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BIOETICA
tratto dal n. 09 - 2006

Un articolo del direttore dell’Istituto di bioetica dell’Università Cattolica

Sospendere, non ammazzare


Mai come oggi si era posto il dilemma della sospensione delle cure. Introdurre in questo contesto la controversia sull’eutanasia è un grave elemento di disturbo. Al di là delle belle parole, praticare l’eutanasia significa infliggere deliberatamente la morte a qualcuno per liberarlo dal dolore


di Ignacio Carrasco de Paula


Alla fine degli anni Cinquanta, nell’ospedale universitario di Barcellona, che allora frequentavo in qualità di studente degli ultimi corsi di Medicina, il lavoro per noi finiva alle due del pomeriggio. Appendevo il camice nella stanzetta riservata agli interni, riponevo lo stetoscopio nella borsa, e andavo via non senza dare un’ultima occhiata alla grande sala dove si allineavano ordinatamente i letti dei malati. Alcuni erano pudicamente isolati da un paravento bianco. Dietro si stava consumando un dramma. Non lo potevano evitare. Al mio ritorno, al mattino seguente, alcuni di quei letti li avrei ritrovati vuoti.
Avevo particolare predilezione per un malato di morbo di Hodgkin. Era una persona colta, un grande bevitori di libri. Sul suo comodino, ormai abbandonato, un grosso volume consunto, Dioses, tumbas y sabios di C. W. Ceram (in italiano, Civiltà sepolte), un grande successo editoriale di quegli anni. Purtroppo un’enorme massa tumorale al collo gli creava un sacco di problemi: respirava affannosamente, deglutiva con difficoltà, e anche i momenti in cui stavamo a parlare non erano privi di sofferenza. Purtroppo – ancora purtroppo – non si poteva fare nulla, neanche prolungare il tempo di quel tanto che bastava per concludere la lettura del volume. Nel 1957 potevamo solo rassegnarci e sperare in una medicina più efficiente che la mia generazione si apprestava a costruire.
Quasi cinquant’anni dopo il futuro è diventato presente. Ormai non si ammaina bandiera facilmente, e quel paziente amico oggi sarebbe arrivato alla vecchiaia allungando di molto l’elenco delle sue letture. Eppure la rassegnazione non è sparita del tutto dal bagaglio di virtù che un medico necessita coltivare. Oggi però rassegnarsi non è più resa incondizionata conseguente alla carenza di strumenti veramente validi per combattere le malattie, quanto piuttosto espressione di un sempre indispensabile senso della misura. Se cinquant’anni fa si poteva fare affidamento appena su quattro farmaci sicuri1, oggi si dispone di un tale armamentario terapeutico da doversi guardare dall’eccesso. Il comportamento giusto, il saper fare virtuoso, sta sempre nel trovare la giusta misura delle cose, l’est modus in rebus di oraziana saggezza. In medicina il dovere di preservare la vita (il preserving human life del Codice internazionale di etica medica) è controbilanciato dall’altrettanto serio dovere di non arrecare inutile sofferenza (first: do not harm), cioè di astenersi dall’agire quando non sia possibile sostenere la vita e la salute del paziente senza accrescere e/o prolungare in modo disumano le sue sofferenze.
Nella lunga storia della professione medica, mai come adesso si era posto il dilemma della sospensione delle cure soprattutto quando, dopo un iniziale effetto salutare, risulta evidente che esse contribuiscono solo a mantenere una situazione di sofferenza per il paziente, sofferenza sproporzionata al ridotto beneficio che procurano. Il problema si propone in termini drammatici con l’uso delle procedure di sostentamento vitale, poiché in questi casi la sospensione è seguita in tempi brevi dal decesso del paziente. E benché la causa della morte sia la malattia, non c’è dottore che, al momento di prendere una tale decisione, non si senta sconfitto e inquieto.
Ventisei anni fa, il magistero della Chiesa venne incontro a questo problema confermando non solo l’eticità – a determinate e ben precise condizioni – del non ricorso ai mezzi straordinari, ma anche della rinuncia «a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita»2. Tuttavia l’applicazione di questi principi nella prassi clinica è tutt’altro che semplice, per cui ci vuole grande competenza professionale, senso della misura e un indispensabile ambiente di serenità. È da anni che la professione medica sta lavorando in questo senso, producendo e aggiornando linee-guida di notevole equilibrio e rigore, tenendo conto sia dell’esperienza accumulata nei reparti sia dei continui progressi della ricerca clinica.
Introdurre in questo contesto la controversia sull’eutanasia è un grave elemento di disturbo, che non promette niente di buono. Al di là delle belle parole, praticare l’eutanasia significa infliggere deliberatamente la morte a qualcuno per liberarlo dal dolore. Tuttavia è nel Dna della sua professione che il medico curante non possa uccidere volontariamente, né per soldi né per compassione3, e che nella formazione del giovane medico questo divieto sia mantenuto in modo altrettanto fermo. D’altra parte, i pazienti hanno diritto a essere rassicurati sul fatto che il professionista a cui hanno affidato la cura della propria salute in nessun momento – neanche su loro richiesta – diventerà il loro assassino. In caso contrario, la relazione fiduciaria medico-paziente diventerebbe semplicemente impossibile.
La medicina non può essere ridotta a un insieme di servizi corrisposti sulla base delle disponibilità economiche, ma neanche a interventi motivati esclusivamente dalla compassione. La medicina opera secondo una propria logica, la logica clinica per l’appunto. Di fronte a situazioni estreme, per esempio sofferenze insopportabili nella fase terminale della vita – i cosiddetti sintomi refrattari –, la risposta appropriata è la sedazione profonda o altre misure simili ormai diventate prassi ordinaria della medicina palliativa. In questo contesto, è inimmaginabile pensare che cosa succederebbe se ad esempio i reparti di rianimazione fossero obbligati per legge a uccidere. Ammesso che una società moderna possa concedere a qualcuno una tale licenza.

Note
1 Aspirina, morfina, penicillina e chinino, secondo il mio maestro, il professor Soriano.
2 Dichiarazione Iura et bona, 5 maggio 1980.
3 Neither for love nor money: Why doctors must not kill, è il titolo del celebre saggio di Leon Kass, pubblicato in The Public Interest, v. 94, pp. 25-46.


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