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ECUMENISMO
tratto dal n. 06 - 2006

L’itinerario di un intellettuale in bilico


Grazie a un saggio di Gabriele Rigano, basato su documenti inediti dell’archivio della comunità ebraica di Roma, torna a far parlare il “caso Zolli”, la vicenda del rabbino capo della Città eterna che alla fine della Seconda guerra mondiale chiese il battesimo e prese il nome di Eugenio, in omaggio a Pio XII. Intervista con l’autore


Intervista con Gabriele Rigano di Giovanni Ricciardi


Gabriele Rigano, Il caso Zolli. L’itinerario di un intellettuale in bilico tra fedi, culture e nazioni,  Guerini e Associati, 
Milano 2006, 432  pp., euro 24,50

Gabriele Rigano, Il caso Zolli. L’itinerario di un intellettuale in bilico tra fedi, culture e nazioni, Guerini e Associati, Milano 2006, 432 pp., euro 24,50

«La conversione è un atto di grazia di Dio. Non posso gloriarmi di nulla, proprio di nulla. Giunta l’ora della grazia, mi sono convertito». Così Israel Zolli riassumeva, a posteriori, il senso del suo passaggio dalla Sinagoga alla Chiesa nel febbraio del 1945. Sul caso del rabbino capo di Roma che dopo la Seconda guerra mondiale prese il battesimo col nome di Eugenio – in omaggio a Pio XII – molto si è scritto e talora con accenti polemici. Su Zolli esce ora una biografia di Gabriele Rigano, Il caso Zolli. L’itinerario di un intellettuale in bilico tra fedi, culture e nazioni. L’autore, allievo di Andrea Riccardi, ha avuto per la prima volta accesso a documenti inediti dell’Archivio della comunità ebraica di Roma, nei cui ambienti il suo lavoro è stato apprezzato per la serietà dell’impostazione. E una lusinghiera recensione del suo libro, apparsa su Avvenire, è riprodotta nel sito dell’Unione delle comunità ebraiche italiane. 30Giorni lo ha incontrato.

Da dove nasce il suo interesse per Eugenio Zolli?
GABRIELE RIGANO: Negli ultimi anni c’è stato un ritorno d’interesse per questo personaggio, in rapporto alla querelle su Pio XII e il nazismo. Il tema era affrontato, nella pubblicistica cattolica o ebraica, spesso in modo polemico o apologetico. Ho tentato, attraverso una rigorosa ricerca su fonti inedite, di mettere finalmente dei punti fermi su alcuni aspetti dibattuti ma mai approfonditi: in particolare il “mistero” della sua conversione, ma anche il suo ruolo nella complessa vicenda della deportazione degli ebrei di Roma nell’ottobre del 1943. Su questo secondo aspetto ho potuto ricostruire le posizioni e il dibattito interno alla comunità ebraica romana tra l’8 settembre e il 16 ottobre, giorno della retata nazista nel Ghetto.
Quale fu il ruolo di Zolli in questo frangente?
RIGANO: Dopo l’8 settembre, per Zolli era chiarissimo che non c’era modo di trattare coi tedeschi. E già il 10 propone ai dirigenti laici della comunità di chiudere la sinagoga, nascondere le liste degli ebrei romani e passare subito alla clandestinità, organizzando un comitato di assistenza per far sì che anche gli ebrei più poveri possano trovare rifugio. Ma queste proposte non furono ascoltate: gli americani erano a duecento chilometri da Roma e si pensava che sarebbero entrati in capo a poche settimane. Perciò i responsabili della comunità ebraica romana, come il presidente Ugo Foà, ma anche quello dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Dante Almansi, ritenevano opportuno continuare a comportarsi “normalmente”, per evitare di attirare l’attenzione del comando tedesco. Un repentino passaggio alla clandestinità poteva essere interpretato come una provocazione.
Eppure le leggi razziali erano in vigore dal 1938. Con i tedeschi in casa, che speranze potevano esserci?
RIGANO: La comunità, dopo il 1938, aveva mantenuto dei canali di comunicazione col regime fascista. Uomini come Foà e Almansi, alti funzionari dello Stato, nonostante il licenziamento erano riusciti, grazie alle loro conoscenze, a evitare per gli ebrei le conseguenze più gravi. La vita era difficile, ma la sensazione era quella che si potessero sempre trovare forme di compromesso con le autorità. Del resto, fino all’8 settembre nessuna deportazione era mai partita né dall’Italia né dai territori posti sotto comando militare italiano. La tragica illusione fu quella di credere che anche coi tedeschi fosse possibile trovare un punto d’accordo.
Possibile che a Roma gli ebrei non sapessero ciò che accadeva in Europa?
RIGANO: Gli organi d’informazione non lasciavano trapelare notizie. Ma nel 1943 i primi reduci della campagna di Russia e, dopo l’armistizio, gli ebrei profughi dalla Iugoslavia e dalla Francia meridionale al seguito delle truppe italiane che lasciavano quei territori, portano con sé le prime tragiche notizie. Eppure si tende a non dare peso a queste testimonianze, per una sorta di rimozione psicologica, ma anche perché si credeva che a Roma, “città aperta” per eccellenza, certe cose non potessero accadere.
Solo Zolli credeva a questi racconti?
RIGANO: Zolli era vissuto per anni a Trieste. Lì aveva raccolto molte testimonianze su ciò che accadeva in Germania, dove aveva anche parenti e contatti accademici. Perciò era naturale che tendesse ad accreditare quelle notizie. Anche i membri delle organizzazioni di assistenza ebraiche, che erano a contatto con i profughi, gli davano ragione. Ma la sua resta una posizione di minoranza, anche perché il rabbino non era molto popolare tra i suoi fedeli.
Per quale motivo?
RIGANO: Perché non è un italiano, viene dalla Galizia polacca e rispetto agli ebrei romani ha un’altra sensibilità, caratterizzata da un approccio molto “scientifico” alla vita religiosa. Poi, il suo rapporto con l’ebraismo non è del tutto ortodosso. Ad esempio, non tiene in gran conto la precettistica ebraica. Ne un’interpretazione “spirituale”, forse influenzato in ciò da correnti dell’ebraismo riformato tedesco. Circolano voci, fin dai tempi in cui era rabbino a Trieste, sul suo approccio “disinvolto” alle regole alimentari. Inoltre, Zolli ha una spiccata simpatia per il cristianesimo, “eccessiva” per un rabbino, sia pure di larghe vedute.
Come si accosta al cristianesimo?
RIGANO: Zolli è un filologo. Il suo approccio al cristianesimo avviene tramite l’interesse per il metodo storico-critico, che cominciava ad essere applicato alla Sacra Scrittura in ambienti protestanti tedeschi. Per accostarsi a questo metodo è “costretto” a formarsi anzitutto su opere che analizzano il Nuovo Testamento. E i suoi corsi all’Università di Padova vertono spesso su comparazioni tra Antico e Nuovo Testamento. Ma, a un certo punto, Zolli inizia a leggere i Vangeli anche per diletto, colpito forse dall’atteggiamento di Gesù verso la Legge, vicino alla sua sensibilità. Questa simpatia sempre più profonda per la figura di Cristo si traduce in un’opera del 1938: Il Nazareno. Qui Zolli paragona Gesù a figure dell’Antico Testamento, e, ad esempio, osserva che, se il servo di Dio cantato da Isaia avesse un volto, si avvicinerebbe senza dubbio al volto di Gesù. Un’affermazione naturale per un cristiano, ma, per un rabbino, quasi “scandalosa”.
Il rabbino Israel Zolli nella sinagoga di Roma, il 31 luglio 1944. La Città eterna è stata liberata dalle truppe alleate e Zolli, accompagnato da un altro rabbino statunitense, legge un messaggio di ringraziamento

Il rabbino Israel Zolli nella sinagoga di Roma, il 31 luglio 1944. La Città eterna è stata liberata dalle truppe alleate e Zolli, accompagnato da un altro rabbino statunitense, legge un messaggio di ringraziamento

Come fa un ebreo così “poco ortodosso” a diventare rabbino capo di Roma?
RIGANO: Il rabbino precedente, David Prato, era stato cacciato nel 1938, prima delle leggi razziali, dagli ebrei di sentimenti fascisti, perché simpatizzava apertamente per il sionismo. Il sionismo era malvisto dal fascismo, perché implicava una “doppia appartenenza”. Come si fa a essere italiani e patrioti quando si vagheggia la nascita di un nuovo Stato? Per questo Il Tevere, “fascistissimo” quotidiano romano, attacca Prato subito dopo la nomina. E gli ebrei di “fede” fascista capiscono che se ne devono liberare, per proteggere la comunità dalle “intemperanze sioniste” e dal sospetto del regime. Ma poi non riescono facilmente a sostituirlo. Ed è logico: Prato era stato allontanato in malo modo, nel frattempo erano entrate in vigore le leggi razziali e il rabbino capo di Roma sarebbe venuto ora a contatto con autorità apertamente antisemite. Così, dopo vari tentativi andati a vuoto, all’inizio del 1939, si arriva, per esclusione, a Zolli, nonostante fosse un rabbino molto “chiacchierato”.
Tanto peso avevano gli ebrei di “fede” fascista in seno alla comunità romana?
RIGANO: Fino al 1938 gli ebrei antifascisti sono una piccola minoranza, in cui prevale l’elemento sionista. La maggior parte è fascista, come gli altri italiani. È chiaro che con le leggi razziali le cose cambiano. Ma un piccolo gruppo di ebrei, fascisti della prima ora o addirittura ex squadristi, resta disperatamente aggrappato al regime. Essi vedono nelle leggi razziali l’inevitabile conseguenza delle “intemperanze sioniste”. Riaffermare la fedeltà al duce è il loro modo di difendere tutti gli ebrei. Sperano che quest’attaccamento a oltranza possa servire a far ricredere Mussolini. Percentualmente parlando sono pochi, però fanno rumore e hanno una grande influenza nella gestione della comunità romana, come dimostra la vicenda di David Prato.
Come si comporta Zolli dopo l’8 settembre?
RIGANO: Visto il dissenso coi capi della comunità, decide di mettersi in salvo con la famiglia, sentendosi particolarmente a rischio, come rabbino e come apolide. Si nasconde prima in casa di amici ebrei, poi, dopo la “vicenda” dei 50 chili d’oro, è ospitato dai Pierantoni, una famiglia di antifascisti legata al Partito d’azione. Mantiene i contatti con la comunità, ma non fa sapere dove si trova.
Qual è il suo ruolo nella vicenda dell’oro?
RIGANO: Kappler chiede agli ebrei di raccogliere 50 chili d’oro, pena la deportazione di 200 capifamiglia. A quel punto, sia Zolli che i capi della comunità, l’uno all’insaputa degli altri, temendo che non fosse possibile raggiungere la quantità richiesta, si rivolgono al Papa. Pio XII si dichiara disponibile, anche se poi gli ebrei riusciranno da soli a raccogliere la cifra. Comunque la deportazione avviene lo stesso. Subito dopo il 16 ottobre, le porte del Laterano e dei conventi romani si aprono per nascondere gli scampati.
L’iniziativa di aprire i conventi fu direttamente voluta dal Papa?
RIGANO: Direi proprio di sì: la dinamica di quei giorni lascia pochi dubbi in proposito. Erano in corso trattative tra la Santa Sede e il comando tedesco per ottenere garanzie che le zone extraterritoriali sancite dal Concordato del 1929 fossero rispettate. Ma il Vaticano riuscì anche a strappare la promessa che, in linea generale, tutte le case religiose avrebbero goduto di un trattamento particolare. Dopo il 16 ottobre non ci fu un “via libera formale”, cosa impensabile nella Roma occupata. Ma uno dei primi luoghi che si apre a tutti, ebrei, antifascisti e disertori, è il Laterano. E questo è un segnale chiaro della volontà del Papa: il Laterano è la cattedra di Pietro, nulla vi può avvenire senza che il Papa non voglia. Inoltre, il 25 ottobre esce un corsivo dell’Osservatore Romano sulla «carità universale del papa», che si estende verso tutti, «senza distinzioni di religione o di razza». Von Weiszacker, ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, ma non nazista, lo interpreta come la risposta di Pio XII alla deportazione degli ebrei romani e scrive a Berlino in questo senso, sminuendone però il significato per evitare ripercussioni per la Santa Sede.
Zolli rimane dai Pierantoni fino alla liberazione?
RIGANO: No. Quando il figlio dei Pierantoni, impegnato nell’attività clandestina del Partito d’azione, viene arrestato nel febbraio del 1944 – morirà poi alle Fosse Ardeatine –, Zolli cerca un altro rifugio e trova ospitalità presso una famiglia cattolica non legata alla Resistenza. Vi rimarrà fino al giugno del 1944. È lì che, stando alla sua autobiografia, matura definitivamente la decisione di farsi cristiano.
«Lo stesso Zolli precisa che la sua conversione è frutto di una lunga maturazione, dell’assiduo contatto con il Vangelo e dell’amore per Gesù che in lui nacque e si sviluppò a poco a poco, fino alla scelta definitiva»
Ma a giugno torna al suo posto di rabbino…
RIGANO: Sono mesi di grandi contrasti. Quando si presenta per riprendere il suo posto è male accolto, gli si rinfaccia l’abbandono del “ponte di comando”. Zolli risponde di aver scongiurato tutti di darsi alla fuga fin dal primo momento, ma incontra un muro di ostilità. Saranno gli americani a imporlo a forza, pensando di trovare in lui l’espressione degli ambienti ebraici meno compromessi col fascismo. Zolli, da un lato, già in agosto va a trovare padre Dezza, rettore della Gregoriana, per chiedere il battesimo. Dall’altro, fa di tutto, fino a dicembre, per scongiurare le sue dimissioni da rabbino. Impossibile dire che cosa lo abbia spinto al passo decisivo. È possibile che l’ostilità dei suoi correligionari abbia giocato un ruolo, ma è pur vero che in Zolli l’attrattiva per il cristianesimo rimonta a molti anni prima.
Eppure nella sua autobiografia parla addirittura di una “visione” di Cristo, da lui avuta nel “Giorno dell’espiazione” del 1944 in sinagoga…
RIGANO: L’autobiografia fu scritta in italiano tra il 1947 e il 1954 e pubblicata in inglese negli Stati Uniti, poco prima della sua morte. Quell’esperienza “mistica” si trova nel testo inglese, ma manca nell’originale italiano, ritrovato pochi anni fa dal nipote Enrico De Bernart. E lo stesso Zolli, nell’introduzione, precisa che la sua conversione è frutto di una lunga maturazione, dell’assiduo contatto con il Vangelo e dell’amore per Gesù che in lui nacque e si sviluppò a poco a poco, fino alla scelta definitiva.
Come fu la sua vita da cattolico?
RIGANO: I gesuiti lo aiutano in molti modi, gli danno alloggio e gli affidano una cattedra all’Istituto biblico. Ma Zolli non riuscirà mai a sentirsi a suo agio nel “mondo cattolico”. Le sue lezioni sul Nuovo Testamento non sono frequentate da più di cinque o sei persone. Il suo metodo d’insegnamento appare strano, troppo “ebraicamente connotato”, con continui riferimenti alla letteratura rabbinica e talmudica e soprattutto con quell’approccio filologico allora in odore di modernismo. Del resto, fin dagli anni Trenta, Zolli aveva assiduamente collaborato alle riviste di Buonaiuti. E La Civiltà Cattolica non risparmia critiche ai libri pubblicati dopo la conversione. Zolli resta insomma sempre un personaggio “liminare”, mai a suo completo agio né nel mondo ebraico né in quello cattolico.


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