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CORNO D’AFRICA
tratto dal n. 05 - 2000

ETIOPIA ED ERITREA. Intervista con Rino Serri sulla lunga guerra

O collaborano o combattono


È il destino di questi due Paesi che non possono vivere ignorandosi. Il rappresentante dell’Unione europea per questo conflitto, ne analizza cause e possibili soluzioni. Intervista


Intervista con Rino Serri di Roberto Rotondo e Gianni Cardinale


«Etiopia ed Eritrea per la loro storia, per la loro cultura, per l’etnia, per la posizione geografica, o si fanno la guerra o collaborano. Comunque non è possibile che si ignorino, che si tollerino, che vivano in pace senza essere amici». Rino Serri, sottosegretario agli Esteri italiano, ha le idee chiare. Per lui una pace fattiva tra i due Paesi è un percorso obbligato per la stabilità anche negli altri Paesi della regione, a cominciare dalla Somalia.
Soldati eritrei vicino ad un carro armato. Per Rino Serri la corsa al riarmo dei due Paesi è iniziata 
dopo lo scoppio della guerra, non prima

Soldati eritrei vicino ad un carro armato. Per Rino Serri la corsa al riarmo dei due Paesi è iniziata dopo lo scoppio della guerra, non prima

Serri è uno dei pochi a conoscere a fondo la realtà del Corno d’Africa, dove a maggio è riesploso in tutta la sua virulenza uno dei più sanguinosi conflitti armati degli ultimi tempi, che ha mietuto già decine di migliaia di vittime: c’è chi ne ha contate già centomila, tra militari e civili. Serri, negli ultimi anni, ha più volte fatto la spola tra Addis Abeba ed Asmara, e il giro di altre capitali africane per cercare dapprima di scongiurare il conflitto, poi per cercare di risolverlo. Non a caso è stato nominato rappresentante della presidenza dell’Unione europea per il conflitto.
30Giorni lo ha intervistato per cercare di capire quali sono le ragioni di questa guerra e quali le prospettive. Serri ci ha ricevuto alla Farnesina alla vigilia della sua partenza per Algeri, per l’ennesimo tentativo di bloccare il conflitto.
Sessantasette anni, emiliano, deputato e poi senatore tra il ’79 e il ’96, dapprima per il Pci e poi per Rifondazione comunista (da cui è uscito per appoggiare il governo Dini nel ’95), Serri dal ’96 è stato sottosegretario agli Esteri con i governi Prodi e D’Alema. Incarico cui è stato confermato dall’attuale presidente del Consiglio, Giuliano Amato.

Quali sono le radici di questo conflitto che molti osservatori hanno giudicato assurdo?
RINO SERRI: Francamente le definizioni “conflitto assurdo”, “conflitto stupido”, come ha scritto qualcuno, non mi convincono. Vorrei sapere infatti se c’è qualche conflitto intelligente. Inoltre non vorrei che questo nascondesse una certa arroganza intellettuale da parte nostra, che sessanta o settanta anni fa facevamo conflitti più o meno “assurdi”. Anzi qualcuno l’abbiamo fatto anche più recentemente. Io riconosco almeno due ragioni dello scontro tra Etiopia ed Eritrea. La prima: come sappiamo l’Eritrea è diventata indipendente nel ’93. Prima è stata per lungo tempo collegata all’Etiopia, prima ancora era stata collegata al colonialismo italiano, ancora prima faceva parte di un altro regno. La svolta è nel ’91, quando ad Addis Abeba, la capitale etiopica, dopo anni di lotta armata, presero il potere i movimenti anti-Menghistu Hailé Mariam, dei quali facevano parte sia l’attuale gruppo dirigente eritreo sia l’attuale gruppo dirigente etiopico. A due anni da quella vittoria, l’Eritrea diventa indipendente da Addis Abeba, in una forma quasi inedita perché raggiunta attraverso un processo del tutto pacifico, con un referendum, accettato anche dall’Etiopia. Il guaio è che le regole dell’indipendenza non erano state studiate: i confini non erano stati demarcati, le relazioni economiche non erano state approfondite, la moneta rimaneva la moneta unica etiopica e sull’utilizzazione dei porti c’erano solo degli accordi verbali. Quindi la convivenza tra i due Paesi non ha retto. Anche perché, forse, quella parte degli etiopi che non voleva l’indipendenza dell’Eritrea ha volutamente tenuto aperta la questione dei confini per lasciare la zona in uno stato di tensione permanente.
Questa è la prima ragione. E la seconda?
SERRI: È anche più influente della prima: tra i due gruppi dirigenti che erano usciti vittoriosi dalla guerra contro Menghistu, quello etiopico di Zenawi e quello eritreo di Afeworki, si è aperto inevitabilmente un conflitto per la leadership nell’area. I due avevano anche una lunga storia di militanza comune, di rapporti diretti, personali. Ma sono gruppi che sono cresciuti attraverso tanti anni di guerriglia, di lotta, e sono quindi molto orgogliosi. Sono convinto che si poteva tentare di evitare la guerra, che i due gruppi dirigenti (adesso non voglio affidare responsabilità precise all’uno o all’altro) si sono spinti entrambi troppo avanti, perdendo il controllo della situazione. Però non si può dire che è una guerra senza ragioni. Dico questo perché penso ancora che il conflitto sia risolvibile. Come sono convinto di una cosa: che questi due Paesi, per la loro storia, per la loro cultura, per l’etnia, per la posizione geografica, o si fanno la guerra o collaborano. Comunque non è possibile che si ignorino, che si tollerino, che vivano in pace senza essere amici. Prendiamo ad esempio la questione dei porti, problema di cui si parla molto, ma che non è una causa reale della guerra: il porto di Assab, che è in territorio eritreo, senza l’Etiopia non serve a niente. Perché tra il porto e il resto dell’Eritrea c’è un deserto in cui non c’è nulla. La strada, da Assab va in Etiopia. Quindi il porto è utile se lo usano anche gli etiopi. Ecco perché nei negoziati di Algeri, o nei tempi immediatamente successivi, bisogna arrivare ad una nuova prospettiva di collaborazione, non semplicemente ad una tregua armata
Il primo ministro etiope Meles Zenawi

Il primo ministro etiope Meles Zenawi

Ma con l’attuale leadership etiopica ed eritrea è possibile affrontare tutti questi problemi?
SERRI: È una domanda complessa. La preoccupazione della comunità internazionale deve essere prima di tutto quella di elaborare una politica giusta e i modi concreti per realizzarla. Poi sta ai gruppi dirigenziali di questi Paesi dimostrare il loro valore, la loro capacità di guardare lontano, di gettare basi solide per il futuro, confrontandosi con le nostre proposte.
La guerra di maggio però ha lasciato delle ferite che non si rimargineranno in tempi brevi...
SERRI: È la cosa che mi preoccupa di più, perché si sono creati dei guasti a cui non si rimedierà facilmente: gli eritrei che sono stati espulsi dall’Etiopia, le migliaia di famiglie dell’una e dell’altra parte che hanno avuto un lutto a causa della guerra, sono delle lacerazioni profonde. Per questo era importante concludere rapidamente il conflitto. C’è anche il pericolo di una frantumazione etnica. Gli eritrei sono stati accusati di utilizzare due etnie, gli amhara e gli oromo, contro i tigrini, che oggi sono il gruppo dirigente etiopico; gli etiopi in questi giorni vengono a loro volta accusati di voler utilizzare l’etnia afar contro gli eritrei. Francamente credo che nessuna delle due parti punti decisamente in questa direzione, anche se durante questi due anni di conflitto possono essere stati tentati di farlo. Qualche volta hanno provato a giocare questa carta però non credo che sia una scelta strategica di fondo dei due gruppi dirigenti. Ma sanno che cos’è la frantumazione etnica di un Paese e sanno quanta destabilizzazione questo comporta. Sanno che sarebbe una scelta suicida, che poi si ribalterebbe contro chi la praticasse e quindi non credo che nessuno dei due abbia interesse a puntare fino in fondo sulla frantumazione etnica dei due Paesi.
Una parentesi sul “buco nero” Somalia: non se ne parla più perché è stato risolto il problema?
SERRI: Sulla Somalia non c’è l’attenzione della comunità internazionale. Anche a livello di Unione europea c’è una sorta di attesa rassegnata. Sono invece convinto che bisogna avviare un processo di pacificazione del Corno d’Africa il più ampio possibile, tenendo presente tutti i problemi. Dalla Somalia alla crisi del Sudan, soprattutto del sud del Paese. Ora la tensione è tra Etiopia ed Eritrea, ma prima era stata tra Eritrea e Sudan e tra Uganda e Sudan. Il problema della Somalia si risolve solo dentro un processo di pacificazione più ampio. Un’ipotesi ottimistica: se si riesce a generare la soluzione del conflitto Etiopia-Eritrea allora potremmo rovesciare la tendenza in tutto il Corno d’Africa e concludere la crisi sudanese perché ci sono possibilità nuove oggi. Poi possiamo chiudere anche la crisi della Somalia.
La comunità internazionale ha fatto tutto quello che poteva fare nel conflitto tra Etiopia ed Eritrea o ha lasciato correre un po’ troppo?
SERRI: Tutti dicono sempre che la comunità internazionale non fa mai abbastanza, ma questa volta non c’era molto altro da fare. Prendiamo ad esempio una questione di cui hanno parlato molto i giornali: le armi. Posso testimoniare abbastanza realisticamente che i due Paesi si sono armati soprattutto dopo l’inizio della guerra, non prima. Inoltre l’Unione europea aveva decretato un embargo delle armi già da molto tempo. Non dimentichiamo che questa guerra è iniziata nel 1998. Invece le Nazioni Unite, che hanno sottovalutato il conflitto, sono arrivate a decretare l’embargo solo qualche giorno fa.
Non è un ritardo da poco.
SERRI: È un ritardo grave e un elemento serio per capire la situazione. Un altro elemento di riflessione è che oggi la comunità internazionale interviene solo in certe aree del mondo (si pensi al Kosovo, all’Iraq o alla Bosnia) e attraverso strumenti già esistenti, la Nato, gli Usa. In Africa non ci sono queste strutture e l’Onu è impotente, non riesce ad agire. Questo problema va risolto. Bisogna dare vita ad una o più strutture di intervento in Africa che siano capaci di prevenire, bloccare e risolvere i conflitti.
Lei ha fatto riferimento agli Stati Uniti, che oggi giocano la parte del leone nel Corno d’Africa...
SERRI: Io posso dire con sicurezza che gli Stati Uniti non avevano alcun interesse a stimolare la guerra tra i due Stati, perché Etiopia ed Eritrea sono due Paesi con due gruppi dirigenti sui quali gli Stati Uniti contavano molto. E me lo hanno detto più volte. Qual è stato il limite dell’azione degli Usa nell’area? Che, e non da ora, hanno privilegiato troppo l’esigenza di fronteggiare il pericolo del fondamentalismo islamico identificandolo soprattutto nel Sudan di Hassan al-Turabi.
Questo pericolo lo vedevamo anche noi ma non nella stessa misura. E soprattutto noi l’abbiamo affrontato in modo diverso: cercando di evidenziare le contraddizioni e stimolare il dialogo interno al fondamentalismo. Invece, probabilmente, una componente dell’amministrazione americana pensava che occorresse creare una “Linea Maginot” al fondamentalismo e questo ha fatto sottovalutare tensioni di altra natura che meritavano di essere affrontate con altrettanta urgenza. Forse da questo punto di vista qualche riflessione anche gli americani dovrebbero farla.
Il dramma dei profughi. Una donna eritrea lascia l’Etiopia con il suo bambino

Il dramma dei profughi. Una donna eritrea lascia l’Etiopia con il suo bambino

Quanto pesa il fatto che non venga coinvolta la Russia, che aveva un certo peso specifico in Africa (ma anche la stessa Cina) per tentare di risolvere queste guerre?
SERRI: Francamente non so quanto pesi, però è importante sull’Africa mobilitare anche questi Paesi. A me è già capitato durante questo conflitto tra Etiopia ed Eritrea di pensare al fatto che bisognasse coinvolgere di più la Cina, poi ad un certo punto anche la stessa Russia, se non altro perché aiutasse a bloccare certe forniture di armamenti che venivano da Est. Dobbiamo cominciare ad affrontare i problemi con una dimensione che non sia solo occidentale, ma che coinvolga i Paesi del cosiddetto ex Terzo mondo, la Cina, ma anche l’Est europeo, la Russia, così come pure l’India, il Brasile. Dobbiamo allargare l’area di coloro che si occupano della soluzione dei problemi del mondo, evitando di pensare che esista solo il nostro punto di vista.
Che capacità c’è di comprendere i problemi reali di questi Paesi da parte degli Stati Uniti o dell’Occidente più in generale, così che si evitino disastri peggiori?
SERRI: Noi abbiamo un po’ attutito la nostra capacità di leggere i processi in Africa, così rischiamo di oscillare nel rapporto con questo continente tra una forma più o meno velata di razzismo (riassumibile in un discorso del tipo: “Va beh, si ammazzano tra di loro, sono incapaci di vivere in pace…”) e l’etica del “bisogna aiutarli”. Facciamo fatica a riconoscerli come dei soggetti politici, con i quali bisogna discutere alla pari. È necessario considerarli degli Stati, con gruppi dirigenti, con governi veri, con i quali puoi anche dissentire, ma devi comunque fare i conti.
C’è un denominatore comune tra la crisi nel Corno d’Africa e le tante altre crisi che attraversano il continente africano in questo periodo particolarmente turbolento? Pensiamo allo Zimbabwe o alla Sierra Leone.
SERRI: Ci sono due questioni fondamentali. Queste crisi sono tutte frutto anche del processo di globalizzazione economica e finanziaria. I Paesi più poveri, se non vengono in qualche modo aiutati ad integrarsi nel processo, vengono spinti ancora più ai margini. Diventano ancora più poveri. L’Africa ha risentito pesantemente di queste politiche neoliberiste per cui conta solo la macroeconomia. Questi Paesi erano sulla strada dello sviluppo, solo che per pareggiare il bilancio e ridurre il deficit tagliavano sulla sanità – già a livelli bassi –, sulla scuola, e producevano dei disastri sociali che poi diventavano via via anche disastri economici. Non è un caso che anche la Banca mondiale ha cominciato a rivedere la sua politica. Seconda questione: il debito dei Paesi in via di sviluppo, e tra questi il debito dei Paesi più poveri, i cosiddetti Pma, i meno avanzati. È il caso della gran parte dei Paesi dell’Africa “subsahariana”. Se ne parla molto, ma fino ad oggi quanti sono i Paesi poveri ai quali il debito è stato effettivamente ridotto o cancellato?
Però, a ben guardare, i conflitti più sanguinosi in Africa non sono nelle zone più povere, sono nei Paesi più ricchi di materie prime.
SERRI: Non è vero. È vero che in Sierra Leone ci sono i diamanti, in Angola c’erano i diamanti e il petrolio, ma in Burundi cosa c’era? Niente. E in Etiopia ed Eritrea che cosa c’è? Sono due Paesi poveri, senza risorse, che non hanno né miniere né petrolio. Senti tanta gente che si chiede: “Sono tanto poveri, muoiono di fame, e poi si fanno la guerra?”. Ma proprio perché sono poveri fanno la guerra. Quando non hai più niente in cui sperare, una soluzione può essere tentare di prevaricare l’altro, di dominarlo, per non dividere neanche l’ultimo pezzetto di pane.


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