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SCUOLA CATTOLICA
tratto dal n. 06 - 2006

La scommessa di un matematico


Nella Verona asburgica della Restaurazione don Nicola Mazza azzardò quella che lui chiamava una “scommessa”: offrire agli ingegni migliori, ma privi di mezzi, la possibilità di accedere ai gradi più alti della cultura. Intervista con Emilio Butturini, preside della Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Verona


Intervista con Emilio Butturini di Giovanni Ricciardi


Don Nicola Mazza

Don Nicola Mazza

«Si piglia gioco di me? Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?». La scena è famosa: Renzo Tramaglino, filatore di seta vivace e arguto ma in difficoltà di fronte al “misterioso” latino messo in campo da don Abbondio. Il montanaro lombardo del Seicento era condannato dalla sua ignoranza a restare confuso di fronte al curato che rifiutava di celebrargli il matrimonio. E «dunque», concludeva don Abbondio, «se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa».
Due secoli dopo, al tempo in cui Manzoni viveva, la situazione dell’istruzione in Italia non era cambiata di molto. L’analfabetismo tra le classi popolari era la norma. Solo con la legge Coppino del 1877 verrà introdotto in Italia l’obbligo scolastico, peraltro applicato con grandi difficoltà, specie nell’Italia meridionale e insulare, dove, secondo dati del censimento del 1901, più del 60 per cento della popolazione era analfabeta. Pochissimi, poi, proseguivano: sempre nel censimento del 1901, i ragazzi tra i 14 e i 18 anni che frequentavano una scuola superiore erano ancora lo 0,28% del totale.
Eppure, già dai primi dell’Ottocento, la nascente industrializzazione, specialmente al nord, cominciava a incidere sul tessuto contadino e a porre nuove esigenze sul piano educativo e sociale, a cui gli Stati tardavano a dare risposte concrete. Alcuni uomini di Chiesa intuirono, in questo contesto, l’importanza di un’istruzione diffusa, rivolta agli strati più bassi della popolazione. È il caso di don Bosco, a Torino, che fornirà un modello insuperato per le scuole tecniche e professionali. Ma ancora prima di lui, nella Verona asburgica della Restaurazione, un sacerdote diocesano, don Nicola Mazza, diede vita a un istituto che anticipava di decenni il sorgere dell’istruzione pubblica medio-superiore in Italia. La storia della scuola cattolica è fatta anche di questi personaggi, capaci di precorrere i tempi rispondendo a esigenze che la “società civile” percepiva ancora lontane e secondarie. Una scuola intesa come una necessità e un’occasione per tutti, non più come privilegio di classe. Don Mazza azzardò, in quegli anni, quella che lui chiamava una scommessa, o meglio, un “esperimento”, da professore di matematica e meccanica qual era: offrire agli ingegni migliori, ma privi di mezzi, la possibilità di accedere ai gradi più alti della cultura; e questo non nell’epoca della scuola di massa, ma quando quel genere d’istruzione era un privilegio riservato a pochissimi. Alla sua figura ha dedicato uno studio approfondito il professor Emilio Butturini, ordinario di Pedagogia generale e di Storia della pedagogia, oggi preside della Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Verona.

Professore, che cosa ha di peculiare la figura di don Mazza?
EMILIO BUTTURINI: Don Mazza è uno straordinario anticipatore dei tempi. Ha creato a Verona, a partire dai primi decenni dell’Ottocento e fino alla morte, un’incredibile rete di opportunità per permettere ai poveri di accedere all’insegnamento superiore e all’università. Una novità praticamente assoluta per i tempi.
Da dove nasce quest’intuizione?
BUTTURINI: L’opera di don Mazza nasce nel tessuto ordinario delle sue occupazioni quotidiane. Dal 1815, un anno dopo la sua ordinazione, era divenuto professore di matematica e meccanica presso il Seminario vescovile di Verona, e andava spesso a confessare nella parrocchia di Marcellise, il paese in cui aveva trascorso la sua infanzia. Molti dei bambini che confessava dimostravano un’intelligenza vivace e pronta. E gli «piangeva il cuore» come diceva lui stesso, a vedere che erano destinati a restare privi di istruzione quando avrebbero potuto progredire perlomeno nelle “arti meccaniche”, se non aspirare a studi superiori e all’università. In una lettera all’arcivescovo Azarian, abate dei Mechitaristi di Vienna, aggiunge che questa condizione gli sembrava «un grave difetto della società». Con questo voglio dire che don Mazza, fin dal principio, si pose il problema dell’istruzione in chiave “laica”. La sua opera è certamente un’applicazione del precetto della Chiesa di “istruire gli ignoranti”, cioè un’opera di carità nel senso più stretto del termine. E in questo senso il suo impegno si muove nel solco di una tradizione secolare della Chiesa, che peraltro, negli anni successivi alla Rivoluzione francese, conobbe una straordinaria fioritura d’istituti e nuove congregazioni. Ma nello stesso tempo è l’intuizione di un’esigenza di cui avrebbe dovuto farsi carico la società intera e lo Stato. Egli non è contrario a questa prospettiva, anzi, la promuove e la fa sua. Si potrebbe quasi dire che il Mazza sia un anticipatore della dottrina che sarà poi formulata pienamente nella dichiarazione Gravissimum educationis del Concilio Vaticano II, in cui si osserva che la scuola fa parte «propriamente delle strutture civili».
Delle ragazze impegnate 
nel ricamo per la produzione di pregevoli confezioni in seta policroma

Delle ragazze impegnate nel ricamo per la produzione di pregevoli confezioni in seta policroma

In una certa vulgata storiografica, si dà per scontato che la Chiesa fosse contraria alla diffusione dell’istruzione nelle classi più umili…
BUTTURINI: Questo dipende in parte dal fatto che l’istituzione della scuola pubblica in Italia avvenne, dopo l’Unità, in polemica con la Chiesa, cui si voleva sottrarre il monopolio in campo educativo. In realtà, lo vediamo dall’esempio dell’ambiente veronese di primo Ottocento, Chiesa e “società civile” o Stato interagiscono in modo piuttosto libero e originale. Don Mazza, ad esempio, era amico del conte Giovanni Scopoli, che fu nominato direttore della Pubblica istruzione nel Regno d’Italia sotto Napoleone. Il principio di uguaglianza portato dalla Rivoluzione francese induceva i governi napoleonici a cercare di diffondere un’istruzione primaria tra il popolo. E certamente don Mazza fu influenzato positivamente da questa spinta laica, che intendeva favorire una «carriera aperta ai talenti» e incoraggiare quanti aspiravano a «lanciarsi fuori dalla propria classe».
In Italia, però, all’epoca non esisteva ancora l’obbligo scolastico.
BUTTURINI: Non esisteva nel Regno d’Italia, dove fu introdotto solo nel 1877, con la legge Coppino, vari anni dopo la morte di don Mazza. Ma, prima nella Lombardia austriaca, “tra il Ticino e l’Adda”, e poi nel Lombardo-Veneto, che dal 1815, l’anno successivo all’ordinazione di don Nicola, divenne parte dell’Impero asburgico, la situazione era diversa, e non solo per quanto abbiamo detto a proposito di Napoleone. Maria Teresa d’Austria aveva introdotto l’obbligo scolastico per le scuole primarie già nel 1774, seguendo l’esempio di Federico II di Prussia. E questo avveniva con un secolo di anticipo rispetto alla Gran Bretagna. In Veneto le scuole elementari di Stato erano quindi già diffuse quando Mazza avviò la sua esperienza educativa. Per quanto riguarda l’istruzione superiore, però, gli austriaci tendevano a dare riconoscimenti legali ai titoli acquisiti nei collegi dei religiosi o nei seminari, cui veniva riconosciuto un “diritto di pubblicità”, cioè una funzione pubblica. A essi accedevano anche laici. In questo modo l’Austria si avvaleva di una “rete” d’istruzione già esistente. Lo stesso don Mazza insegnava nel Seminario vescovile di Verona, che in quegli anni fu frequentato, per esempio, da Ippolito Nievo. Poi, col Concordato del 1855 tra Pio IX e Francesco Giuseppe, fu deciso che frequentassero i seminari solo i giovani destinati a farsi preti e il Mazza, a sua volta, decise di inviare al liceo statale i giovani non orientati alla vocazione religiosa. L’istruzione superiore continuava comunque a rimanere un privilegio di pochissimi, a meno che non si optasse per la carriera ecclesiastica.
Ragazzi giocano a palle di neve nel cortile del Collegio San Carlo, 
in una foto d’epoca

Ragazzi giocano a palle di neve nel cortile del Collegio San Carlo, in una foto d’epoca

Quale fu il progetto di don Mazza?
BUTTURINI: Don Nicola cominciò a raccogliere intorno a sé ragazzi poveri ma brillanti negli studi. Cominciò nel 1820 con Luigi Dusi, che era figlio di un falegname di Marcellise. Lo portò con sé a Verona per farlo studiare. Fece poi lo stesso con il giovane Alessandro Aldegheri, nel 1823. Entrambi divennero sacerdoti e professori. E gli furono di grande aiuto quando, a partire dal 1833, cominciò ad accogliere tantissimi ragazzi per favorirli negli studi. Iniziò con l’ospitarli a casa sua, poi presso famiglie, infine, a partire dal 1832-33, creò il famoso collegio che ancora oggi è attivo a Verona.
Quale criterio di scelta seguiva?
BUTTURINI: L’idea di offrire un’opportunità a chi aveva capacità e desiderio di studiare, ma non i mezzi, certamente imponeva una selezione, che però non era basata sulle possibilità economiche, ma sul merito. E su questo don Mazza era rigorosissimo. Ai direttori delle scuole elementari chiedeva gli elementi che avevano riportato i voti migliori. Ai suoi studenti un impegno incondizionato. Il suo motto lo si può riassumere con i due termini “rigore” e “libertà”: la libertà sua di dare sostegno, quella dei ragazzi di cogliere l’opportunità offerta loro, oppure di non studiare e quindi di andarsene.
Che tipo di curriculum svolgeva?
BUTTURINI: Lo schema era quello degli studi classici allora in auge. Però don Mazza dava molta importanza alla creatività, attraverso il teatro, le cosiddette “accademie” e i giornali studenteschi. Ma in questo si ispirava alla tradizione pedagogica dei Gesuiti, che nel 1832, dopo la ricostituzione dell’Ordine, avevano riproposto, in nuova edizione, la loro Ratio studiorum. Introdusse anche lo studio di ben tre lingue straniere: inglese, francese e tedesco, cui aggiunse l’arabo quando partì la sua prima missione per l’Africa. Anche questo è un elemento di grande innovazione per i tempi. Quando poi i primi studenti arrivarono alle soglie dell’università, aprì un collegio a Padova, nel 1839, che rimase attivo fino alla Seconda guerra d’indipendenza, nel 1859.
Chi lo aiutava in quest’opera?
BUTTURINI: Don Mazza voleva formare soprattutto laici: medici, avvocati, insegnanti, scegliendoli nelle classi più umili. Anche per questo non pensò mai seriamente a creare una sua congregazione. E direi che quasi si dispiaceva quando i suoi studenti decidevano di farsi sacerdoti. Ma il fatto è che, colpiti dal suo esempio, e secondo una tendenza allora assai diffusa, molti di loro abbracciavano la vocazione. E allora lui fece tre cose: volle che, qualunque fosse la loro destinazione e la loro diocesi d’appartenenza, spendessero i primi quattro anni di ministero al servizio dell’istituto, continuando al tempo stesso la formazione personale. Arrivò ad averne fino a 30 o 40 contemporaneamente. Poi, su consiglio del Rosmini, cui era molto legato, mandò alcuni suoi chierici a studiare teologia a Padova, presso l’Università statale, in modo che fungessero anche da responsabili del collegio universitario che aveva aperto lì. Infine, cercò di ispirare in tutti un ideale missionario, perché non voleva che i figli del popolo, migliorando attraverso lo studio la propria condizione sociale, ne profittassero solo per sé, ma mettessero la loro cultura al servizio degli altri.
L’ideale missionario diede frutti?
BUTTURINI: Senza dubbio. Il primo missionario “mazziano” fu don Angelo Vinco, nel 1845, un giovane prete che veniva dalla collina veronese, di famiglia poverissima. Andò a studiare a Propaganda Fide. Don Mazza cominciò a stringere relazioni sempre più fitte con gli uffici romani per questi suoi studenti che si trasferivano nell’Urbe. Da allora iniziò a progettare missioni. Della prima, che partì per l’Africa nel 1849, faceva già parte san Daniele Comboni, il quale era stato allievo di Mazza ed era legatissimo a lui. Fino alla morte di don Nicola, nel 1865, continuava a definirsi “missionario mazziano”. Fu poi don Gioacchino Tomba, il primo successore di don Mazza, a chiedere a Comboni di staccarsi e creare un nuovo istituto.
Il suo istituto era aperto solo ai maschi?
BUTTURINI: No, al contrario, il primo collegio da lui creato nel 1829 fu quello femminile, che ospitava soprattutto orfane. A lungo si limitò a garantire loro la sola istruzione elementare, mentre per i maschi puntò subito sulle scuole “alte”. Ma anche per le ragazze voleva l’eccellenza. Un giorno regalò all’imperatore dei paramenti ricamati dalle sue allieve. Erano talmente belli che il sovrano ne restò impressionato e donò all’istituto 36mila fiorini d’oro. In seguito, l’imperatore regalò quei capolavori a Pio IX e ancora oggi possono essere ammirati nella sacrestia della Cappella Sistina. In un secondo tempo don Nicola decise di aprire anche alle ragazze le porte dell’istruzione superiore, per farle diventare maestre. Ma anche l’organizzazione del collegio femminile testimonia un’intelligenza anticipatrice dei tempi. Pur essendo un orfanotrofio, don Mazza volle che fosse organizzato per nuclei familiari, con “mamme” di vocazione che creassero il più possibile un ambiente accogliente e familiare. Un’idea che sarà ripresa, un secolo più tardi, da don Zeno, il fondatore di Nomadelfia. Tra l’altro, allieva per lungo tempo del Mazza fu la mamma di san Giovanni Calabria, che visse nel suo collegio femminile per oltre vent’anni.
Don Mazza è uno straordinario anticipatore dei tempi. Ha creato a Verona, a partire dai primi decenni dell’Ottocento e fino alla morte, un’incredibile rete di opportunità per permettere ai poveri di accedere all’insegnamento superiore e all’università. Una novità praticamente assoluta per i tempi
Questa esperienza era un unicum per quei tempi?
BUTTURINI: Forse non fu unica ma certo è molto particolare. Ed è diversa, ad esempio, dall’esperienza di don Bosco. Don Bosco diede all’Italia l’esempio degli istituti tecnico-professionali. Don Mazza invece si prefiggeva di far raggiungere le mete più alte ai ceti più bassi. Don Bosco non ebbe rapporti personali con don Mazza – era di 25 anni più giovane di lui –, ma conosceva molto bene la sua esperienza educativa e chiamò Comboni a parlare ai suoi ragazzi a Torino.
Che cosa accadde con l’unità d’Italia?
BUTTURINI: Mazza morì nel 1865, un anno prima che anche il Veneto fosse annesso al Regno d’Italia. Alla sua scomparsa l’istituto ebbe a soffrire, per varie ragioni. Anzitutto, la fine degli aiuti pubblici, giustificata anche dal fatto che Mazza era “sospettato” di tendenze filoasburgiche. E non c’è da meravigliarsene, dal momento che l’Austria aveva guardato sempre con favore alle sue iniziative. In secondo luogo, subito dopo la sua morte, monsignor Canossa, allora vescovo di Verona, tolse al collegio il diritto di usufruire per quattro anni del servizio dei sacerdoti che vi si erano formati. Solo un piccolo gruppo, costituito da quelli che avevano scelto di dedicarsi in toto all’opera di don Nicola, continuò a lavorarvi, senza contare il fatto che qualche anno prima il Mazza era stato costretto a staccarsi da alcuni suoi carissimi collaboratori, accusati d’essere filorosminiani. In effetti, Mazza e molti dei suoi allievi, sacerdoti o laici come il beato Giuseppe Tovini, erano legati a Rosmini. E l’istituto all’inizio del Novecento sembrava condannato a estinguersi. Fu allora che don Pietro Albrigi, allievo del Mazza, si impegnò a far ripartire il collegio, costituendo più tardi, nel 1951, una “Pia società” che permettesse all’istituto di perpetuarsi. Grazie a lui e ai suoi continuatori, l’istituto è ancora attivo a Verona, a Padova e a Roma, oltre che in alcune diocesi brasiliane, e mantiene immutate le sue caratteristiche. Ancora oggi uno dei requisiti per esservi ammessi è quello di avere bassi redditi di famiglia.
La “ricaduta” sociale dell’opera del Mazza fu percepita a Verona?
BUTTURINI: Senza dubbio. E non poteva essere altrimenti. Il Collegio nell’Ottocento aveva toccato punte di cinquecento allievi, una cifra enorme se si tiene conto che Verona era una città di poco più di 50mila abitanti. Uno su cento viveva e studiava nell’istituto! Questo significa un’elevazione culturale e sociale di tutta una comunità, la possibilità di crearvi quella classe media che è l’anima e il presupposto dello sviluppo sociale. Una prospettiva che, fra l’altro, continua a essere molto attuale. Il Collegio è ancora oggi un importante punto di riferimento per molti giovani che provengono da varie province, ma più spesso dalla provincia di Verona, che l’Unione europea tuttora classifica tra quelle a basso indice di sviluppo.


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