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NUOVI BEATI
tratto dal n. 09 - 2000

All’ombra dei due papi


La beatificazione di Pio IX e Giovanni XXIII ha fatto passare in secondo piano l’elevazione agli altari di altri tre beati: padre Guillaume-Joseph Chaminade, fondatore dei Marianisti, l’abate benedettino dom Columba Marmion e l’arcivescovo di Genova Tommaso Reggio. Proprio quest’ultimo un giorno disse: «I santi sono come luminari posti nella Chiesa a chiarire con le grandi luci delle loro virtù i piccoli passi delle virtù a noi necessarie»


di Giovanni Ricciardi


Era naturale che lo scorso 3 settembre tra i cinque nuovi beati proclamati da Giovanni Paolo II spiccassero i due papi, Pio IX e Giovanni XXIII. Il loro accostamento ha suscitato qualche perplessità, che il Pontefice ha voluto dissipare in un passaggio centrale della sua omelia: «I disegni divini hanno voluto che la beatificazione accomunasse due papi vissuti in contesti storici ben diversi, ma legati, al di là delle apparenze, da non poche somiglianze sul piano umano e spirituale. È nota la profonda venerazione che papa Giovanni aveva per Pio IX, del quale auspicava la beatificazione. Durante un ritiro spirituale, nel 1959, scriveva nel suo Diario: “Io penso sempre a Pio IX di santa e gloriosa memoria, ed imitandolo nei suoi sacrifici, vorrei essere degno di celebrarne la canonizzazione” (Il giornale dell’anima, Ed. San Paolo, Milano 2000, p. 560)».
Era anche naturale che due personalità così significative lasciassero un poco in ombra gli altri tre nuovi beati: il padre Guillaume-Joseph Chaminade (1761-1850), fondatore dei Marianisti; l’arcivescovo di Genova Tommaso Reggio (1818-1901), fondatore delle Suore di Santa Marta; l’abate benedettino dom Columba Marmion (1858-1923).


La Basilica di San Pietro il 3 settembre scorso, durante la cerimonia 
di proclamazione dei cinque nuovi beati

La Basilica di San Pietro il 3 settembre scorso, durante la cerimonia di proclamazione dei cinque nuovi beati

GuillaUme-Joseph Chaminade
Attraversando la rivoluzione
Quando era un giovane sacerdote attraversò il mare pericoloso della Rivoluzione francese; ultimo di quattordici figli, era stato ordinato nel maggio del 1785. Una vocazione fiorita precocemente, accanto a tre fratelli che lo avevano preceduto nelle file del clero francese. La Rivoluzione costringe Chaminade a una vita rocambolesca. Dopo aver rifiutato di prestare giuramento alla “Costituzione civile del clero”, il giovane prete è costretto alla clandestinità, gira per le strade di Bordeaux travestito da stagnaro per continuare a visitare i fedeli, amministrare i sacramenti, celebrare la messa. Viene poi incaricato nel 1795 di seguire i casi di quei sacerdoti che, aderendo alla “Costituzione civile del clero”, si erano posti fuori della comunione della Chiesa, recuperandone più di cento.
Negli anni più bui della persecuzione è costretto a un esilio di tre anni, in Spagna, a Saragozza, all’ombra della Vergine del Pilar. Qui riceve la prima ispirazione del disegno che Dio intendeva affidargli: «In quel luogo» scrive uno dei suoi primi discepoli, il padre Giorgio Caillet, «per divina ispirazione, concepì il progetto che poi, tornato in patria, avrebbe attuato con tanto successo: quello di dare inizio ad associazioni laicali in onore della Regina del cielo e, in seguito, a un ordine religioso che fosse a Lei particolarmente consacrato».
Rientrato in Francia nel 1800, Chaminade chiede e ottiene dalla Santa Sede il titolo di missionario apostolico, per dedicarsi con maggiore libertà all’apostolato senza il vincolo di un incarico particolare. Affitta una casa al centro di Bordeaux, dove ogni domenica celebra la messa, e si dedica all’insegnamento. Ai primi dodici giovani che cominciano a seguirlo da vicino propone una speciale consacrazione alla Vergine, da vivere senza voti particolari nello stato laicale. In breve questo seme produce un frutto inaspettato. Nel 1801 i giovani consacrati sono già un centinaio e il vescovo affida a Chaminade la grande chiesa di Santa Maria Maddalena di Bordeaux. La Congregazione mariana cresce rapidamente, divisa in sezioni: padri e madri di famiglia, fanciulli, giovani e ragazze, col solo intento di vivere radicalmente la vita cristiana nel proprio stato di vita. Non si trattava per Chaminade di contrapporsi al potere allora dominante, ma di aiutare cristiani adulti a vivere la fede nella propria condizione quotidiana. Chaminade stesso definiva così la Congregazione: «Una comunità di cristiani ferventi, i quali, a imitazione dei credenti della Chiesa primitiva, si ritrovano frequentemente insieme nell’intento di formare un’unica famiglia; non solo perché figli dell’unico Dio, fratelli di Gesù Cristo e membra vive del suo corpo che è la Chiesa, ma anche perché figli di Maria, votati in specialissimo modo al suo culto e alla confessione esplicita del privilegio della sua immacolata concezione. Le regole, le pratiche, i doveri generali e particolari sui quali si regge la Congregazione, in quanto società organizzata, e soprattutto lo spirito di intenso apostolato, che deve animare tutti e ciascuno, sono esigenze intimamente legate alla sua speciale consacrazione alla Vergine Immacolata».
Nel giro di tre anni, con la formazione del ramo femminile, la Congregazione contava già cinquecento aderenti, capaci di dar vita a una trentina di opere, le più disparate: visite ai carcerati, scuole serali per gli analfabeti, una specie di ufficio di collocamento per i disoccupati, la pratica degli esercizi spirituali in occasione dell’Immacolata. Non bastano le vessazioni contro la Congregazione ispirate da Napoleone a scoraggiare il fondatore, che aveva vissuto gli anni più bui del terrore giacobino. Nel seno della Congregazione iniziano frattanto a fiorire vocazioni alla vita consacrata, che spingono Chaminade, avanti negli anni, a dar vita a due istituti religiosi, uno femminile, le Figlie di Maria Immacolata, e uno maschile, la Società di Maria, quest’ultimo concepito in una forma diversa rispetto a quelli nati prima della Rivoluzione: «Diamo inizio» ebbe a dire Chaminade «a una famiglia religiosa con l’emissione dei tre voti ordinari di religione (povertà, castità, obbedienza, ndr) ma per quanto possibile senza apparenze esteriori, senza nome, senza abito particolare, senza riconoscimento legale: Nova bella elegit Dominus». Chaminade sentiva che con la Rivoluzione era oramai tramontato un mondo e non serviva restare ancorati alle vecchie forme della vita consacrata. Così, semplicemente, inizia a vivere insieme a cinque membri della Congregazione, tra cui solo due erano sacerdoti, gli altri commercianti e insegnanti. E fu proprio la scuola il campo d’azione prediletto dalla Società di Maria. Nella scuola, Chaminade vedeva la strada più immediatamente percorribile per ricostituire un tessuto cristiano quasi dissolto nella Francia postrivoluzionaria. Con il realismo di chi era consapevole di dover lavorare sulle macerie del cristianesimo ancien-régime: «Sembra che siamo arrivati» scrive «a una defezione generale e a un’apostasia di fatto quasi universale». Ma affidando alla Madonna la propria opera, aggiungeva: «Noi crediamo fermamente che Ella vincerà questa eresia come ha vinto tutte le altre».
Negli ultimi anni della sua vita, dopo aver dettato le costituzioni della Societas Mariae, Chaminade ebbe a soffrire molto per le incomprensioni e l’isolamento in cui venne trovarsi a causa di alcuni suoi stessi discepoli della prima ora. Accettò queste sofferenze per amore della Chiesa in spirito di carità, morendo serenamente nel 1850.


Tommaso Reggio
Il vescovo della carità
«Che la carità sia necessaria, e sommamente necessaria a un ecclesiastico, è chiaro per mille ragioni. Lo disse apertamente san Paolo; e Gesù Cristo prima di concedere a Pietro il primato, lo interrogò se lo amasse. Gesù Cristo è carità, e l’ecclesiastico ne deve essere il tipo. E poi, più deve amare chi più da Dio fu amato. La carità poi consiste nell’avere sempre Dio in mente e tutto fare per Lui». Sono parole di Tommaso Reggio, che del padre Chaminade avrà forse sentito parlare già negli anni della sua formazione a Genova o nei primi tempi del suo ministero sacerdotale (fu ordinato nel 1841, nove anni prima della morte del fondatore dei Marianisti) dedito alla formazione dei preti della diocesi di Genova, prima come vicerettore del seminario di quella città, poi come rettore di quello di Chiavari. La situazione italiana non era, dal punto di vista politico, meno complessa di quella francese. Reggio l’affrontò con libertà e spirito d’iniziativa, curando e riformando la formazione dei preti; imbarcandosi nella nascente avventura del giornalismo cattolico (fu redattore e direttore di giornali); favorendo una linea di partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana. Lo Stendardo Cattolico, di cui Reggio fu direttore dal 1861, aveva coniato la formula “eletti ed elettori”, anche in contrasto con la opposta tendenza maturata in quegli anni dalla Santa Sede. Una estrema libertà di idee insomma, unita a una estrema obbedienza. E quando nel 1874 Pio IX dichiarerà il non expedit, che vietava ai cattolici l’impegno politico, Tommaso Reggio si ritirò dall’attività pubblicistica, chiudendo il suo giornale ed esprimendo alla Santa Sede la propria posizione solo se richiesto: «Al Papa noi dobbiamo obbedienza esatta, pronta e sollecita» scriveva in quegli anni: «Non l’ubbidienza del bruto che morde il freno al quale è legato, ma quella del figlio che stima e ama il padre e fa suo vanto secondarne anche non veduto i voleri».
Sembra di risentire le parole con cui don Lorenzo Milani rispondeva a un giornalista che gli domandava se non avesse pensato di ribellarsi alla Chiesa dopo il suo trasferimento nella sperduta parrocchia di Barbiana: «Non si riuscirà mai a trovare in me la più piccola disubbidienza perché, prima di ogni altra cosa, mi premono i sacramenti. E nessuno riuscirà a farmi disubbidire. Il primo ordine che il vescovo mi dà, se lui mi sospendesse eccetera, io mi arrendo immediatamente. Rinuncio alle mie idee. Delle mie idee non m’importa nulla. Perché io nella Chiesa ci sto per i sacramenti, non per le mie idee» (cit. in N. Fallaci, Vita del prete Lorenzo Milani, Bur, Milano 1974, p. 291).
Altri impegni attendevano Tommaso Reggio, che continuò a dedicarsi all’apostolato con iniziative “popolari” quali la “dottrina notturna”: alle tre del mattino si recava nella chiesa della Madre di Dio per offrire un momento di preghiera ai lavoratori dei quartieri più poveri di Genova, prima che affrontassero le fatiche e gli orari disumani a cui erano sottoposti in quegli anni. La vocazione “sociale” del suo apostolato accanto ai poveri si approfondisce, nell’amicizia con don Bosco, quando viene chiamato nel 1877 a guidare come vescovo la disastrata diocesi di Ventimiglia, che contava pochissimi seminaristi e un clero in condizioni di estremo disagio: pochi sacerdoti anziani, costretti a lavorare la terra per guadagnarsi da vivere. Subito il nuovo vescovo si dedicò a riformare gli studi del seminario e a sostenere le parrocchie, recuperando anche numerosi frati da anni sospesi a divinis e abbandonati a se stessi. Senza contare il soccorso alla popolazione, che divenne drammaticamente urgente in occasione del terremoto del 1887. Il vescovo organizzò e portò personalmente gli aiuti, aprì case per l’accoglienza degli orfani, affidandole alle suore di Santa Marta, l’istituto religioso femminile da lui stesso fondato pochi anni prima.
Trascorsi quindici anni dalla sua nomina, ne aveva ormai 74, Tommaso Reggio scrisse al papa Leone XIII chiedendo di essere rilevato dall’incarico: «Prego Vostra Santità di sollevarmi dall’incarico di vescovo e di tornare ad essere un semplice sacerdote. Temo, Santo Padre, che diventando lento per l’età di vescovo, tutta la diocesi si addormenti. Chiedo di esser dimesso in pace come un servo fedele, e di affidare ad altri un compito tanto grave». La risposta del Papa non si fece attendere: Reggio era sì sollevato dall’incarico, ma per ricevere la nomina ad arcivescovo di Genova.
In pochi anni Tommaso Reggio riuscì a conquistarsi le simpatie non solo dei fedeli, ma anche delle autorità laiche e anticlericali della città. La semplicità e la nobiltà del tratto, unite a una preghiera perseverante e continua, gli permisero di superare incomprensioni e steccati ideologici. Nacque sotto il suo auspicio l’associazione per gli emigranti che si accalcavano al porto di Genova, che forniva assistenza materiale e giuridica. Furono compiuti grazie a lui passi in avanti perché furono accolte alcune rivendicazioni degli operai genovesi per la riduzione dell’orario di lavoro e la concessione del riposo festivo.
Morì all’inizio del secolo, mentre si recava a benedire la statua del Redentore sul monte Saccarello, chiedendo invano di essere sepolto nel piccolo cimitero del paese di Triora «nell’angolo dei poveri».


COLUMBA Marmion
La centralità della vita sacramentale nell’esperienza cristiana
Diversa certamente fu la via percorsa da Joseph Marmion, che subì il fascino della vita monastica quando era già sacerdote secolare della diocesi di Dublino. Al tempo della sua ordinazione, avvenuta nella chiesa di Sant’Agata dei Goti a Roma nel 1881, sognava di farsi missionario in Australia. Tornando nella sua patria, l’Irlanda, in quello stesso anno, fece tappa a Maredsous, in Belgio, sede di un monastero benedettino fondato solo nove anni prima e ancora in costruzione. Ne restò così affascinato da chiedere immediatamente al vescovo di potervi entrare come novizio. Per ottenere il permesso dovette attendere il 1886. Nel 1891, assume alla professione solenne il nome di Columba; ne diventerà abate nel 1909, carica che mantenne fino alla morte, avvenuta nel 1923.
Dom Columba Marmion fu uomo di preghiera, consacrato specialmente alla direzione spirituale e all’insegnamento. Fu il confessore del futuro cardinal Mercier, consigliere spirituale della regina Elisabetta del Belgio. A lui si fece ricorso per gestire il difficile passaggio della comunità di monaci anglicani di Caldey alla fede cattolica. Le sue conferenze spirituali furono raccolte in tre volumi che ebbero (soprattutto il primo, Cristo, vita dell’anima, apparso nel 1917) una enorme diffusione. Su di essi si formarono generazioni di sacerdoti e religiosi almeno fino al Concilio. La cifra che contraddistingue la spiritualità di Marmion è il ritorno deciso alle fonti più limpide della fede cristiana, la Sacra Scrittura (specie san Paolo) e i Padri, in contrasto con il taglio dei trattati di tanta devotio moderna; e la centralità della vita sacramentale nell’esperienza cristiana. Una «via sacramentale» scrive a questo proposito Andrea Grillo «che trova nel battesimo e nell’eucaristia i suoi punti chiave. In essi il rapporto con Cristo e con la Trinità assume il tratto di un’esperienza vissuta. In dom Marmion, la fede era così viva che il dogma cristiano sembrava appartenere al dominio delle sue esperienze personali».
Già papa Benedetto XV aveva favorito la diffusione dei suoi scritti, e la fama della sua santità, iniziata già in vita, indusse monsignor Montini, il futuro Paolo VI, a sostenere nel 1954 l’avvio della causa di beatificazione di dom Columba Marmion, conclusasi nel gennaio di quest’anno. Anche per lui valgono oggi le parole pronunciate un giorno da Tommaso Reggio: «I santi sono come luminari posti nella Chiesa a chiarire con le grandi luci delle loro virtù i piccoli passi delle virtù a noi necessarie».


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