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A VENT’ANNI...
tratto dal n. 04 - 2000

I due tesori della Chiesa...


…sono il deposito della fede e i poveri. Così diceva san Lorenzo, il diacono martire della Chiesa di Roma. Questi due tesori spiegano tutta la vicenda umana di Oscar Romero, il vescovo di San Salvador ucciso il 24 marzo del 1980 mentre celebrava la messa. Nel ventesimo anniversario della sua morte abbiamo raccolto le testimonianze di chi l’ha conosciuto


di Gianni Valente


Una processione svoltasi a San Salvador il 24 marzo scorso, per i venti anni dalla morte di Romero

Una processione svoltasi a San Salvador il 24 marzo scorso, per i venti anni dalla morte di Romero

La sera di San Salvador ha già avvolto la piazza del Salvador del mundo, quando il cardinale americano Roger Mahony conclude la messa e i 50mila presenti cominciano a sciamare lungo l’imponente avenida che porta a plaza Libertad. È una processione, aperta da una croce di fiori bianchi. Si recitano anche le stazioni della Via Crucis. Ma le giaculatorie che dagli altoparlanti scandiscono il cammino assomigliano ai cori ritmati delle manifestazioni popolari: Se ve, se siente, Romero está presente! Qué viva monseñor Romero! Qué viva san Romero de América!
Sono passati vent’anni. Anche allora, era da poco calata la sera del ventiquattro marzo, quando una pallottola blindata ed esplodente calibro 25 spaccò il cuore di monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, mentre celebrava una messa nella cappella dell’hospedalito, l’ospedale della Divina Provvidenza per i malati di cancro che aveva scelto come residenza. Quando il corteo raggiunge la Cattedrale, plaza Libertad è già piena di gente. Le bancarelle vendono poster, magliette e portachiavi con su la faccia timida da parroco meticcio di monseñor. Su un palco, compagnie di teatranti e delegati ecumenici si avvicendano per rendere la loro parte di omaggio alla memoria del vescovo martire.
Una veglia insolita e chiassosa, che chiude sei giorni di celebrazioni in cui ognuno ha potuto ricordare il “suo” Romero. Héctor Silva, il sindaco appartenente all’Flmn (l’organizzazione guerrigliera trasformatasi in partito di sinistra) ha conferito a Romero una postuma cittadinanza onoraria e gli ha intitolato una via, la centralissima avenida dos. Le comunità di base hanno celebrato nella cripta della Cattedrale il vescovo militante, che ogni domenica, alla fine delle omelie, faceva la lista delle vittime, dei torturati e dei desaparecidos. Il misurato arcivescovo Fernando Sáenz Lacalle, sacerdote del clero dell’Opus Dei, nella messa di mezzogiorno alla Cattedrale, ha battuto l’accento sulla salda dottrina e la spiritualità tradizionale di Romero, descritto come un asceta che portava anche il cilicio. Mentre nella messa della sera, in piazza, il cardinale Mahony, arrivato da Los Angeles, ha fatto il ritratto di Romero difensore dei diritti umani.
Venti anni fa, davanti a quel corpo sacrificato nei pressi dell’altare, i cuori si svelarono e si divisero. Nelle case di famiglie dei quartieri-bene si brindò a spumante per l’esecuzione di “quel comunista figlio di puttana”. Durante il funerale, nella piazza davanti alla Cattedrale gremita di gente, cominciarono a esplodere bombe e a sibilare proiettili vaganti. In migliaia, tra grida e pianti, si rifugiarono nella Cattedrale, riempiendola fino a soffocare, mentre le suore recitavano le preghiere della buona morte. Alla fine, seppellito in tutta fretta monseñor, rimasero sulla piazza montagne di scarpe, borse, occhiali perduti da chi fuggiva terrorizzato, e quaranta corpi sanguinanti e tumefatti. «Non si va in cielo da soli. Andando in paradiso, Romero li avrà portati su con sé, come una costellazione di martiri», dice oggi Samuel Ruiz García, il vescovo emerito di San Cristóbal de las Casas, in Chiapas.
A confronto di quel giorno, fa ancor più impressione il consenso unanime e festoso che oggi la Chiesa e i politici del Salvador tributano a Romero. Sul vescovo martire incombe il destino rischioso di diventare un simbolo. Una bandiera cucita su misura che ognuno cerca di tirare dalla sua parte.
Romero durante una celebrazione eucaristica nel 1980

Romero durante una celebrazione eucaristica nel 1980

Ma alle celebrazioni partecipano anche molti testimoni oculari, coloro che hanno vissuto a fianco di monseñor. Ascoltare i loro racconti è il modo più semplice per ripercorrere la sorprendente avventura umana di questo cristiano.

L’elemosina per tutti
Il cafetín dell’Uca, l’Università centroamericana dei Gesuiti, formicola di studenti all’ora della ricreazione. A pochi metri da qui, il 16 novembre 1989, un commando di militari pensò bene di dare il proprio contributo all’anno della fine del comunismo, ammazzando padre Ignacio Ellacuría e cinque suoi fratelli gesuiti, insieme a due domestiche. Ma i ricordi di Gaspar Romero, uno dei fratelli più piccoli di monseñor, che qui ci ha dato appuntamento, guardano più lontano. Raccontano di una famiglia numerosa, di un bambino gracile che suonava il flauto e giocava a fare il prete. Di un paesino della montagna cafetalera, Ciudad Barrios, con un papà telegrafista e una mamma sempre malata. «Mio fratello Oscar» dice Gaspar Romero «è nato il 15 agosto, nella festa dell’Assunta: lo abbiamo sempre considerato un segno, un buon augurio per la sua vita».
Il piccolo Oscar fa il garzone in una bottega di falegname, impara a leggere la musica, fa il pastore delle due mucche della sua famiglia insieme alla sorella Zajda. Ma soprattutto, chi lo conosce, rimane impressionato dalla passione con cui canta in chiesa e recita le sue preghiere. «La sera, quando già ci eravamo tutti coricati, si buttava giù dal letto, dove dormiva con Mamerto, un altro fratello, e si inginocchiava per terra a recitare qualche altra preghiera...». Il sindaco, vedendolo così devoto, punta su di lui perché da quel paesino sperduto esca finalmente un prete. Così, a soli tredici anni, Oscar parte sul dorso di una mula per andare al seminario minore di San Miguel. E alla fine del ’37 dal piccolo Paese dell’America centrale viene spedito a concludere gli studi di sacerdote addirittura a Roma, alla Gregoriana. Nei fine settimana va a insegnare catechismo nelle parrocchie popolari della Città eterna. In quei mesi, ha l’occasione di vedere più volte il vecchio Pio XI, che, poco prima di morire, attende di vedere come il Signore salverà la sua Chiesa. «Questo è il Papa che amo di più» dirà molti anni dopo, da vescovo, pregando sulla tomba di Pio XI.
Quando, alla fine del ’43, il giovane sacerdote Oscar Romero è in viaggio per far ritorno al suo Paese, gli accade una strana avventura: a Cuba, solo perché proveniva dall’Italia, lui e un altro prete suo amico vengono fermati e internati alcuni mesi in un campo di concentramento allestito dal locale dittatore Fulgencio Batista che ha anche lui dichiarato guerra alle potenze dell’asse, per compiacere gli Stati Uniti. Quando, finalmente, raggiunge San Miguel, viene accolto come un eroe di guerra. Il vescovo se lo sceglie come segretario e gli affida subito la parrocchia di Anamoros, dove si venera l’immagine miracolosa di Nostra Signora della pace, a cui Oscar è molto devoto.
Oscar Romero giovane seminarista

Oscar Romero giovane seminarista

Nell’apostolato “nascosto” di San Miguel, Romero passerà ventitré anni. È lì che si intravede ciò che gli sta a cuore. Questo sacerdote timido e con lo sguardo sempre basso appare refrattario a nuovismi teologici. La vera novità, che lo sorprende e lo conforta nei giorni, è la fede del popolo, testimoniata nei gesti più abituali della vita cristiana. Senza inventarsi nulla, nell’attendere alla pratiche più comuni, Romero si rivela vulcanico, pieno di energia e di fantasia. La parrocchia, sotto la sua direzione, diventa un vero e proprio santuario. Anima decine di confraternite. Recita ogni giorno il rosario. Infiamma con la sua predicazione – dall’altare il prete introverso diventa un fiume in piena – la fervida pietà del popolo. Parla di inferno e di paradiso, di morte e di resurrezione, di misericordia e di perdono dei peccati. La sera, stremato da giornate senza sosta, gli succede di addormentarsi in confessionale, o di essere così annebbiato da dare strane penitenze: «Padre, che penitenza mi dà?» gli chiede un giorno una donna. E lui, dall’altra parte della grata: «Reciti cinque pesos!».
Alcuni sacerdoti non lo amano per certe sue asprezze di carattere. Ma la gente gli vuole bene. Le famiglie dei notabili, che apprezzano il prete senza grilli per la testa, rispettoso dell’ordine sociale. Ma soprattutto i poveri. Romero ha imparato dal catechismo che sono loro il tesoro della Chiesa, come diceva san Lorenzo. E a Roma, il vecchio papa Giovanni XXIII ripete ciò che insegna tutta la Tradizione: «La Chiesa quale è e vuole essere è la Chiesa di tutti, ma specialmente la Chiesa dei poveri». Molti anni dopo, per rispondere a chi nella Chiesa si scandalizzerà delle sue scelte concrete, l’arcivescovo Romero spiegherà che questa predilezione è la scelta stessa del Signore, che sempre sceglie di comunicarsi a tutti grazie alla preferenza di un particolare: «Gesù prese realmente la carne d’uomo e si fece solidale con i fratelli nella sofferenza, nel pianto, nei gemiti, nella sconfitta. Sappiamo che non si tratta direttamente di un’incarnazione universale – che è impossibile – ma di una incarnazione preferenziale e parziale: una incarnazione nel mondo dei poveri. A partire da loro la Chiesa potrà essere di tutti, potrà anche prestare un servizio ai potenti attraverso una pastorale di conversione».
Negli anni di San Miguel, guardare Romero vuol dire accorgersi subito che la carità è un dono del cielo, e la sua misura è la sovrabbondanza che non taglia fuori nessuno. Lo ricorda bene Rutilio Sánchez, prete “compañero”, che durante la guerra civile è addirittura scappato in montagna per seguire da sacerdote i suoi amici che militavano nei gruppi dell’insurgencia. Adesso ha qualche problema col vescovo, e gestisce una cooperativa di coordinamento delle imprese economiche delle comunità ecclesiali di base. Racconta a 30Giorni: «I poveracci di San Miguel sapevano che tutti i giorni padre Romero distribuiva elemosine. Facevano la fila fin dal mattino presto. Qualcuno chiedeva: “Ce n’è anche per me, padre mio?”. E lui rispondeva che è legge divina che chiunque chiede riceva. Così, prostitute ed ubriachi e una folla di poveretti, facevano la fila lungo il muro della chiesa. Padre Romero non diceva no a nessuno. Aveva sempre un colón da cacciar fuori dalla tasca della sua sottana nera. Se nascevano bisticci, lui implorava a tutti di stare buoni. Una volta una donna gli disse: “Tanto, buoni o cattivi, domani torniamo lo stesso qui!”. Sì, Romero era un po’ come san Vincenzo de Paoli».

Romero (il secondo da sinistra) con i compagni della squadra di calcio

Romero (il secondo da sinistra) con i compagni della squadra di calcio

«Sii patriota, ammazza un prete»
Il prete timido che allunga qualche moneta ai poveri è lo stesso che pochi anni dopo, dal pulpito della Cattedrale di San Salvador, denuncerà senza sosta davanti al mondo la criminale repressione di tutto un popolo, operata dalle forze militari e dagli squadroni della morte per conto dell’oligarchia salvadoregna. Molti stentano a riconoscere l’armonia nascosta che unisce l’elemosina agli ubriaconi e le prediche irrispettose in cui Romero oserà mettere in conto il martirio del suo popolo alla «realtà oppressiva del capitalismo liberale» e alla politica estera statunitense, grande levatrice dei regimi sanguinari che in quegli anni strangolano tutta l’America Latina. Tra i biografi, c’è chi risolve il caso supponendo una specie di metamorfosi nella vita di Romero, in cui il difensore della causa del popolo avrebbe sostituito il “prete all’antica”. Nella sede dell’arcivescovado, l’indaffarato monsignor Ricardo Urioste, il vecchio amico e collaboratore di Romero (che lo aveva scelto come vicario diocesano) liquida con poche battute ogni equivoco sulla “conversione” di Romero: «So di certo che Romero non aveva letto nessun libro della teologia della liberazione. Ma aveva letto il Vangelo, la Bibbia, e i documenti del Magistero della Chiesa. Aveva il cuore per i poveri, e imparava dalla realtà. Seguendo la realtà, con la stessa fede che aveva imparato da bambino, fu portato dove forse non avrebbe mai immaginato».
In quegli anni, in Salvador, la realtà è intrisa di sangue. Il censimento del 1961 aveva contato 800mila disoccupati e sottoccupati su una popolazione attiva di 2 milioni e mezzo di persone. Aveva descritto un popolo privo per il 73% di acqua potabile, per il 99% di energia elettrica, analfabeta per il 57%, con un 2% di proprietari che possedevano il 60% delle terre. Negli anni Sessanta e Settanta, la rabbia prodotta da un sistema sociale che affama il popolo si esprime in rivolte contadine, proteste sociali e ingrossa le file delle organizzazioni popolari filomarxiste. La reazione dell’oligarchia di fronte anche alle più moderate ipotesi di riforma è feroce. Si affida a regimi golpisti, ai corpi di sicurezza e alle bande paramilitari, che alla metà degli anni Settanta arruolano più di centomila “agenti”. C’è Orden, struttura “legale” attiva fin dagli anni Sessanta per reprimere le turbolenze sociali nelle campagne; nasce la Falange, formata da ex ufficiali in pensione. C’è il gruppo Mano (Movimiento nacional anticomunista organizado) e l’Unión guerrera blanca. Tra i loro scopi sociali, la liquidazione dei preti “terzomondisti”, considerati gli ispiratori della sovversione marxista. «Sii patriota, ammazza un prete», recita uno dei loro slogan di battaglia.
Nello scontro sociale che attraversa tutta l’America Latina, anche l’episcopato latinoamericano, nella sua conferenza di Medellín (1968) ha riconosciuto che la tradizionale preferenza per i poveri può portare fino al sostegno delle lotte di liberazione. Romero all’inizio non simpatizza con l’attivismo sociale che in quella fase assorbe tanti suoi confratelli. Sono noti in tutto il Paese i suoi scontri con chi, secondo lui, riduce la liberazione cristiana a un messianismo politico, a favola religiosa a servizio della rivoluzione. Anche per questo i suoi progressi nella carriera ecclesiastica (segretario della Conferenza episcopale, vescovo ausiliare di San Salvador, vescovo di Santiago de María, e infine, dal febbraio ’77, arcivescovo della capitale) vengono ben valutati se non addirittura favoriti dalle famiglie che contano e dai loro emissari politico-militari. C’è chi spera che sia lui a smantellare la linea pastorale “medellinista” del suo predecessore, Luís Chávez González, e del suo vescovo ausiliare, Arturo Rivera Damas. «Sapevano che lui era buono, e pensavano che sarebbe stato facile manovrarlo», ricorda oggi Rutilio Sánchez. Tutto ciò rende ancor più eloquente ciò che succede negli ultimi anni di Romero.

Un murale dedicato a monsignor Romero a San Salvador

Un murale dedicato a monsignor Romero a San Salvador

Quando la politica tocca l’altare
La chiesa di San Francisco de Asís sorge tra le case basse e precarie del quartiere operaio di Mejicanos. Ogni volta che ci va a messa, il vecchio Alejandro Ortiz, occhi acquosi e sereni, riesce ancora a inginocchiarsi sulla tomba del figlio Octavio, sepolto sotto l’altare. Nella casupola col tetto di lamiera dove abita, lui e l’anziana moglie doña Chón mostrano le foto delle nipotine che vivono in California, e con la stessa letizia raccontano la storia di quel figlio con la faccia da bambino, il martire del Despertar. «È questa la strada dove il Signore ci ha fatto camminare, donando allegria e consolazione», dice Alejandro.
El Despertar era un edificio dove le comunità di base tenevano i loro incontri di formazione cristiana. La sera del 19 gennaio 1979, padre Octavio, il primo giovane a cui monseñor, cinque anni prima, ha imposto le mani per ordinarlo sacerdote, vi giunge con una quarantina di adolescenti. Inizia il ritiro di fine settimana leggendo le parole con cui Gesù inaugura la sua missione pubblica («Lo spirito del Signore è su di me; per questo mi ha consacrato, per annunziare ai poveri un lieto messaggio…»). Poi, dopo un po’ di musica, tutti a dormire. Alle prime luci dell’alba, una colonna di autoblindo circonda l’edificio. E comincia la mattanza. Octavio esce nel cortile, viene freddato da una raffica e una camionetta gli passa sopra sfracellandogli la faccia da bambino. Gli agenti passano stanza per stanza, e ammazzano altri quattro ragazzi. «Fecero ritrovare i corpi sul tetto» ricorda il vecchio Alejandro «e la versione ufficiale ne parlò come di guerriglieri scoperti nel proprio covo, morti in combattimento. Ma le uniche armi che trovarono erano un paio di chitarre e qualche Bibbia. Quella mattina, avevo preso la corriera per andarlo a trovare. Dovevo anche dirgli che la mamma lo aspettava, per andare insieme in pellegrinaggio a Esquípulas, a trovare il Cristo». Suor Carmen Elena Hernández, un passato di militante nei gruppi clandestini, non dimenticherà mai l’immagine di monsignor Romero davanti al corpo distrutto di Octavio: «Padre Ortiz era amico di mio papà. Eravamo all’obitorio, quando arrivò anche monseñor. Dai loro corpi scorrevano ancora rivoli di sangue. Octavio era irriconoscibile. Romero si buttò in ginocchio e prese tra le mani quella sua testa distrutta. Piangeva, mentre la veste gli si inzuppava di sangue, e ripeteva: “Octavio, figlio mio, figlio mio...”».
I tre anni di Romero arcivescovo di San Salvador sono tutti intessuti in questo ordito di sangue, torture e persecuzioni. A partire dall’agguato a Rutilio Grande, il gesuita suo amico impegnato a fianco dei campesinos, che gli squadroni ammazzano il 12 marzo ’77 insieme a due suoi accompagnatori, un pensionato e un giovinetto epilettico, mentre si reca alla cittadina di El Paisnal per una novena in onore di san Giuseppe. Monseñor è arcivescovo di San Salvador da soli venti giorni. Alla cerimonia di consacrazione, aveva chiesto proprio a padre Rutilio di fargli da cerimoniere. Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta cadranno vittime della repressione diciotto sacerdoti e quattro suore, insieme a decine di catechisti e a centinaia di cattolici delle comunità di base. Romero, dopo l’assassinio di Rutilio, cita l’insegnamento del “suo” Pio XI: la missione della Chiesa non è certo politica, «ma quando la politica tocca l’altare, la Chiesa difende l’altare».

Il cardinale Roger Mahony durante la celebrazione della messa a San Salvador per il XX anniversario della morte di Romero

Il cardinale Roger Mahony durante la celebrazione della messa a San Salvador per il XX anniversario della morte di Romero

Un umile catechista
Gesù Cristo, dice Romero in una delle sue prediche più famose, «manifesta la sua gloria nella felicità degli uomini». Gli uomini e le donne che si stringono intorno a monseñor, chiedendogli aiuto o consolazione, hanno spesso da mostrargli i segni delle torture, le foto dei figli ammazzati, l’angoscia per quelli desaparecidos. Vanno a chiedere il suo aiuto anche i ricchi, magari di notte per non farsi vedere, quando la guerriglia sequestra qualche loro congiunto per chiedere il riscatto. Mentre studenti, sindacalisti, contadini spariscono su auto blindate dai vetri oscurati. E la mattina c’è sempre da riconoscere i corpi disfatti e mutilati che riappaiono tra l’immondizia della periferia. «A me tocca il destino di andar raccogliendo violenze e cadaveri e tutto quello che lascia dietro la persecuzione della Chiesa», dice Romero una volta che lo chiamano ad Aguilares, dopo che la milizia ha messo a ferro e fuoco il paese, ammazzato cinquanta campesinos e profanato la parrocchia, “covo di marxisti infiltrati”, calpestando le ostie con gli scarponi.
Tutta questa attualità rovente, che ha a che vedere con la felicità e le sofferenze degli uomini in carne e ossa, straripa nelle sue interminabili omelie. Il tesoro della fede, la grazia donata nei sacramenti, la pietà e la devozione per i santi, sono reali se fioriscono nella storia, nella condizione reale degli uomini, come inizio di salvezza e di liberazione. «In nome di Gesù» dice Romero in un suo famoso discorso all’Università di Lovanio, il 2 febbraio 1980, «sarebbe una pura illusione, una ironia e, in fondo, la più profonda delle bestemmie, dimenticare e ignorare i livelli primari della vita, la vita che comincia con il pane, il tetto, il lavoro».
È per questo che monseñor si sporca le mani nel conflitto sociale che dilania il Paese. Dà notizia delle sparizioni, delle torture, delle stragi. Si azzarda sul terreno scivoloso del giudizio storico. Osa fare nomi e cognomi per descrivere quell’oppressione dei poveri che, come insegna il Catechismo di San Pio X, grida vendetta al cospetto di Dio. Militanti e giornalisti entrano in chiesa quando inizia la parte di omelia che tratta dell’attualità. E lui si arrabbia. Non gli va di esser preso come l’agit-prop di una nuova teoria politica. Dice di sé: «Non ho preteso di essere altro che un umile catechista, niente di più». Spiega padre Rafael Urrutia, parroco della chiesa de la Resurreción, che di monseñor fu anche segretario: «In quel contesto, Romero aveva a cuore due cose: la difesa della Chiesa, e la difesa dei poveri come parte della Chiesa, la parte più preziosa. Anche i suoi interventi più estremi contro l’oligarchia e la repressione partivano da lì».
Romero applica all’inferno di quegli anni gli insegnamenti della Tradizione. Ricorre a sant’Agostino e a san Tommaso, per giustificare chi si solleva contro le leggi oppressive. Cita la Populorum progressio di Paolo VI, che riconosce legittima l’insurrezione «nel caso, del tutto eccezionale, di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti della persona e provochi gravi danni al bene comune».
Un giorno, nella Cattedrale stracolma di gente, comincia a raccontare: «Un tale mi ha detto: “Invece di fare discorsi incendiari, perché lei non legge direttamente il Vangelo?”. Oggi, io potrei non fare altra omelia che leggere il testo di san Giacomo: “Avete ammassato ricchezze proprio in questi giorni ultimi! Ecco, il salario da voi frodato ai braccianti che hanno mietuto le vostre terre grida contro di voi. E il grido dei mietitori è giunto sino all’orecchio del Signore degli eserciti... Vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto e lui non può opporre resistenza”». Nella Cattedrale si leva un applauso spontaneo. E lui: «Sia chiaro che state applaudendo san Giacomo... Dunque quando ci criticano dicendo che noi diciamo cose incendiarie, noi rispondiamo: non stiamo facendo altro che ricordare un principio che è stato dimenticato».
Ancora un momento delle celebrazioni del ventennale della morte di Romero

Ancora un momento delle celebrazioni del ventennale della morte di Romero

La difesa dei poveri rimane il criterio di giudizio delle cose politiche. Per il resto, pur manifestando simpatia e comprensione per le lotte delle organizzazioni popolari, Romero riafferma anche la tradizionale neutralità e «l’incompetenza» della Chiesa nei confronti degli ordinamenti mondani in conflitto. Dice in un’omelia della fine del maggio ’79: «Le congiunture politiche mutano, ma la Chiesa non può essere un giocattolo del va-e-vieni delle congiunture. […] L’amore cristiano attraversa le categorie di tutti i regimi e sistemi. Se oggi è democrazia, se domani è socialismo, se poi è un’altra cosa, ciò non è competenza della Chiesa. Siete voi a doverlo decidere, voi che siete popolo, voi che avete il diritto di organizzarvi in libertà. Organizzatelo voi, il sistema sociale».
Avendo a cuore solo la fine delle sofferenze del popolo, Romero critica anche «l’idolatria dell’organizzazione» dei movimenti rivoluzionari, quando la scelta di arrivare al potere con le armi crea ostacoli a una soluzione pacifica de conflitto. Nell’ottobre del ’79 un gruppo di giovani ufficiali mette in atto un golpe, promettendo di smantellare i corpi di sicurezza e avviare le riforme sociali. L’arcivescovo esorta tutti a un’apertura di credito: «Questa non è ora da guerriglieri. Oggi, mentre tutti vengono chiamati a un dialogo aperto, la guerriglia e tutto ciò che semina violenza, clandestinità, sono fuori posto». La risposta, da una parte e dall’altra, è un incrudelimento dello scontro, con l’effetto di far saltare ogni ipotesi di compromesso. «Sembra che la sinistra sia diventata più repressiva delle repressioni che prima denunciava», annota Romero nel suo diario.

Oscar “Marxnulfo”
All’hospedalito, l’ospedale della Divina Provvidenza, le tre stanzette in cui Romero risiedeva sono diventate un piccolo museo. Tra i suoi libri, sugli scaffali, ce ne sono un paio su papa Luciani. Sulla piccola scrivania, il magnetofono dove la sera registrava i fatti e gli incontri della sua giornata. In una vetrina, il messale, il rosario, e la camicia e la casula che indossava durante la messa del suo martirio, con il foro della pallottola e la grossa macchia di sangue rappreso. In una cornice sul comodino, di fianco al letto, anche la foto di Paolo VI è la stessa di allora. Si legge nel diario di Romero, dopo le parole di conforto che papa Montini gli ha rivolto nel loro ultimo incontro: «Roma è casa propria per colui che ha fede e senso di Chiesa. Roma è la patria di tutti i cristiani. C’è il Papa, che è il vero padre di tutti. L’ho sentito così vicino: parto così riconoscente verso di lui che il cuore, la fede, lo spirito, continuano ad alimentarsi da questa roccia, dove l’unità della Chiesa è così palpabile».
Questo pastore così devoto alla Chiesa, la stampa governativa del Salvador lo ribattezza “Marxnulfo”. Il maggiore Roberto D’Abuisson, il più sanguinario leader della repressione, spiega alla televisione: «Questi comunisti vestiti da preti hanno organizzato una cosa che si chiama Chiesa popolare, che non è la nostra Chiesa del Vaticano, la Chiesa che è guidata dal Papa, la Chiesa in cui noi crediamo». Ma i colpi più dolorosi per Romero gli vengono dall’interno della Chiesa. Nel gennaio ’79, durante la riunione degli episcopati latinoamericani a Puebla, un vescovo salvadoregno sostiene in conferenza stampa che Romero si è lasciato influenzare dai preti marxisti e mette in pericolo l’intera Chiesa del Salvador, perché si crede «il grande profeta del continente». Qualche mese dopo, quattro dei sei vescovi del Salvador riversano il loro livore in un dossier contro il loro confratello, ormai sulla lista nera degli squadroni della morte, e lo inviano in Vaticano. Nel documento si parla di un Romero che impone una pastorale marxista, «incita alla lotta di classe, alla radicalizzazione del mondo campesino e delle classi lavoratrici, alla rivoluzione e alla costituzione di un governo socialista di contadini e di operai. […] Altera la figura di Gesù Cristo nostro Signore, ritraendolo come un sovversivo, un rivoluzionario e un leader politico». Anche sulle esecuzioni dei sacerdoti si dà per buona la versione gradita alle forze di sicurezza: Rutilio Grande sarebbe stato ammazzato dai suoi ex amici guerriglieri come un traditore. E Octavio Ortiz addestrava i fanciulli alla guerriglia, ed è morto «con la pistola in pugno».
Romero celebra l’Eucarestia sulla spiaggia di El Cuco, nella regione di San Miguel, nel 1948

Romero celebra l’Eucarestia sulla spiaggia di El Cuco, nella regione di San Miguel, nel 1948

Le campagne diffamatorie fanno effetto Oltretevere. Negli ultimi mesi di vita di Romero verranno inviati a San Salvador due visitatori apostolici, uno dei quali era il vescovo argentino (poi arcivescovo di Buenos Aires e cardinale) Antonio Quarracino. Già nell’aprile ’79 Romero registra nel suo diario che in un’udienza con papa Wojtyla a Roma si è parlato dell’ipotesi di sollevarlo dalla sua carica e affidare l’arcidiocesi di San Salvador a un amministratore apostolico sede plena. Il cardinale Baggio, in quegli anni prefetto della Congregazione dei vescovi, dopo la morte di Romero confiderà al vaticanista Giancarlo Zizola: «Romero era un uomo poco intelligente, debole... si faceva trascinare da un gruppo di gesuiti […]. Mi dava l’impressione di essere ormai, anima e corpo, plagiato, in balia di altri, al punto di non accettare più consigli alla moderazione». Ad aumentare l’allarme in alcuni settori vaticani contribuisce uno degli ultimi gesti di Romero: la lettera rivolta al presidente statunitense Jimmy Carter che monseñor legge durante l’omelia il 17 febbraio, in cui lo implora di sospendere le forniture militari antiguerriglia alla giunta di governo del Salvador che in quei giorni erano state annunciate dalla stampa. Racconta oggi monsignor Ricardo Urioste: «In quegli anni di guerra fredda, la lotta al comunismo sembrava la priorità nella missione della Chiesa. Sono certo che questo ha contribuito alle incomprensioni sui gesti e le parole di monsignor Romero. Quando venne a Roma, il Santo Padre gli disse che doveva stare attento ai comunisti, e di opporsi anche a parole al comunismo. E lui rispose che in quel momento, parlare in Salvador contro il comunismo significava dire alle forze di sicurezza che potevano uccidere tutti quelli che loro accusavano di essere comunisti». In quei mesi Urioste rimase colpito da un episodio emblematico: «In quel periodo, Romero inviò una lettera molto riservata al Papa sulla situazione del Paese e della Chiesa del Salvador. Meno di due settimane dopo, un funzionario dell’ambasciata Usa mi fa vedere una copia di quella missiva riservata, e mi dice: “Tu la conosci, questa?”. All’ambasciata Usa del Salvador avevano la lettera che monseñor aveva inviato al Papa. Come era possibile?».

Il regalo più grande
Davanti alla tragedia che sembra senza uscita, proprio come Pio XI Romero attende di vedere come il Signore salverà il suo popolo. Il 20 gennaio dell’80, a messa, si legge il Vangelo delle nozze di Cana: «Gli sposi non hanno più vino», dice Maria. L’arcivescovo commenta: «Potremmo cambiare questa frase parlando di tante altre necessità umane: non abbiamo pane; non riusciamo a trovare un cammino per la nostra patria; dovunque, angoscia, violenza, disordine! Ma per Maria l’angustia è piena di speranza perché sente che nel Figlio che è lì con lei c’è colui che può risolvere ciò che non è umanamente risolvibile. Ah, se noi salvadoregni sapessimo dire a Gesù con la fiducia di Maria l’angoscia di quest’ora, non con pessimismo o con disperazione, ma con la fiducia di un’assoluta inermità che si affida a un’assoluta onnipotenza!».
Il giorno della consacrazione episcopale di monsignor Romero, il 21 giugno 1970

Il giorno della consacrazione episcopale di monsignor Romero, il 21 giugno 1970

Domenica 23 marzo, un giorno prima di essere ucciso, fa clamore la supplica che dal pulpito Romero rivolge ai soldati e agli uomini dei corpi di sicurezza, legittimando la scelta della disobbedienza: «Fratelli! Siete del nostro stesso popolo! Ammazzate i vostri fratelli campesinos! Davanti all’ordine di ammazzare dato da un uomo, deve prevalere la legge di Dio che dice: “Non ammazzare!”. Nessun soldato è tenuto a obbedire a un ordine che va contro la legge di Dio. […] In nome di Dio, allora, in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione!». Dopo la messa, va a pranzo dalla famiglia Barraza, genitori e tre bambini, come gli capita spesso di fare nei giorni festivi. Ma appare teso, silenzioso. Non si ferma a guardare i cartoni animati in tv con i bambini, come faceva di solito.
Il giorno dopo, nel primo pomeriggio, incontra di nuovo Salvador Barraza, e gli dà l’incarico di far allestire, fuori dalla Cattedrale, una piattaforma di legno per le cerimonie della domenica delle Palme: «Ma non spendere troppo, hombre». Poi, alle quattro, va a trovare il suo confessore. Alle sei di sera, ha promesso al suo amico giornalista Jorge Pinto di celebrare alla cappella dell’hospedalito una messa in memoria della mamma morta un anno prima. Qualche giorno prima, di quella messa privata era uscito l’avviso sul giornale. Racconta suor Luz Chuevos delle Figlie della Divina Provvidenza, che allora era la direttrice dell’hospedalito: «Quando vedemmo l’inserzione, ci parve una cosa molto imprudente. Tutti sapevamo che lo volevano ammazzare. E adesso, chi lo voleva far fuori, sapeva dove trovarlo. In molti telefonarono per chiedere a monseñor di non celebrare quella messa, ma lui rispondeva: “Ho preso l’impegno. Se non è giunta la mia ora non succederà niente. Ma se succede qualcosa, sono nelle mani di Dio”».
Alle 18,25 Romero termina la sua breve omelia, in cui, ricordando la mamma del giornalista, commenta il brano del Vangelo di Giovanni: «Se il granello di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produrrà grande frutto». Annota Ettore Masina nel suo libro L’Arcivescovo deve morire: «Nella cappella ci sono Jorge Pinto, i suoi familiari, le suore, qualche povera donna del vicinato. Sono tutti volti notissimi all’arcivescovo; e la chiesa non è grande. Quando entra lo sconosciuto, che rimane nel fondo, e nasconde dietro di sé un fucile di precisione, monsignore non può non vederlo».
Racconta ancora Luz Chuevos: «Finita l’omelia, passò al centro dell’altare. Stava stendendo il corporale, quando lo raggiunse il proiettile che veniva dalla porta principale. Sembrò come se fosse scoppiata una bomba, forse per la vicinanza del microfono. Per tutti noi fu un dolore immenso, ma per monseñor, terminare la sua vita ai piedi di Gesù, lì dove avevano programmato quelli che lo ammazzarono, credo che sia stato il più grande regalo che Dio gli ha fatto».





Paolo VI stringe la mano a monsignor Romero in Vaticano durante l’udienza per i vescovi del Salvador, il 21 giugno 1978.

Paolo VI stringe la mano a monsignor Romero in Vaticano durante l’udienza per i vescovi del Salvador, il 21 giugno 1978.

DOCUMENTO. Dagli scritti di Romero

In Lui è la mia vita e la mia morte

Un mese prima di morire monsignor Romero partecipa a degli esercizi spirituali. Riportiamo alcune annotazioni scritte in quei giorni nei suoi quaderni.

«L’altra mia paura riguarda i rischi che corre la mia vita. Mi costa accettare una morte violenta, ben possibile in queste circostanze: perfino il signor nunzio del Costa Rica mi ha avvertito di pericoli imminenti per questa settimana […].

Le circostanze conosciute si vivranno con la grazia di Dio. Lui ha assistito i martiri e se è necessario lo sentirò vicinissimo nell’offrirgli il mio ultimo sospiro […].

Così concreto la mia consacrazione al Cuore di Gesù che fu sempre fonte di ispirazione e di allegria cristiana nella mia vita. Così anche pongo sotto la sua amorevole provvidenza tutta la mia vita e accetto con fede in Lui la mia morte per difficile che sia. Né voglio darle una intenzione come desidererei per la pace del mio Paese e per il fiorire della nostra Chiesa… perché il Cuore di Cristo saprà darle il destino che desidera. Per essere felice e per confidare mi basta sapere con sicurezza che in Lui è la mia vita e la mia morte, che, nonostante i miei peccati, in Lui ho riposto la mia fiducia e non resterò confuso e altri proseguiranno con più sapienza e santità a lavorare per la Chiesa e per la patria…».


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