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LETTURE
tratto dal n. 05 - 2000

Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt


Appunti dalla meditazione tenuta da don Giacomo Tantardini, il martedì santo 18 aprile 2000, a Padova nella Basilica del Santo


di don Giacomo Tantardini


In questa chiesa familiare e cara per la presenza di sant’Antonio, come accennava il padre rettore che tutti ringraziamo, vorrei suggerire semplicemente alcuni cenni o alcune scintille di luce, per usare un’immagine della Bibbia anche questa a noi cara, alcune scintille di luce per vivere questa Settimana Santa. Vorrei partire dalla lettura del Breviario di ieri, lunedì santo. C’era una lettura di sant’Agostino che diceva: «Grande cosa è quello che ci è promesso». Che cosa ci è promesso, che cosa è promesso a ciascuno di noi, credente o non credente? Fosse qui uno ateo o fosse qui uno dal cuore pieno della carità, come Antonio da Padova, che cosa a ognuno è promesso? È promessa la felicità. E la felicità per sempre, perché non sarebbe felicità se non fosse per sempre. Per usare un termine evangelico – ma anche felicità è un termine evangelico, Gesù ha iniziato dicendo beati, felici –, ha promesso la vita per sempre. E come l’ha promessa? L’ha promessa attraverso il nostro cuore. Per questo dicevo che questa promessa di per sé è identica per l’ateo e il credente. Il cuore che mi hanno dato mio padre e mia madre, il cuore di ciascuno di noi contiene questa promessa. Il cuore di ciascuno di noi è attesa di una felicità vera, e vera vuol dire che corrisponde al cuore. È attesa di un compimento, per sempre. «Forse qualcuno ci ha promesso qualcosa? E allora perché aspettiamo?» scriveva Cesare Pavese nei suoi diari. Perché aspettiamo? Se il cuore aspetta, vuol dire che Qualcuno ci ha promesso qualcosa. È grande cosa questa promessa per ogni uomo. Ogni uomo viene al mondo con un cuore così, un cuore che attende la felicità, un cuore che attende di essere felice per sempre.
Particolare di una formella della Maestà di Duccio di Buoninsegna: Gesù risorto e gli apostoli

Particolare di una formella della Maestà di Duccio di Buoninsegna: Gesù risorto e gli apostoli

Poi questa attesa è come inevitabile che decada, osserva la dottrina cristiana; è come inevitabile che poi uno si accontenti. E qui non c’è religione che tenga, non c’è sentimento religioso che tenga: è inevitabile che poi nella vita uno si accontenti. Comunque il cuore rimane così, il cuore sotto tutti i detriti rimane, almeno per alcuni istanti, anche nell’andare a tentoni, rimane attesa di felicità per sempre. Diceva Agostino ieri nel Breviario che è una cosa grande quella che ci è stata promessa. Questa felicità è una cosa grande, che il nostro cuore sia fatto così è una cosa grande, che il cuore di ogni uomo sia fatto così è una cosa grande; è una cosa bella, come è bello lo sguardo della mamma e del papà verso il proprio figlio piccolo. Ma, aggiungeva sant’Agostino: «È più grande quello che è capitato». È più grande come questa promessa si è realizzata. Una promessa così vera, così reale, se noi non la potessimo incontrare, se l’uomo, in questa vita, non ne potesse sperimentare l’anticipo reale (reale come l’alba che non è il sole pieno, ma è un anticipo reale della luce; senza il sole non ci sarebbe l’alba), se non potesse sperimentare l’albore in questa vita, dopo un po’ direbbe che non esiste. È più grande quello che duemila anni fa è capitato. Duemila anni fa questa felicità che il cuore attende, questa vita che il cuore attende, questa bellezza che il cuore attende è diventata carne, perché l’uomo la potesse incontrare. Perché se Dio esiste ma non si può incontrare, è inevitabile alla lunga che ci si accontenti, è inevitabile alla lunga che l’uomo dica che non esiste. Così in quella piccola casa di quel paese sperduto ai confini della terra promessa, Nazareth, per trent’anni, in quella piccola casa, per Maria e per Giuseppe la felicità fatta carne diventava esperienza quotidiana. Per Maria e per Giuseppe diventava stupore quotidiano. Dal primo stupore, quando Maria l’ha partorito, quando, per la prima volta, in questa vita, occhi umani, gli occhi di due ragazzi, di Maria e di Giuseppe, hanno visto Dio. È una cosa dell’altro mondo solo pensare una cosa così: che quando l’ha partorito – con quel parto stupendo, pieno di stupore – per la prima volta su questa terra – non nell’aldilà, non dopo la morte, su questa terra – gli occhi di due ragazzi, gli occhi di Giuseppe e di Maria, hanno visto la felicità in persona, hanno visto quello che il cuore dell’uomo attende e che non aveva mai visto. Loro invece l’hanno visto, l’hanno preso in braccio, Maria l’ha allattato, come nostra madre ha fatto con ciascuno di noi.
Quindi, per trent’anni in quel piccolo paese.
E poi quando Lui ha incominciato ad incontrare, ad incontrare i primi, a incontrare Giovanni e Andrea quel pomeriggio sulle rive del fiume Giordano: «Erano le quattro del pomeriggio». Allora la felicità, allora la vita si è fatta vedere e Giovanni scriverà poi: «…E noi l’abbiamo vista, noi abbiamo toccato con mano quella vita eterna che era nel mistero e si è resa visibile a noi». Da allora è molto più grande questa esperienza che non l’attesa, è molto più grande la possibilità di fare esperienza della felicità che non l’attesa.
Adesso, partendo da questo, vorrei suggerire come tre cenni.
Il primo. Immaginate il giorno dopo che i primi due l’avevano incontrato ed erano rimasti tutto il pomeriggio a guardarlo parlare. Uno di loro si chiamava Andrea e aveva un fratello che si chiamava Simone. Andrea il giorno dopo ha detto al fratello: «Abbiamo incontrato il Messia». Abbiamo incontrato cioè quello che il popolo eletto attendeva, quella felicità concreta che il popolo attendeva. (Il popolo di Israele, del cuore dell’uomo, era ed è per sempre la garanzia e la difesa. Il popolo eletto attendeva il Messia, cioè attendeva che il cuore dell’uomo trovasse una risposta sulla terra). Ebbene, Andrea ha detto a suo fratello: «Abbiamo trovato il Messia». Immaginate quando quel giorno Gesù ha guardato Simone e gli ha detto quelle poche parole: «Tu sei Simone, ti chiamerai Pietro». E immaginate Pietro in quei tre anni tutte le volte che è stato guardato così dal Signore. E anche quella volta, come il Vangelo della messa di oggi raccontava, che Gesù profondamente commosso, la sera del primo giovedì santo, ha detto: «Uno di voi mi tradirà». Allora Pietro fa cenno a Giovanni di chiedere chi è, e poi dice: «Anche se tutti ti tradissero, io non ti tradirò»; e Gesù guardando Pietro: «Tu non mi tradirai? Prima che il gallo canti due volte mi avrai tradito tre volte». Pensate la prima volta che l’ha guardato e poi la tenerezza, quasi con dentro un sorriso di umorismo, con cui gli ha detto questa cosa. Ma c’è uno sguardo più vero, più corrispondente al cuore ed è lo sguardo dopo il tradimento. Quando, dopo che Pietro lo aveva tradito, così che fosse evidente che non poteva fondarsi sulla sua buona volontà, non poteva fondarsi sul suo cuore, non poteva fondarsi sulla sua libertà, dopo che lo aveva tradito «Gesù guardò Pietro»; o come dice il Vangelo di Marco: «E Pietro si ricordò di quello che Gesù aveva detto e scoppiò in pianto». Questo sguardo e queste lacrime sono più belle, più umane che non il primo sguardo. Questo sguardo di Gesù, quando l’ha guardato dopo che lo aveva tradito, e queste lacrime contengono una gratitudine che il primo sguardo non conteneva; contengono una bellezza, le lacrime di Pietro, che il primo stupore non conteneva. Il perdono dei peccati è come un dono più grande della grazia del primo incontro, il perdono dei peccati è questo pianto: «…E Pietro scoppiò in lacrime». Questo pianto non nasce dal peccato. Il peccato genera soltanto schiavitù. Nasce da quella presenza che l’ha guardato, nasce perché Pietro si è ricordato. È per grazia. È la Sua grazia, la Sua attrattiva che desta il dolore dei peccati. Il peccato al massimo provoca un’umiliazione, soprattutto certi peccati umilianti, ma non desta dolore. Il dolore nasce perché uno si ricorda di come è bello quello sguardo, di come è cara, di come è familiare quella presenza; perché uno viene guardato dopo aver peccato: «…E Gesù guardò Pietro e Pietro scoppiò in lacrime». Come sono piene di gratitudine queste lacrime, come sono liete! «Habet et laetitia lacrimas suas», dice sant’Ambrogio. La letizia di essere abbracciato di nuovo, di essere di nuovo accolto, la letizia di essere di nuovo guardato, di nuovo preso in braccio, preso sulle spalle, come dice la parabola. Non gli ha detto “devi tornare a casa”, l’ha presa sulle spalle quella pecora che si era smarrita. Il bambino viene preso in braccio, altrimenti non ritorna a casa. Così la prima cosa che volevo accennare è che c’è una gratitudine più grande del primo stupore ed è la gratitudine di essere perdonati. Se non fossimo poveri peccatori, non potremmo sperimentare la felicità di queste lacrime; e queste lacrime nascono perché uno si ricorda di Lui, nascono quindi da una grazia, perché è una grazia ricordarsi così, è una grazia essere guardato così.
Gesù risorto e la Maddalena

Gesù risorto e la Maddalena

Seconda cosa.
Questo sguardo, che vince anche il peccato, ha vinto una cosa che del peccato è la conseguenza, che del peccato è il compimento, cioè la morte. Se non avesse vinto la morte, quel primo sguardo di stupore, ed anche questo sguardo di perdono a Pietro, sarebbe stato, dopo un po’, soltanto sorgente di una disperazione più grande. Infatti quando lo hanno visto morire sulla croce, quando quel primo venerdì santo lo hanno visto morire, è come se tutto quello che avevano incontrato, è come se quel rinnovarsi di stupore, quel filo di tenerezza e di adesione, quello stupore che Pietro aveva provato quando Zaccheo, guardato e chiamato da Gesù, è sceso in fretta ed è andato a casa e ha dato quel pranzo, lo stupore che Pietro ha avuto quando ha visto la Maddalena piangere così e Gesù voler bene così alla Maddalena, ebbene, quando lo hanno visto morire, è stato come se tutte queste cose fossero finite, tutte. Pensate alla Maddalena per capire che cosa è stata la crocifissione e intuire quindi che cosa è stata la Sua resurrezione. Gesù stesso ha scelto questa prostituta, i Vangeli stessi parlano di Maria Maddalena. Provate a immaginare che cosa è stato per Maria Maddalena quando l’ha visto morire: era finito tutto. Sarebbe tornata più disperata e più violenta al suo antico mestiere. Era finito tutto. Quella felicità che il cuore attende e che avevano incontrato era finita. La croce è reale, quella morte era reale, è realmente morto e quindi realmente, per quei poveretti che avevano iniziato qui sulla terra a sperimentare il paradiso, il paradiso era finito. Realmente il compimento dell’attesa del cuore, sulla croce, era morto. Immaginate quindi la disperazione di Maria Maddalena o immaginate la tristezza di quei due che si allontanavano da Gerusalemme: «…Noi speravamo, ma ormai sono passati tre giorni», ormai tutto è finito. Così il cristianesimo, che era iniziato in quello stupore, ricomincia come un nuovo inizio che non finisce, perché ha vinto l’ultimo nemico, ricomincia quel mattino di Pasqua (com’è bello in fondo a questa Basilica l’angelo della resurrezione!). È ri-iniziato così. Il cristianesimo non è iniziato con quella morte, il cristianesimo è ri-iniziato come un nuovo inizio con la sua resurrezione, quando i suoi discepoli con i loro sensi l’hanno visto e l’hanno toccato risorto. Come dice sant’Agostino in una frase stupenda (basta una frase così per dire che cosa è il cristianesimo): «Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt», «È risorto il terzo giorno, come gli apostoli, anche con i loro sensi, hanno verificato». Il cristianesimo non è nato con una riflessione del pensiero; è nato col vedere e toccare un uomo che era morto realmente sulla croce il venerdì santo e quel mattino del primo giorno dopo il sabato è ritornato alla vita per la potenza dello Spirito del Signore, del suo Spirito. È nato così il cristianesimo, è nato da questa verifica dei sensi. Come diceva il nostro Paolo VI: se non è stato visto e toccato con i sensi c’è la gnosi, non c’è il cristianesimo. Il cristianesimo è nato da una cosa che hanno visto e hanno toccato, e solo perché l’hanno visto e toccato, per questo lo hanno seguito, per questo Pietro lo ha seguito con la semplicità del bambino, e per questo con la semplicità del bambino gli ha detto, quando dopo la resurrezione gli ha chiesto: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi tu bene?», Pietro come un bambino, come un respiro, gli ha detto: «Tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene». Se non fosse risorto, se non l’avessero visto e non l’avessero toccato… Altrimenti non c’è fede cristiana, c’è soltanto l’idealizzazione di alcuni particolari, c’è soltanto l’attaccamento triste e ultimamente violento ad un passato. L’hanno visto vivo. Così tutta quella storia, cominciata con quel primo incontro, è rinata perché l’hanno visto, non perché hanno idealizzato un passato: perché hanno visto e toccato Lui vincitore della morte. È così che si comprende il cristianesimo. Pensate a sant’Antonio, pensate all’immagine più tradizionale, diffusa in tutta la Chiesa di Dio, di sant’Antonio con in braccio Gesù Bambino. Perché è tutto lì: senza lo stupore di una intimità così, senza (per lui in maniera straordinaria) vedere e toccare il Mistero fatto presenza umana, non si può essere cristiani. La possibilità di essere cristiani, la possibilità di dire sì, la possibilità di domandare umilmente, la possibilità di non offendere il Signore (…Con il Tuo aiuto prometto di esserti fedele, altrimenti sarebbe la presunzione più grande. Con la tua santa grazia prometto di non offenderti mai più…), tutto questo è possibile perché nasce dall’esperienza che è una cosa bella, cara, familiare essere voluto bene da Gesù. È stata possibile la santità di Antonio perché l’ha visto così, perché l’ha toccato così. Da questo stupore, dalla felicità di questa intimità, da questa intimità così stupenda nasce la vita cristiana. Se non l’avessero visto e non l’avessero toccato dopo la sua resurrezione non potevano morire per Lui, Pietro non poteva sul Gianicolo accettare con gratitudine di morire per Lui. Non poteva accettare, dicendo grazie, di essere crocifisso per Lui. È perché l’hanno visto e toccato, perché hanno verificato con i sensi che cosa è la felicità, la felicità del Suo abbraccio, per questo per Lui sono vissuti e per Lui, come senza accorgersi, sono morti.
Un’ultima cosa volevo dire. E qui leggo il brano di Giussani del libro L’attrattiva Gesù che più mi è ritornato alla mente in questo tempo e che più descrive, suggerisce quello che ho tentato di dire. Come è possibile per noi, che non abbiamo avuto una grazia così grande come Antonio di prendere in braccio quel Bambino e guardare quel Bambino, di abbracciarlo e guardarlo, come è possibile per noi che, se siamo qui, l’anticipo inerme, fragile, ma l’anticipo di una felicità così l’abbiamo sperimentato, l’abbiamo sperimentato con quello che siamo, con gli occhi che si sono stupiti e con il cuore che si è commosso, come è possibile per noi? Dice Giussani: «Il tuo rapporto con Cristo non deve essere evoluto, scaltro, maturo, perché la tua personalità ne nasca [perché il tuo cuore sia commosso come era commosso il cuore di Antonio o come era commosso, con una commozione che nessuno potrà mai eguagliare, il cuore di quella ragazza ebrea che si chiama Maria e che gli ha dato carne e sangue. Il tuo rapporto con Cristo non deve essere maturo perché il cuore sia commosso così… È quando il cuore si commuove che rinasce, altrimenti il cuore alla lunga diventa duro come pietra. Quando si commuove ritorna leggero, innocente come il cuore di un bambino] e la tua personalità da esso sappia creare compagnia [sappia voler bene all’uomo che incontri per caso, sappia voler bene alla persona che hai vicino, a tuo marito, a tua moglie, al figlio, sappia voler bene all’estraneo; e senza uno stupore così è come se, dopo un po’, tutti diventassero estranei]. Basta – come dire – la sorpresa che ebbero Giovanni e Andrea, che non capivano niente [è iniziato per uno sguardo ed è ri-iniziato quel mattino di Pasqua perché l’hanno visto. Non è iniziato con il pensiero il cristianesimo. Questo sguardo e questa commozione sono la cosa più ragionevole di questo mondo. È il pensiero più alto che l’uomo possa avere, questo sguardo e questa commozione da bambino]; basta la sorpresa, basta l’accenno di devozione, basta lo stupore. Più precisamente: basta il chiederlo, basta quell’embrionale percezione di quel che Lui è che te lo fa chiedere, per cui lo chiedi». Come si fa a chiedere, coma fa l’uomo a chiederlo? C’è qualcosa che viene prima dello stesso chiederlo. Quell’embrionale percezione che è una cosa bella quella presenza umana che si chiama Gesù. Allora, se è una cosa bella, come i primi due che Lo hanno incontrato, la domandi. Come hanno fatto Giovanni e Andrea: «Maestro, dove rimani?». Sarebbe bello rimanere, sarebbe bello che quello che è capitato questo pomeriggio capitasse sempre, capitasse anche domani. Ecco, questa è la domanda. La domanda, la preghiera cristiana, è molto più un desiderare di rimanere di fronte alla Sua presenza, è molto più come quando la Madonna chiamava Gesù bambino che magari stava giocando sulla porta di casa, è molto più una familiarità così, ha molto di più la natura della voce della Madonna che chiama Gesù piccolo che tutta la preghiera religiosa del mondo. Basta quell’embrionale percezione di quel che Lui è che te lo fa chiedere, per cui lo chiedi.
Volevo concludere con una preghiera della liturgia ambrosiana di Quaresima che dice: «Contro di Te abbiamo peccato Signore. Chiediamo un perdono che non meritiamo. La vita nostra sospira nell’attesa [ogni vita umana sospira nell’attesa, domandando o bestemmiando. Sospira nell’attesa della felicità]. Ma non si corregge il nostro agire [non basta l’attesa per essere buoni nella vita di tutti i giorni, non basta un cuore che attende per essere buoni nella vita che passa. È solo un incontro con la felicità che rende il cuore buono. Quando si è contenti così, il cuore diventa buono. La vita nostra sospira attendendo, ma non si corregge il nostro agire]. Se Tu aspetti, noi non ci pentiamo [com’è bello! Noi non ci pentiamo da noi. Dopo ogni peccato non ci pentiamo. Anzi, il cuore diventa solo più duro e facciamo anche l’abitudine a tutti i peccati]. Se Tu punisci, noi non resistiamo. Tendi la mano a noi che siamo caduti (manum tuam porrige lapsis) [lapsi: un termine della tradizione della Chiesa per dire coloro che tradivano la fede, il peccato più grande, coloro che nelle persecuzioni tradivano la fede]. Tendi la mano a noi che ti rinneghiamo, tu che al buon ladrone, all’assassino pentito, apristi le porte del Paradiso». Come dice sant’Agostino: quando tutti avevano perso la speranza, solo nello stupore di quell’assassino sulla croce, solo in quella commozione di un istante – brevi fide – dell’assassino crocifisso alla sua destra, tutta la speranza del mondo è come stata raccolta, in quello stupore e in quella commozione. Basta così poco da parte nostra, basta lasciarsi commuovere così. Tendi la mano a noi che ti rinneghiamo, tu che all’assassino buono hai aperto la porta del Paradiso.


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