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MANZONI
tratto dal n. 11/12 - 2002

«Bello da far piangere»


Un film accusa Manzoni di essere stato un cattivo cristiano. Per lo scrittore Manlio Cancogni, è un’operazione dissacratoria inutile. Manzoni era già stato denigrato tanti anni fa. E a torto. Intervista


di Paolo Mattei


Alessandro Manzoni

Alessandro Manzoni

«Ho scritto un libro, in attesa di pubblicazione presso la Fondazione Manzoni, intitolato I promessi dell’Orient Express, in cui ripercorro parte della mia vita accostandola al romanzo manzoniano. Narro del viaggio che intrapresi nel ’42, avevo 26 anni, da Firenze ad Atene. Lasciavo la mia fidanzata per un mondo non propizio, all’epoca della svolta della guerra. Andavo come militare nella penisola balcanica che era in preda ad una guerra civile enormemente più feroce di quella che abbiamo conosciuto alla fine del secolo scorso. Entravo nel mondo della guerra, della carestia e della peste: le stesse componenti storiche dei Promessi sposi. Leggevo il romanzo mentre ad Atene proiettavano il bel film interpretato, tra gli altri, da Gino Cervi. Ad Atene incontrai anch’io il Cardinale: il futuro papa Roncalli. Là si precisò il mio amore per Manzoni». Così racconta a 30Giorni lo scrittore Manlio Cancogni, che nutre una passione profondissima per l’opera di don Lisander, e che abbiamo interpellato in margine alla recente uscita del film Il diario di Matilde Manzoni di Lino Capolicchio (noto al grande pubblico più come attore che come regista: era nel cast del Giardino dei Finzi Contini di De Sica e questo è solo il secondo film che dirige). Nel lungometraggio si ripercorre la parte finale della breve vita di Matilde – morì a 26 anni, nel 1856 –, ultima dei dieci figli che Manzoni ebbe da Enrichetta Blondel, e il regista ha da più parti dichiarato il suo intento dissacratorio della figura di Manzoni, grande poeta e scrittore ma secondo lui pessimo padre, che abbandonò Matilde al suo triste destino privandola dell’implorato conforto paterno. Capolicchio in aggiunta accusa Manzoni di essere «un ipocrita e un cattivo cristiano». Ne abbiamo parlato con Cancogni.

Come valuta l’intento di «demolire coscientemente la figura di Manzoni» messo in atto da Capolicchio nel suo film?
MANLIO CANCOGNI: Demolire coscientemente Manzoni non è più necessario, è un lavoro che è già stato fatto da tempo, da subito dopo l’unità d’Italia. Manzoni non è conosciuto né amato in Italia anche per colpa della scuola, perché i professori – inabilitati a fare miracoli – l’hanno reso noioso facendone un monumento, che poi è stato distrutto. L’intento di Capolicchio è, quindi, superfluo. Una fatica inutile, direi.
Il regista lo definisce anche «un ipocrita e un cattivo cristiano» per come trattava la figlia Matilde.
CANCOGNI: Già detto: Manzoni è un ipocrita che ha speculato su una conversione non vera. L’accusa non è nuova, piove sul bagnato. La verità più prosaica è che era malato, e di questo non si tiene mai conto perché nelle scuole ne hanno fatto una figura monumentale di patriarca equilibrato e benevolo. Egli era più che un depresso o un nevrotico. Gli succedeva di perdere per intere giornate il senso dello spazio, immaginando di essere seduto su un abisso e aggrappandosi ai braccioli della poltrona mentre intorno la famiglia cercava di confortarlo. Si capisce come rischiasse spesso d’essere ripiegato su se stesso, teso a un certo egoismo. Ma voglio vedere poi quale scrittore non sia stato egoista. Non risulta francamente che tra gli scrittori vi siano casi esemplari nei rapporti con gli altri, a cominciare dai rapporti coi familiari. Questa è la realtà più piana. Un uomo coi suoi difetti, non un simulacro eretto per poi essere buttato giù, come, prima o dopo, accade a tutti i monumenti.
Cesare Garboli curò nel ’92 la pubblicazione del Journal di Matilde Manzoni, mentre una decina d’anni prima Natalia Ginzburg dava alle stampe La famiglia Manzoni, usando parte dell’epistolario dello scrittore. Capolicchio dice di aver tenuto conto anche di questi testi per fare il film.
CANCOGNI: Il libro di Garboli è eccellente, la presentazione che egli ha scritto del Journal di Matilde Manzoni ha la dignità di un bellissimo romanzo. Anche se amichevolmente mi permetto di dire che forse ha peccato un po’ di eccessiva benevolenza per Matilde e di eccessiva severità nei confronti del padre. In realtà Alessandro ha sofferto dello stesso guaio di cui ha sofferto Matilde: dell’abbandono. Anche lui fu abbandonato dalla madre. Non ebbe né madre né padre, quando uscì dal collegio ritornò a vivere in una casa tristissima accanto alle pochissimo amabili zie. A diciannove anni sentì infatti il bisogno di cercare questa madre che non si era mai occupata di lui. Insomma, bisogna avere un po’ di compassione per il buon don Lisander.
Certo, però, anche la poveretta – stando al suo epistolario – sembra abbia sofferto molto a causa di un padre assente (lui viveva tra Milano e la villa di Brusuglio, lei in Toscana) che rispondeva raramente alle sue appassionate missive con lettere formali e per nulla affettuose.
CANCOGNI: Giustamente si ha compassione anche per la gentilezza d’animo di Matilde e per la sua breve vita… Ma bisogna tenere presente anche che i rapporti così distaccati tra genitori e figli nell’aristocrazia ottocentesca erano la norma. Ci si dava del lei, ci si vedeva quando si poteva, molti dei figli maschi erano mandati in collegio per anni… Non c’erano insomma i rapporti caratteristici della famiglia medio-piccolo borghese dei nostri tempi. E non si può nemmeno soprassedere sulla convenzionalità presente nel linguaggio di una ventenne dell’epoca: le parole con cui questo padre viene così enfaticamente invocato nelle lettere, le espressioni di devozione filiale così commoventi, sono anche dei modi letterari per esprimersi. Se uno dovesse prendere alla lettera gli epistolari dell’Ottocento senza tener conto di questo, sarebbe fritto…
Lei ama molto lo scrittore milanese. Come ha conosciuto la sua opera?
CANCOGNI: Ho conosciuto Manzoni attraverso i Promessi sposi di cui mio padre mi leggeva brani quand’ero bambino. Conservo ancora delle emozioni molto precise relative ad alcuni momenti lirici, come la paura di Renzo nel bosco, il suo cammino notturno verso l’Adda, i colori del cielo la mattina del risveglio, quando esce dalla capanna… Alcune parole mi sono da allora rimaste nella memoria. Tra i diciotto e i venticinque anni lo dimenticai, appassionandomi alla letteratura francese e americana. Poi l’ho ritrovato.
Dal punto di vista strettamente tecnico, cosa la colpì maggiormente della prosa manzoniana?
CANCOGNI: Il fatto che Manzoni fosse uno scrittore d’avanguardia rispetto ai romanzieri suoi contemporanei, e li anticipasse come realismo. Pensiamo a Balzac, che è considerato il padre del realismo: è enormemente più generico. Manzoni ha una visione plastica della realtà, così visibile, tangibile, concreta e per niente “veristica”… Anticipa di un trentennio Flaubert ed è imparagonabile a lui. La prosa accurata e precisa di Flaubert, che è diventanta un modello per tutti gli aspiranti scrittori del Novecento, accanto al romanzo manzoniano risulta generica, debole, cuistre, pedante. In Madame Bovary si sente il metodo, l’applicazione. E poi mi colpì la grande ricchezza letteraria del romanzo, in cui interagiscono diversi stili e registri. Accanto a un modulo colloquiale e brillante – la vita del paese, «la notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi» – c’è il tono psicologico analitico della vicenda di Gertrude, la monaca di Monza; con il tono epico delle pagine della guerra – quando descrive i reggimenti che sfilano lungo l’Adda e passano il ponte uscendo dal territorio del ducato – convive il carattere sostenuto del grande storico, perché non c’è Tucidide, non c’è Lucrezio, non c’è Boccaccio, non c’è Defoe che abbiano raccontato la peste con la drammaticità e lo spavento riscontrabili nel capolavoro manzoniano. C’è pure l’aspetto comico-ironico: si pensi solo, ma è un esempio tra i moltissimi, alla figura di donna Prassede, di cui l’autore dice: «Tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello»… Non vanno dimenticati poi i passaggi lirici: la prima pagina e mezza dei Promessi sposi è l’ouverture di un’opera. È insomma un libro d’inesauribile ricchezza.
Renzo e Lucia

Renzo e Lucia

Quali sono gli episodi e le figure del romanzo che ama di più?
CANCOGNI: Senz’altro la conversione dell’Innominato, la notte e la mattina della sua conversione, e il suo incontro col cardinale Borromeo. L’Innominato sente suonare le campane e dalla finestra vede «uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s’accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s’univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto». E questo provoca in lui una irresistibile curiosità, qualcosa che, penetrando il suo cuore indurito dagli anni e dai delitti, gli fa domandare: «Che allegria c’è? cos’hanno di bello tutti costoro?». Racconta Manzoni: «Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que’ gesti, e il supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa». La meraviglia di quella mattina è uno dei momenti più belli che coincide miracolosamente col sonno di Lucia la quale «s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo». La vicenda dell’Innominato – la notte e la mattina – è parallela a quella di Lucia. È Lucia che manovra tutto, è la sua presenza nel castello che agisce come tramite di grazia. È una pagina di una consolazione straordinaria. È uno degli episodi che avrò letto cento volte e che mi commuovono sempre fino alle lacrime. Da ragazzo avrei detto: «È bello da far piangere».
Perché avrebbe usato questa espressione?
CANCOGNI: Le lacrime provocate dalla bellezza hanno un grande valore. Quando ero ragazzo con gli amici ci si scambiava pareri su libri e su film. Se qualcuno di essi ci era particolarmente piaciuto, dicevamo: «È bello, fa piangere». Identificavamo istintivamente la bellezza con le lacrime. D’altronde, cosa si attende dalla lettura? Se una lettura non provoca una trasformazione in chi legge, essa rimane solo letteratura. Soltanto i testi di grande bellezza possono operare una trasformazione, cioè commuovere. È detto anche nella Poetica di Aristotele che, bene o male, per secoli ha rappresentato il fondamento dell’agire letterario. Il poeta coglie e comunica la bellezza, e la commozione che esercita la lettura è un profondo rivolgimento che si manifesta anche attraverso le lacrime. Lacrime che, al fondo, sono sempre di gioia.
Oggi può commuovere ancora qualcuno la lettura dei Promessi sposi?
CANCOGNI: Sì, forse per la nostalgia di un mondo che non c’è più. Manzoni è l’unico degli scrittori dell’Ottocento che ha saputo rappresentare la società nella sua interezza, il popolo della campagna e della città, i vagabondi, i poveracci e i ricchi. Era un popolo cristiano che non c’è più. L’episodio che narra dell’andare insieme verso la chiesa, del «trasporto uguale» per «tanta gente diversa», commuove chi ha potuto vedere qualcosa di simile nella vita. La maggior parte dei lettori contemporanei non conosce ciò di cui là si parla. D’altronde oggi non si sentono nemmeno più le campane…
Prima stava accennando all’incontro dell’Innominato con il cardinale Borromeo.
CANCOGNI: Qui Manzoni ha un colpo di genio. Come può risolvere una cosa del genere, dopo la descrizione degli incontri tra il Conte zio e il Conte Attilio, tra il Padre provinciale e il Conte zio? Come può usare il medesimo tono per narrare l’incontro fra l’Innominato e il Cardinale? Allora, nel capitolo XXIII, usa la tecnica del nudo dialogo teatrale. Qualche volta ho letto in pubblico questo brano omettendo le parti descrittive, leggendo solo il dialogo. E l’effetto è eccezionale. Un pezzo di teatro. Si tratta di un linguaggio che non è realistico, è certo convenzionale: ma è più reale del realistico. D’altronde, mi si permetta il gioco di parole, il reale è “più reale” del realistico.
E cosa ama di più dell’opera poetica?
CANCOGNI: Avevo in mente di realizzare una breve antologia poetica di Manzoni, tentando di estrapolare le strofe più belle per una sensibilità moderna. Avrei considerato i cinque Inni sacri, l’episodio del viaggio del monaco Martino e i due cori dell’Adelchi, e poi alcune strofe del Marzo 1821, il frammento di Ognissanti, Il Natale del 1833, le Strofe per la prima comunione… Ah, dimenticavo Il cinque maggio
L’Innominato e il cardinale Borromeo

L’Innominato e il cardinale Borromeo

…che alcuni definiscono il più riuscito ritratto di Napoleone…
CANCOGNI: È così. È il vero ritratto di Napoleone. Manzoni si pone nell’atteggiamento umano più giusto nei suoi confronti. Non assume la posizione encomiastica – e storicamente parziale, quindi falsa – di Stendhal, che descrive una Milano splendidamente illuminata e in festa per accogliere l’arrivo di Napoleone. Il Bonaparte del Cinque maggio è pure lontanissimo dal ritratto che ne fa Tolstoj in Guerra e pace, cioè di un ometto in mezzo a una banda di delinquenti. Napoleone è il primo eroe di una classe ascendente che si impadronì del potere in tutta l’Europa. È l’eroe borghese.
E qual è invece l’atteggiamento di Manzoni nei confronti della figura di Bonaparte?
CANCOGNI: Di sgomento, di rispetto e di stupore davanti al potere di questo mondo, anche quando è un potere che esercita azioni esecrabili, terribili, straordinarie. Per lui sono chiare le parole di Agostino che cita san Paolo: «Non est enim potestas nisi a Deo». Dio si serve anche di un personaggio così per realizzare i suoi disegni che per noi sono misteriosi.
Come quello che riguarda la conversione al cristianesimo in punto di morte del miscredente Napoleone.
CANCOGNI: Napoleone considerava la Chiesa cattolica come l’arca in cui è contenuto il libro della saggezza, che risponde a tutte le domande dell’uomo. Guardava al cristianesimo da un punto di vista storico-culturale. Molti si dichiarano cattolici così. Quando venne in Italia rimase molto colpito dalla tradizione cristiana del popolo italiano e intuì che si trattava di qualcosa di più di quello che lui pensava. E del viaggio che compie nel 1798 da Tolone in Egitto, con una flotta che scampò chissà come alla crociera inglese arrivando a destinazione, alcuni storici narrano un episodio semplice e significativo. Napoleone si intratteneva spesso a discorrere coi savants e coi suoi ufficiali, che erano il nerbo dell’anticlericalismo rivoluzionario, gli intellettuali. Una notte, sdraiati sul ponte a guardare il cielo stellato, mentre la flotta navigava a ovest della Corsica scendendo verso Malta, gli disse: «E voialtri, voi philosophes, ve la sbrigate così, date tutte queste spiegazioni esaustive. Però, quelle stelle, come le spiegate…». Non amava i philosophes, gli intellettuali. Volle un sacerdote in punto di morte ed ebbe una morte cristiana coi sacramenti: «Ché più superba altezza / Al disonor del Golgota / Giammai non si chinò // […] Il Dio che atterra e suscita, / Che affanna e che consola / Sulla deserta coltrice / Accanto a lui posò». Che dire di più di quanto detto nel Cinque maggio? Credo veramente che con Manzoni si possa guardare a Napoleone, cioè al potere di questo mondo, con lo sguardo rispettoso e stupito di fronte alla misericordia di Dio.


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