogan sembrerebbe infatti interrompere la continuità che da un secolo caratterizza i governi del Paese, legati strettamente a quella fondante esperienza rivoluzionaria.
Abbiamo dialogato con Maurizio Blondet che al fenomeno delle eresie sabbatea e frankista e alla vicenda dei Giovani Turchi ha dedicato alcune sue fatiche editoriali.

Allora, dottor Blondet, secondo lei i rivolgimenti che tra l’inizio del XX secolo e il 1922 portarono alla fine dell’impero ottomano e alla nascita della Turchia moderna hanno un legame con la vicenda di uno strano uomo vissuto nel XVII secolo, Sabbatai Zevi. Innanzitutto, chi era costui?
MAURIZIO BLONDET: Zevi nacque nel 1616 a Smirne, allora nell’impero ottomano, da una ricca famiglia mercantile della comunità israelitica di quella città. Era un uomo eccentrico, che il massimo studioso del messianismo ebraico Gershom Scholem, nel suo libro Le messianisme juif (Calmann-Lévy, Parigi 1974, ndr), definisce «affetto da grave squilibrio mentale, oscillante fra l’euforia dell’estasi e l’angoscia della malinconia». Tanto che per gli “atti strani” che cominciò a commettere in gioventù – atti «che consistevano nell’infrangere la legge» spiega ancora Scholem – fu sottoposto alla rituale bastonatura per ordine del locale tribunale rabbinico. Sabbatai metteva in pratica l’idea diffusa che il messia dovesse abrogare e abolire la Legge.
Quando si proclamò messia?
BLONDET: Intorno ai cinquant’anni. Durante uno dei suoi angosciosi viaggi che lo portarono a Gaza, incontrò un certo Nathan ben Elisha, un giovane asceta, assiduo studioso della cabala, soggetto a visioni estatiche, il quale diceva di parlare con gli spiriti dei morti. Nathan si fece suo mentore rivelandogli la sua missione: era proprio lui, Sabbatai, il redentore tanto atteso. Allora ebbero inizio le peregrinazioni di Sabbatai e la rivelazione pubblica della sua identità di messia. «In tempo molto breve», attesta Scholem, il movimento attecchì in molte comunità della diaspora ebraica, «dallo Yemen alla Persia all’Inghilterra, dall’Olanda alla Russia alla Polonia». Nel 1666 si mise in viaggio navigando alla volta di Costantinopoli con l’idea di proclamare il regno e di togliere l’autorità al sultano. Ma il 6 gennaio la nave fu intercettata nel mar di Marmara e Sabbatai fu arrestato. Il 16 settembre, condotto davanti al sultano, al termine di una disputa teologica «fu posto davanti alla scelta seguente: o mantenere le sue pretese messianiche e soffrire il martirio, o convertirsi all’islam», sostiene Scholem.
Fu allora che si convertì…
BLONDET: Sì, ma fu una falsa conversione, stando a quanto Nathan ben Elisha – da quel momento che generò scandalo e disperazione in quanti avevano creduto nel messia Sabbatai – andò predicando ovunque. Nathan proclamò che dietro il terribile “atto strano” di Sabbatai si celava un significato profondo e nascosto: l’apostasia era necessaria nel piano segreto della redenzione. Il messia doveva compiere il gesto più scandaloso, il rifiuto della Torah, perché quell’atto era salvifico; doveva gettarsi nel male, calarsi fino al fondo dell’abisso.
Come reagirono i suoi seguaci?
BLONDET: Molti esitarono; parecchi si convertirono con le loro famiglie all’islam, assumendo nomi islamici e compiendo gli atti esterni della religione di Allah. Alcuni, i “moderati”, non abiurarono perché convinti che l’apostasia fosse il dovere del solo messia. Lo stesso Nathan ben Elisha continuò a professarsi ebreo. Ma nel chiuso delle loro anime e delle loro case tutti continuavano a professare quella religione e a praticare i riti aberranti insegnati da Sabbatai, informati dall’antinomismo e dall’infrazione della Legge, come lo “spegnimento delle luci”, una cerimonia caratterizzata da incesti e unioni sessuali vietate. Si crearono contatti anche con una setta esoterica di matrice islamica, i mistici Bektashi, dediti alla ripresa dell’antico culto anatolico della Grande Madre. Accenna a riguardo Scholem: «Una posizione simile di eresia mistica e una comunanza nelle stesse aberrazioni profonde hanno dovuto creare legami di simpatia fra i due gruppi». I turchi chiamarono i seguaci della dottrina di Sabbatai dunmeh, che significa appunto “apostati”.
Facciamo un passo in avanti nel tempo per avvicinarci al momento della rivoluzione dei Giovani Turchi…
BLONDET: I dunmeh divennero numerosi. Tra il 1865 e il 1924 erano 15mila a Salonicco – metropoli a maggioranza ebrea e turca -, la metà quindi della popolazione che in quella città si dichiarava turca. Alcuni di loro conducevano una doppia vita dando ai figli due nomi, uno pubblico islamico e uno segreto ebraico, e praticando nascostamente il culto sabbateo. Col tempo costituirono l’anima dell’intellettualità progressista turca, abbeverata alla cultura europea e ricca di relazioni con l’Occidente. Formarono parte delle classi commerciale, bancaria e medica. Strinsero rapporti d’affari con le più importanti merchant banks di Londra e con la Borsa granaria di Varsavia. Le file dei liberi pensatori, dei radicali borghesi, degli intellettuali e dei giornalisti si arricchirono di personalità dunmeh. E anche l’armata della Sublime Porta fu rafforzata da linfa sabbatea. Come pure, appunto, il movimento dei Giovani Turchi. Scholem ricorda infatti che «i dunmeh hanno esercitato un ruolo importante nel Comitato unione e progresso, l’organizzazione dei Giovani Turchi che ebbe origine a Salonicco». I giovani dunmeh di terza generazione, con inquietudine ed esaltazione, guardavano alle novità politiche e sociali che nascevano in Europa, ed erano ansiosi di liberarsi delle pastoie del passato. Erano i protagonisti di una classe pubblicamente modernizzatrice, concreta, razionalistica e laica, ma che occultamente praticava i riti aberranti di una gnosi mistica e nichilista protesa al rovesciamento di tutti i valori costituiti. Il loro messianismo nel tempo si era trasformato quindi in un progetto politico di rinnovamento e di rivoluzione, che in ultima analisi aveva come fine la dissoluzione, la distruzione.
Sono gli anni della crisi dell’impero ottomano, “il malato d’Europa”.
BLONDET: Sì, anche se fu una crisi amplificata dalla campagna di stampa dei giornali occidentali, specialmente britannici, che diffondevano l’idea di un’imminente bancarotta dell’impero. Di fronte alla divulgata voce del rischio di insolvenza, i capitali stranieri presero la via di fuga aggravando ulteriormente la situazione. In realtà, l’ultimo sultano Abdul Hamid fece del suo meglio per rimettere a posto le finanze. E vi riuscì senza l’appoggio della grande finanza internazionale, visto che quando fu costretto a lasciare il potere, il debito ottomano si era ridotto da 2528 milioni a 106 milioni di lire turche oro. Ma un progetto più potente aveva già sancito lo smantellamento dell’impero. Tale progetto fu attuato anche con l’opera della «filiale veneziana» della Comit che, come attesta lo storico Webster nel libro Industrial Imperialism in Italy, 1908-1915 (University of California Press, Berkeley 1975, ndr), «divenne l’avanguardia della penetrazione italiana verso Est, verso i Balcani e l’impero ottomano». La Comit, nella persona di Giuseppe Volpi conte di Misurata, gestì, come un curatore fallimentare con mandato di pignoramento, il debito pubblico ottomano per conto dei creditori occidentali.
Poi iniziò la rivoluzione, nel 1908…
BLONDET: In realtà fu un colpo di Stato militare. In quell’anno la Terza Armata ottomana si sollevò dando origine al movimento nazionalista organizzato e manovrato dal Comitato unione e progresso, che assunse il governo e divenne il centro direzionale del risorgimento rivoluzionario. L’esultanza non fu generale. Dapprima il popolo turco guardò abbastanza interessato, irretito dal richiamo nazionalista. Poi però i capi religiosi musulmani e il patriarcato ortodosso cominciarono a preoccuparsi davanti ai progetti ventilati dalla nuova dirigenza, come l’insegnamento obbligatorio della lingua turca o la soppressione delle scuole cristiane. Nonostante il Comitato centrale dei Giovani Turchi si affrettasse a sconfessare questi propositi, nel 1909 si produsse una sommossa popolare che il nuovo governo “liberatore” represse immediatamente condannando contestualmente a morte molti rappresentanti del basso clero islamico.
Tra i Giovani Turchi militava Mustafa Kemal, detto Atatürk, che nel 1923 divenne dittatore portando a termine quell’opera di radicali cambiamenti alla base della Turchia moderna.
BLONDET: Anche lui era un dunmeh sabbateo. Ce lo dice Arthur Mandel, l’autore della più ampia ricerca storica su Jacob Frank, il polacco che nel XVIII secolo si proclamò a Salonicco reincarnazione di Sabbatai Zevi e che dopo aver falsamente apostatato all’islamismo, si convertì altrettanto falsamente al cristianesimo nel 1759, a Varsavia.
Bisogna ammettere che la storia è un po’ complicata…
BLONDET: Quella delle eresie sabbatea e frankista è una vicenda vasta e ramificata in Paesi vicini e lontani, una storia dalla trama molto complessa. Il frankismo è la deriva dell’eresia sabbatea nell’ambito del cattolicesimo polacco, un passo in avanti verso l’ulteriore apostasia, la conversione al cristianesimo. Su Jacob Frank e sulla diffusione dei riti dello gnosticismo aberrante coltivati nell’ambito cattolico polacco, Arthur Mandel, come ho detto, ha scritto il saggio Il messia militante. La storia di Jacob Frank e del movimento frankista (Archè, Milano 1984, ndr). Il movimento culturale e artistico della Giovane Polonia, che nacque nei primi del Novecento, contemporaneo quindi ai Giovani Turchi, ebbe tra le sue file molti frankisti che sicuramente ispirarono le sue espressioni e la sua ideologia. I frankisti polacchi, dopo la conversione in massa al cattolicesimo del 1759, divennero parte integrante della nobiltà e dell’intellighenzia di quel Paese.
Torniamo ad Atatürk.
BLONDET: Spiega Mandel: «Anche i dunmeh generarono alcuni talenti militari; il generale Kemal Atatürk, padre della Turchia moderna, era uno di loro».
Atatürk tentò di imporre decisive riforme religiose.
BLONDET: In effetti fino al 1918 appariva come un devoto musulmano. Poi, preso definitivamente il potere, istituì la Commissione per la riforma religiosa che avanzò proposte, inaccettabili per i musulmani, riguardo all’arredamento delle moschee, quali la copertura dei pavimenti con banchi da chiesa, l’abolizione del tappeto di preghiera e l’installazione di organi musicali. Se questi progetti non andarono in porto, altri furono effettivamente realizzati. Penso all’abolizione del velo per le donne oppure all’uso della lingua turca nelle preghiere in sostituzione dell’arabo classico del Corano, che per i musulmani è la lingua sacra. Gli imam e i muezzin si rifiutarono di adottare il turco e furono incarcerati a centinaia. Fu imposto un nazionalismo turco che nell’impero ottomano, proprio in quanto impero, cioè fisiologicamente multietnico, non urgeva affatto. Dalla tolleranza religiosa vigente nell’impero – si pensi per esempio a Sarajevo dove l’una accanto all’altra si possono vedere la chiesa ortodossa e la moschea – si passò all’intolleranza contro tutte le religioni presenti. E una conseguenza del nazionalismo sarà anche la persecuzione degli armeni. L’istigazione dell’istinto etnico usato come strumento per la demolizione di un impero misto per sua natura, in cui tutti – greci, curdi, armeni, ortodossi, ebrei – avevano privilegi, diritti e doveri da rispettare, ha come conseguenza diretta la tensione alla creazione dell’etnia pura. A scapito delle altre, le minoranze “impure”, che vanno eliminate. Insomma, il nazionalismo turco non fu un fenomeno popolare spontaneo, ma l’espressione del radicalismo di potentissime minoranze.
E i problemi economici furono risolti?
BLONDET: Guardi, le dico soltanto che dopo l’ascesa di Atatürk il debito pubblico risalì del 1300 per cento. Stavolta però le banche e la stampa occidentali non ritennero di doverne parlare con scandalo e allarme.
Come valuta la vittoria elettorale in Turchia da parte del Partito della giustizia e dello sviluppo, espressione politica degli islamici moderati?
BLONDET: La vittoria di un partito islamico moderato, modernizzante, mi sembra una cosa buona. Il fatto che si dichiarino islamici moderati, che siano molto prudenti, è segno che hanno capito come va il mondo. Sanno che molti li vorrebbero distruggere. La vittoria di questo islamismo moderato potrebbe essere un fattore positivo per tutto l’islam, specialmente adesso che si comincia a dire che l’islam non dovrebbe esistere…
Scardineranno il progetto alla base della Turchia moderna di cui ha parlato?
BLONDET: Ma no, non si tratta di scardinare nulla. Questo partito islamico moderato ricorda anche a me, come ad alcuni analisti che ne hanno parlato, la Democrazia cristiana. Non devono fare piazza pulita. Quando la Dc andò al potere usò intelligentemente le armi del compromesso, sapeva che bisognava ricostruire, aveva bisogno degli aiuti internazionali, del Piano Marshall… Anche loro dovranno cercare un accomodamento, non allarmare i poteri forti, saper dialogare con essi. Spero e gli auguro sinceramente di poterlo fare.
Come giudica il dibattito intorno all’entrata della Turchia in Europa?
BLONDET: È senz’altro interessante, ma lascia un po’ il tempo che trova in quanto i poteri forti, Israele e gli Stati Uniti hanno già deciso che la Turchia entrerà in Europa. È uno Stato a loro necessario, gli è necessario ora, ad esempio, per la guerra all’Iraq. E l’Europa non può opporsi. D’altronde per la Turchia, come mi sembra di aver fatto intendere, si è sempre avuto negli ultimi ottant’anni un occhio di riguardo. Pensi solo a come viene tranquillamente definito l’esercito turco: “il garante delle istituzioni democratiche”… Allora, tanto vale che in Europa si approfitti di questo momento per permettere alla Turchia di entrare: ora che c’è un partito democratico islamico, ora che c’è la possibilità che uno Stato governato da una maggioranza musulmana adotti delle leggi civili diverse da quelle della Sharia. Tanto il programma è già fatto, si sono già conclusi gli accordi.
Che tipo di accordi?
BLONDET: Innanzitutto economici. È evidente che la Turchia trarrebbe grandi benefici dall’ingresso in Europa, visto l’alto costo del suo denaro, visti i problemi di sviluppo e le condizioni della popolazione. Riguardo alla guerra contro l’Iraq, certo suscita malumori. Ma i turchi, non essendo naturalmente in grado di opporvisi, hanno ottenuto perlomeno l’assicurazione che l’Iraq non sarà smembrato, così che sia scongiurato il pericolo interno rappresentato dai curdi, i quali, nel caso i connazionali residenti in Iraq dichiarino l’indipendenza, potrebbero essere tentati di associarsi ad essi.
Qualcuno ha anche il timore che la Turchia in Europa possa mettere in pericolo l’identità cristiana del vecchio continente…
BLONDET: Se l’Europa fosse cristiana sarebbe un timore comprensibile. Ma è cristiana l’Europa? C’è ancora forse qualcuno che si illude che lo sia? È rimasto solo il Papa a crederlo…


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