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VIRTÙ CARDINALI
tratto dal n. 11 - 2000

È la prudenza la vera ragion pratica


Per Aristotele la prudenza era la più grande virtù del politico, la capacità di vedere le cose buone per sé e per gli altri uomini. Per san Tommaso essa guidava le altre virtù verso il giusto mezzo. Kant invece la relegò fuori dalla sfera morale


di Giovanni Franchi


La cultura moderna ci ha abituati oramai a numerosi paradossi: uno dei più stridenti è certamente quello “etico”: pur essendo diventato fin dall’epoca del Rinascimento e della rivoluzione scientifica il fulcro dell’universo, l’uomo ha disimparato a conoscere se stesso e le modalità con cui egli si relaziona al mondo e ai suoi simili. Di fronte alle crescenti sfide della “globalizzazione” (culturali, economiche, tecnologiche ecc.) e ai rischi che un tale processo porta con sé (politici, ambientali, biologici ecc.), egli è letteralmente incapace di agire. Questa condizione è l’esito ultimo di una concezione filosofica e, in senso più generale, culturale, che ha pensato di raggiungere il bene per l’uomo e la collettività attraverso lo strumento delle scienze naturali: secondo una tale dottrina, infatti, lo “sviluppo” ed il “progresso” sono raggiungibili solo attraverso la conoscenza empirica del rapporto causa-effetto tra oggetti, l’estrapolazione da esso di alcune regolarità, la formulazione di leggi e l’uso di queste per progetti di trasformazione economico-sociale nei quali la sfera dell’agire individuale va perduta o, tutt’al più, diventa marginale. In tal modo si è giunti nel nostro secolo al macabro fenomeno dei regimi “totalitari” nei quali alcuni uomini, in nome di una presunta verità scientifica, hanno potuto pianificare lo sterminio sistematico di altri uomini, giudicandolo necessario al raggiungimento di un bene futuro.
Negli ultimi cinquant’anni, la civiltà del capitalismo mondiale, si è, però, tutt’altro che affrancata da tali pericoli: in modo sempre più convinto domina in essa l’idea che il bene, la salvezza, giunga dal sapere rigoroso. Le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche vanno subito ad alimentare le potenzialità di un sistema economico nel quale l’uomo il più delle volte è destinato a giocare il ruolo di semplice tramite di sollecitazioni merceologiche che lo impegnano meccanicamente e solo nelle sfere meno coscienti ed elevate del suo essere. Le grandi conquiste della scienza non garantiscono da sole la piena dignità dell’uomo perché non tengono conto della dimensione più propria del suo agire, cioè di quella morale, che implica la capacità di deliberare bene, di farlo cioè in prima persona, responsabilmente. Questo è l’ambito della prudenza.

Allegoria di tre delle quattro virtù cardinali: la fortezza, la prudenza e la temperanza (manca la giustizia), 
Raffaello, Stanza della Segnatura, Vaticano

Allegoria di tre delle quattro virtù cardinali: la fortezza, la prudenza e la temperanza (manca la giustizia), Raffaello, Stanza della Segnatura, Vaticano

Le origini: la phrónesis in Aristotele
L’esigenza di una autonoma trattazione del tema della buona deliberazione, ossia della prudenza, è avvertita fin dall’epoca della filosofia classica dei Greci. In polemica col suo maestro Platone (427-347 a.C.), Aristotele (384-322 a.C.) è stato il primo tra i pensatori d’Occidente a distinguere esplicitamente la scienza dalla morale1. Nell’Etica Nicomachea lo Stagirita afferma che il fine dell’uomo è la felicità; egli sostiene che esistono due diverse fonti di felicità: quella data dalla contemplazione e quella che, invece, è propria della vita in comune con gli altri uomini. Il raggiungimento di una felicità consiste nella realizzazione dello specifico presupposto ontologico insito nell’anima umana: in questo “portare a compimento” consiste il buon agire, ossia la virtù. Esistono dunque due distinti tipi di virtù: quelle “dianoetiche”, che riguardano le verità incontrovertibili della ragione (gli “universali”), e quelle “etiche” che, invece, hanno a che fare con la realtà umana, con ciò che è buono o giusto per essa, e, quindi, non possono giungere al rigore delle prime. Tra le virtù dianoetiche Aristotele colloca l’intelletto che consiste nell’intuizione dei principi primi e indimostrabili della ragione, la scienza che riguarda il procedimento logico della ragione e la sapienza, l’unione armonica delle prime due; tra le virtù etiche, invece, troviamo la giustizia, il coraggio, la liberalità, ecc. Aristotele ritiene che per acquisire le virtù etiche non sia necessario essere sapienti: l’importante è venire educati, nel tempo, al buon agire, cioè alla ricerca del “giusto mezzo” tra l’eccesso ed il difetto. In questo contesto è evidente come la convivenza, la comunicazione e la tradizione si rivelino necessarie alla formazione dell’uomo virtuoso. Ma qual è il rapporto tra le virtù dianoetiche e quelle etiche? Lo Stagirita dà implicitamente una risposta ad un tale quesito per mezzo del concetto di phrónesis2: questa è, infatti, la virtù che media tra il piano della teoria e quello della pratica e riveste, quindi, un ruolo centrale nella sua antropologia e nella sua dottrina morale. Secondo il padre della scuola peripatetica la frónhsiw è una virtù dianoetica, cioè teoretica, ma dotata di una natura particolarissima: pur legata agli “universali”, essa è rivolta parimenti alla realtà contingente, ai “particolari”, che possono esserci oppure no, e sui quali solamente è possibile deliberare. La prudenza è quindi una virtù intellettuale che ha a che fare con una deliberazione: «prudente» afferma infatti Aristotele è «l’esser capace di deliberare bene sulle cose che sono buone e vantaggiose»3. Ma cosa significa deliberare? Nell’Etica Nicomachea è riportato un sillogismo “pratico” che può aiutarci: alla legge universale che costituisce la premessa maggiore: «Le carni leggere sono salutari per l’uomo», deve seguire la premessa minore: «Le carni d’uccello sono leggere», per poter poi trarre la conclusione: «Le carni d’uccello sono salutari per l’uomo». Ora, Aristotele nota che chi conosce la legge universale (la natura salutare delle carni leggere) ma è privo della conoscenza del particolare (l’identificazione delle carni d’uccello come carni leggere) non giungerà ad alcuna conclusione in merito a ciò che concretamente è salutare; chi, al contrario, ignora la legge universale e conosce solo quella particolare (la natura leggera e quindi salutare della carne d’uccello) è comunque avvantaggiato4.
Un ulteriore punto dell’analisi aristotelica, molto importante ancora per noi oggi, è il confronto tra la frónhsiw da un lato e la politica e la produzione tecnica dall’altro. Per lo Stagirita, la politica e la frónhsiw, pur diverse nell’essenza sono rivolte entrambe all’ambito delle cose umane: per questo egli rifiuta l’ideale platonico del filosofo-re – che presuppone l’identificazione di sapienza e politica – e tesse invece le lodi di un personaggio storico, Pericle, e di tutti quei frónimoi che sono «capaci di vedere le cose che sono buone per loro e quelle che lo sono per gli uomini… tali sono gli uomini che governano le case e le città»5. Infine, viene messa in evidenza la differenza tra la frónhsiw e la produzione tecnico-artistica. Mentre l’agire che caratterizza la prima tende solo a se stesso (la virtù non sta, infatti, in un fine al di là dei mezzi ma proprio nel modo in cui si raggiunge un tale fine), il “fare” tecnico, invece, è finalizzato alla creazione di un oggetto indipendente, destinato a separarsi da chi lo crea.

La prudentia dall’antichità alla filosofia di Tommaso d’Aquino
È con Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) che il concetto di frónhsiw viene tradotto per la prima volta in latino con prudentia6. Nel trattato Sui doveri la prudenza è distinta dalla sapienza, ma assieme a questa è inserita, con la giustizia, la fortezza e la temperanza, tra le quattro virtù principali, fonti di ogni dovere, secondo un modello presente già in Platone7. Nella tarda antichità, i padri della Chiesa daranno a queste quattro virtù il nome di “cardinali” (sant’Ambrogio), a cui affiancheranno altre tre virtù, dette “teologali” (fede, speranza, carità), che rappresentano un dono della grazia divina. Un nuovo interesse per la virtù della prudenza coincide con la ripresa dello studio di Aristotele in Occidente, nel XIII secolo: se ne occupano sant’Alberto Magno (1205ca.-1280), che però non conosce il VI libro dell’Etica Nicomachea8, e soprattutto san Tommaso d’Aquino (1225ca.-1274), che dedica all’argomento un trattato nell’ambito della Summa theologiae, e alcune importanti considerazioni nel suo commento all’Etica Nicomachea9. Con Tommaso possiamo affermare che la definizione “classica” di prudenza trova la sua piena sistemazione. Per comprendere il ruolo centrale che nell’etica di Tommaso gioca la prudenza bisogna prendere in considerazione la concezione che egli ha della scelta e, quindi, della libertà umana. Per l’Aquinate, come già per Aristotele, l’uomo possiede due facoltà spirituali che è in grado di orientare al bene: l’intelletto (per il bene teorico) e la volontà (per il bene pratico): la terza, rappresentata dai sensi, resta, invece, fuori dall’ambito dell’“etica”. La scelta, sostiene Tommaso, è propria della volontà che – come si è già visto – in sé è già orientata al bene. Ma per scegliere rettamente, la volontà ha bisogno dell’intelletto che la deve “illuminare”, giudicando ciò che va fatto e ciò che, invece, va evitato: una tale “illuminazione morale” Tommaso la chiama sinderesi10. La scelta è così un tutt’uno di intelletto e volontà. Quest’unione passa attraverso il “giudizio pratico”, cioè attraverso quell’attività della ragione che è in grado di mediare tra la norma generale e la conoscenza del caso particolare e che è, appunto, la prudenza11. Definita, quindi, come la «retta ragione dell’agire» (recta ratio agibilium), la prudenza è considerata anche l’«auriga delle virtù» perché, pur non avendo un fine suo proprio, le spetta il compito fondamentale di indirizzare tutte le altre virtù verso il «giusto mezzo»12.

Il tramonto della prudenza e la filosofia moderna
La dottrina morale di Tommaso d’Aquino stabiliva, come si è visto, un saldo legame tra l’opera dell’intelletto e quella della volontà: questo mirabile equilibrio viene meno nel XIV secolo con il “nominalismo”. È soprattutto Guglielmo di Ockham (1280-1349 ca.) a contestare l’idea che la volontà sia già di per sé orientata al bene, e che quindi le scelte che l’uomo compie liberamente siano radicate in una verità di ragione che le precede. I “nominalisti” negano, in pratica, l’idea di una “libertà di qualità” (intesa come arbitrio di fare o meno un bene conoscibile per mezzo dell’intelletto) e affermano, invece, una “libertà di indifferenza” (come semplice possibilità di scegliere tra contrari)13. La grande frattura tra intelletto e volontà, tra teoria e prassi, che caratterizza la Scolastica tardo-medievale, ha conseguenze importantissime che giungono fino alla nostra epoca e ha condizionato la sorte di una virtù come la prudenza, il cui compito è proprio quello di mediare tra le due differenti sfere. Dalla “frattura” nominalista, infatti, nasce, da un lato, la riduzione “moderna” della prudenza a semplice “accortezza” o “astuzia” individuale finalizzata alla sopravvivenza in un mondo ostile, come, ad esempio, nel gesuita spagnolo Baltasar Gracián (1601-1658) («Gareggi la circospezione del prudente con l’attenzione dell’osservatore…»14); dall’altro, la sua esautorazione dal ruolo di guida per le scienze politiche e del diritto: se Aristotele aveva messo in stretta relazione frónhsiw e politica, e Tommaso d’Aquino aveva parlato specificamente di una “prudenza politica” il cui fine è il bene della società15, il moderno pensiero politico, liberatosi dai condizionamenti dei principi morali, trova il suo fondamento nella volontaristica “libertà di indifferenza” dei singoli individui empirici e può così dare vita al giusnaturalismo “contrattualista”16. A partire da Thomas Hobbes (1588-1679) prende inoltre sempre più piede un indirizzo di pensiero che cerca di studiare la politica attraverso un metodo rigoroso, improntato ai principi matematici e delle scienze naturali. Assistiamo, così, al passaggio dalla classica prudentia civilis o prudentia politica alla illuministica scienza camerale, nella quale diventa centrale l’operare tecnico dei governi per il benessere economico e sociale delle nazioni17.
Un vero e proprio “colpo di grazia” alla virtù della prudenza lo infligge Immanuel Kant (1724-1804) nella sua Fondazione della metafisica dei costumi. Per il filosofo prussiano il principio supremo della morale è la piena autonomia della volontà individuale. Questa si esprime in un «imperativo categorico» «a priori»: «Agisci solo secondo quella massima mediante la quale tu puoi insieme volere che diventi una legge universale»18. La prudenza (Klugheit), che da Kant è definita «l’abilità nella scelta dei mezzi per il proprio benessere massimo»19, ha una natura “eteronoma”, “a posteriori” (dipende, cioè, da un fine esterno alla volontà), ed è, di conseguenza, relegata fuori della vera e propria sfera morale, in prossimità della semplice abilità tecnico-pratica20.

La “riabilitazione della filosofia pratica” e le vie per un recupero della prudenza
Il trionfo dei principi illuministici e positivistici nelle scienze morali e politiche coincide con il pieno oblio della prudenza e, più in generale, dello studio delle virtù. Solo sul finire del XIX secolo c’è un parziale ritorno alla filosofia antica e medievale: in ambito cattolico papa Leone XIII fa del pensiero di Tommaso d’Aquino la dottrina filosofica e teologica ufficiale della Chiesa (enciclica Aeterni Patris, 1879). L’impostazione ancora fortemente razionalista e dogmatica del neotomismo impedisce però uno specifico interesse per l’etica e per la “ragione pratica”: si dovrà aspettare, infatti, il 1936 perché il filosofo tedesco Josef Pieper (1904-1997) dedichi un breve ma importante saggio proprio alla prudenza, nell’ambito di una tetralogia di scritti sulle virtù cardinali21. Contemporaneamente, in ambito “laico” si assiste, agli inizi del XX secolo, soprattutto in Germania, ad un rinnovato interesse per il pensiero antico, tanto da far parlare addirittura di un “neoumanesimo tedesco” (U. von Wilamowitz-Moellendorff, W. Jaeger, P. Natorp ecc.)22. In questo contesto Max Scheler (1874-1928) e Nicolai Hartmann (1882-1950) elaborano una dottrina morale fondata sull’intuizione di “valori” oggettivi23, mentre Othmar Spann (1878-1950) parla esplicitamente delle virtù come dell’orientamento umano alla perfezione24.
È però col secondo dopoguerra che si sviluppa in modo più approfondito e coerente un interesse per l’etica antica e, quindi, anche per il problema delle virtù. Grazie alle opere di autori quali Leo Strauss (1899-1973), Eric Voegelin (1901-1985) e Hannah Arendt (1906-1975) è potuto sorgere in Germania, nell’ambito del pensiero politico, un movimento che ha preso il nome di «riabilitazione della filosofia pratica» (K.-H. Ilting, H. G. Gadamer, J. Ritter, M. Riedel ecc.) che fa riferimento alla frónhsiw di Aristotele in opposizione allo scientismo marxista e neopositivista25. In Francia, Pierre Aubenque ha dedicato un saggio alla prudenza in Aristotele26; in Inghilterra Gertrude Anscombe e Georg H. von Wright, entrambi allievi di Ludwig Wittgenstein, in opposizione al modello “nomologico-deduttivo” dei neopositivisti hanno dato vita ad una logica fondata sul sillogismo pratico, mentre negli Stati Uniti, Alasdair MacIntyre, con Dopo la virtù (1981)27, è diventato uno dei protagonisti della svolta della filosofia anglosassone verso una ripresa di tematiche umanistiche e metafisiche. Infine, anche in Italia, dopo la lunga stagione del neoidealismo, si è assistito ad una rinascita d’interesse per la filosofia antica, soprattutto con Giovanni Reale dell’Università Cattolica di Milano, che si è occupato con la sua scuola principalmente di Platone, e con Enrico Berti, già allievo di Marino Gentile e professore a Padova, attualmente uno dei più importanti studiosi del pensiero di Aristotele.
In che modo, ci possiamo chiedere a questo punto, è possibile quel pieno recupero del ruolo della prudenza nel metodo delle scienze filosofiche e sociali che ancora non c’è stato? Certamente esso deve passare attraverso una riconsiderazione dell’importanza delle virtù nell’ambito di un’antropologia fondata filosoficamente. In secondo luogo, poi, anche attraverso una riscoperta della loro centralità in ogni agire politico e sociale che non rinunci né a un fondamento razionale, né a una distinzione dal semplice “fare” della tecnica: in questa direzione si sono mossi, negli ultimi anni, alcuni autori28. Inoltre, è importante riconoscere la correttezza logica del ragionamento prudente, cioè del sillogismo pratico, correttezza che ha trovato oramai ampi riconoscimenti come, ad esempio, nello stesso Berti29. D’altronde, lo sbocco specificamente pratico di un tale ragionamento, necessario alla vita civile e politica degli individui, sembra, infine, che non possa essere realizzato in pieno da chi, pur in parte all’origine della stessa “riabilitazione” della filosofia pratica, come Hans Georg Gadamer, della frónhsiw ha accentuato in particolare il momento dell’“interpretazione”, cioè dell’interrogarsi storico e sempre “aperto” sull’oggetto (ermeneutica), a discapito di un’inderogabile risposta razionale in grado di qualificare l’agire e rendere responsabili dei suoi effetti30.


Note:
1 Nella Politeia Platone identifica la prudenza con la sapienza: cfr. Platone, Politeia, IV, 427 d- 429 a.
2 L’origine del termine frónhsiw ci porterebbe lontano: basti tenere presente che, ancora nei poemi omerici, il sostantivo plurale frÄnew indica una parte del corpo, il diaframma, nel quale l’uomo è colpito da “impressioni vivaci”. Progressivamente, le frÄnew acquistano un connotato etico, avvicinandosi all’idea di una percezione immediata di ciò che è assennato fare. Cfr. B. Snell, Il cammino del pensiero e della verità. Studi sul linguaggio greco delle origini, a cura di G. Calboli, Ferrara 1991, p. 63 e segg.; cfr. anche Id., La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 1963, p. 226 e segg. e M. Detienne-J.-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Bari 1999. Nel pantheon greco è Athena a incarnare la phrónesis. Così Walter F. Otto: «La vera Athena non è né un essere impulsivo né un essere contemplativo. È parimenti distante da entrambe queste nature… il suo chiaro spirito non è ragione pura. Rappresenta il mondo dell’azione, ma non dell’azione impensata e primitiva, sebbene della ponderatezza ecc.» (W. F. Otto, Gli dèi della Grecia. L’immagine del divino riflessa dallo spirito greco, Milano 1968, pp. 76-77). Sulla frónhsiw in Aristotele, cfr. P. Aubenque, La prudence chez Aristote, Paris 1963. In generale, sull’etica nella filosofia antica, cfr. O. Gigon, Problemi fondamentali della filosofia antica, Napoli 1983.
3 Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1140 a, 25.
4 Ivi, VI, 8, 15-20. Per Aristotele, dunque, la frónhsiw «dirige l’agire; di conseguenza deve possedere ambedue le conoscenze, o di preferenza quella concernente i particolari». I “particolari” che la frónhsiw percepisce non sono dei dati meramente sensibili (essa resta pur sempre una forma di ragione) ma simili a quelli che vengono definiti i “sensibili comuni”: come la percezione di questo specifico triangolo rispetto all’idea in sé di triangolo. Cfr. il commento di M. Zanatta all’Etica Nicomachea, Milano 1996, vol. II, p. 919. Su sillogismo pratico cfr. anche Aristotele, op. cit., VII,1147 a., ed il commento di Zanatta ed.cit., pp. 947-948.
5 Aristotele, op. cit., VI, 1140 b, 5-10. In generale, sul pensiero politico di Aristotele cfr. L. Strauss- J. Cropsey, Storia della filosofia politica, Genova 1993, vol. I, p. 219 e segg.; E. Voegelin, Ordine e Storia - La filosofia politica di Aristotele, a cura di G. F. Lami, Roma 1999.
6 Prudentia è una forma contratta di previdentia, cioè la capacità di vedere in anticipo. Cfr. P. Pellegrin, Prudence, in Dictionnaire d’éthique et de philosophie morale, Paris 1996, p. 1201 e segg.
7 Cicerone, Dei doveri, Libro I, V, VI, XLIII.
8 Cfr. Alberto Magno, Il bene, a cura di A. Trabocchia Canavero, Milano 1987, trattato IV, La prudenza, p. 473 e segg.
9 Sul pensiero di Tommaso d’Aquino cfr. B. Mondin, Il sistema filosofico di Tommaso d’Aquino, Milano 1992; S. Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, Bari 1996; A. Campodonico, Integritas - metafisica ed etica in san Tommaso, Fiesole 1996; C. Fabro, Introduzione a san Tommaso. La metafisica tomista e il pensiero moderno, Milano 1997. Per una lettura della prudenza alla luce del pensiero di Tommaso cfr. l’oramai “classico” saggio di Josef Pieper (del 1936): J. Pieper, La prudenza, Brescia-Milano 1999.
10 Una differenza importante tra Aristotele e Tommaso sta proprio in ciò: che mentre per il padre della scuola peripatetica i fini dell’agire appartengono al mondo delle opinioni, in Tommaso essi sono necessariamente legati ad una conoscenza assoluta. Ciò si può rilevare dalla critica di Tommaso alla distinzione aristotelica tra un intelletto “possibile” che conosce le cose necessarie e uno che conosce quelle contingenti. Afferma invece l’Aquinate che l’intelletto è uno e che vero necessario e vero contingente «hanno tra loro un rapporto che è quello del perfetto all’imperfetto nel genere del vero». San Tommaso d’Aquino, Commento all’Etica Nicomachea di Aristotele, Bologna 1998, vol. 2, p. 16.
11 Su tutto ciò cfr. S. Pinckaers, Le fonti della morale cristiana. Metodo, contenuto, storia, Milano 1992, p. 444 e segg.
12 San Tommaso d’Aquino, La somma teologica, Bologna 1984, vol. XVI, La prudenza, questione 47, artt. 6-7, pp. 232-236.
13 Su ciò cfr. S. Pinckaers, op. cit., p. 444 e segg.
14 Cfr. G. Macchia, I moralisti classici, Milano 1989, p. 25 e p. 261 e segg. e direttamente B. Gracián, Oracolo manuale e arte di prudenza, Milano 1991.
15 San Tommaso d’Aquino, La somma teologica, cit., questione 47, artt.10-12.
16 Solo dopo la stagione della Rivoluzione francese, Joseph de Maistre può ironizzare sul concetto di libertà negli illuministi: il liberale John Locke, identifica erratamente la libertà con la semplice capacità di agire e con la «volontà non impedita»; anche il suo discepolo Condillac «scambia il risultato o il segno esterno della libertà, cioè l’azione fisica, con la libertà stessa, che è un fatto morale. “La libertà è la facoltà di fare”! E che significa? Forse che un uomo imprigionato e carico di catene non ha la capacità di rendersi colpevole di tutti i delitti, pur senza agire? Non ha che da volerlo». La volontà non può essere infatti forzata (non sarebbe più volontà) ma solo attratta o dal bene o dal male. J. de Maistre, Le serate di Pietroburgo, Milano 1986, pp. 315-319.
17 Cfr. V. Sellin, Politica, Venezia 1993, in part. pp. 57-95.
18 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Milano 1995, p. 151.
19 Ivi, p. 137.
20 Su tutto ciò cfr. P. Pellegrin, op. cit., pp. 1205-1206.
21 Vedi nota 8.
22 Così in E. Berti, Aristotele nel Novecento, Bari 1992, p. 15 e segg.
23 M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Halle 1913-1916; N. Hartmann, Ethik, Berlin 1926.
24 O. Spann, Gesellschaftsphilosophie, München 1928.
25 Sulla “riabilitazione della filosofia pratica” cfr. L. Cortella, Aristotele e la razionalità della prassi. Una analisi del dibattito sulla filosofia pratica aristotelica in Germania, Roma 1987; G. Fornero, La riabilitazione della filosofia pratica in Germania e il dibattito fra “neoaristotelici” e “postkantiani”, in N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. IX, La filosofia contemporanea 3, Milano 1996, p. 195 e segg.; E. Berti, op. cit., p. 186 e segg.
26 Vedi nota 2.
27 A. MacIntyre, Dopo la virtù, Milano 1988.
28 Ad es., da un punto di vista tomista cfr. U. Galeazzi, L’etica filosofica in Tommaso d’Aquino, Roma 1990; Id., Introduzione a Tommaso d’Aquino, I vizi capitali, Milano 1996, p. 5 e segg.; G. Abbà, Lex et virtus. Studi sull’evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d’Aquino, Roma 1983; Id., Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, Roma 1995; Id., Quale impostazione per la filosofia morale ?, Roma 1996.
29 Cfr. E. Berti, La razionalità pratica tra scienza e filosofia, in Id., Le vie della ragione, Bologna 1987, p. 55 e segg.
30 Cfr. ad es. H.G. Gadamer, L’ermeneutica come filosofia pratica, in Id., La ragione nell’età della scienza, Genova 1999, p. 87 e segg., dove, equiparando filosofia pratica ed ermeneutica, afferma: «Un’interpretazione definitiva sarebbe in sé una contraddizione. L’interpretazione è sempre in cammino» (p. 104).


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