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EDITORIALE
tratto dal n. 03 - 2000

Ricordare Piccioni



Giulio Andreotti


Attilio Piccioni, uno degli uomini di maggior valore della Democrazia cristiana, merita di essere adeguatamente ricordato, ora che, non sempre con la dovuta obiettività, si sta ricostruendo la storia italiana del dopoguerra. Non lo sentii mai gloriarsi – e ne avrebbe avuto il diritto – del suo ruolo di segretario politico della Dc al momento della decisiva battaglia elettorale del 18 aprile 1948. Ripeteva la massima di don Sturzo secondo la quale i successi vanno accreditati alle idee e gli insuccessi addebitati alle persone.
Attilio Piccioni all’ottavo congresso della Democrazia cristiana a Napoli nel 1962

Attilio Piccioni all’ottavo congresso della Democrazia cristiana a Napoli nel 1962

La sua storia ha inizio quando due insegnanti elementari si sposano a Poggio Bustone, la valle del Reatino detta santa per le memorie francescane (tra le quali il primo presepio voluto dal santo a Greccio). I due avevano provenienza diversa: da Foligno e da Reggio Emilia. La destinazione a Poggio segnò il loro comune avvenire. Dei figli, tre si distingueranno; oltre ad Attilio, anche Giovanni, che fu sacerdote a Pistoia e vescovo di Livorno, ed un terzo, funzionario di prefettura in Torino ma con propensioni personali al movimento anarchico.
Attilio, nato il 14 giugno 1892, terminato il liceo a Rieti si trasferì a Roma seguendo i corsi alla Sapienza, prima del termine dei quali venne chiamato alle armi, prima come bersagliere e poi come istruttore pilota. Scherzando (una fine ironia lo caratterizzò sempre) diceva che era l’unico modo per far la guerra stando seduto. Dinanzi a certi politici superattivi ripeteva che la pigrizia lo salvava dalle improvvisazioni, ma intellettualmente era tutt’altro che pigro.
A Torino, ospite del fratello, avvenne la duplice svolta della sua vita: mise su famiglia e fu folgorato dall’appello sturziano ai liberi e forti, nel gennaio 1919. Non aveva militato in precedenza nelle organizzazioni cattoliche, ma il popolarismo lo conquistò. Fu il primo segretario del Ppi nel capoluogo piemontese, in una cerchia di politici coraggiosi e illuminati che strinsero tra loro una fervida amicizia super partes. Non a caso uno degli scritti più significativi di Piccioni uscì sul giornale di Piero Gobetti Rivoluzione liberale.
Nelle elezioni del 1919 ed in quelle del 1921 i popolari raccolsero forti suffragi, ma il quadro generale era debole e inquietante. Impossibile una cooperazione con i socialisti; forte la reazione dei vecchi notabili contro ambedue i partiti di popolo; dura l’azione dei fascisti per abbattere il sistema. La presenza fascista alla Camera dei deputati era esigua e questo ingannò quanti erano abituati a veder tutto nell’ambito di Montecitorio. A stretta maggioranza gli eletti del Ppi decisero che si poteva collaborare con il governo di Mussolini, sempre nell’intesa di poterlo far cadere se le speranze di un assestamento dei fascisti nell’alveo costituzionale si dimostrassero vane. Il che avvenne in effetti dopo pochi mesi, e proprio al congresso del Ppi di Torino dove il giovane segretario cittadino si distinse per l’intransigenza. Ma era troppo tardi. Mussolini non si dimise affatto ed anzi, quando nell’emozione del delitto Matteotti i deputati democratici – sull’Aventino o in Aula – si dissociarono, strinse i freni e… tirò diritto. Persecuzioni e purghe si riversarono sugli oppositori, disperdendone le file ad eccezione del piccolo numero dei resistenti.
Torino però non era più sede adatta per svolgervi, a fascismo imperante, la professione forense. Per un ventennio la famiglia Piccioni si trasferisce a Pistoia, in collegamento di studio con un altro reduce dalle battaglie democratiche: Adone Zoli.
Rimasto vedovo si dedicò ai figli, trovando – a parte la professione forzatamente in tono minore – un proprio spazio intellettuale e morale nelle letture e nei contatti con quel nucleo di antifascisti o non fascisti che non avrebbe mai desistito dalla fede nella riscossa.
Il 19 marzo 1943 in casa di Giuseppe Spataro (che Piccioni aveva sempre frequentato senza paure e coltivando intatta l’amicizia) convennero da tutta Italia molti ex, per festeggiare l’amico, ma in realtà per rilanciare su vasta scala il movimento. La polizia non disturbò questo convegno; qualcuno dei capi voleva forse riscattare l’acquiescenza al regime e acquisire titoli di merito verso il cambiamento che era ormai alle porte.
Invitato come presidente della Fuci insieme ad altri giovani, fummo colpiti dalla autorevolezza di De Gasperi, dalla loquacità di molti “onorevoli” e dal silenzio dell’avvocato Piccioni, rotto solo da qualche «chi si rivede!» che sottolineava la lunga assenza di molti nel corso del ventennio.
Dopo poco più di centoventi giorni il fascismo cadeva. Esponente del Comitato di liberazione, Piccioni restò in Toscana fino alla riconquistata libertà; ed accettò subito dopo l’invito di De Gasperi e di Spataro a trasferirsi a Roma. Il suo intelletto, la sua arguzia, il fascino di un antifascismo datato ne fecero un punto di riferimento essenziale specie per noi giovani, che da parte sua curò particolarmente. Ci volle con sé a Lucerna in una riunione delle Nouvelles Equipes Internationales che furono il primo nucleo di connessione del popolarismo europeo e mondiale.
Nel settembre 1945 si aprì la Consulta nazionale, formata dai più illustri esponenti dell’antifascismo militante, da pochi di noi giovani apprendisti e da rappresentanti delle categorie. Compito principale era la preparazione dell’Assemblea costituente, a partire dalla relativa legge elettorale.
L’orientamento per il sistema proporzionale era molto largo. Dal perdurante esilio (le autorità ecclesiastiche ne ritardarono il rientro) don Sturzo ricordava che aveva potuto dar vita al Partito popolare solo quando si era messo via il vecchio uninominalismo ed accettato il suffragio con il proporzionale.
Attilio Piccioni fece in proposito uno stupendo discorso, definendo le voci contrarie come una difesa d’ufficio («un debito nostalgico di alcuni insigni e vecchi uomini politici in continuità con un non lontano passato»).
E continuò:
«È un fatto veramente significativo che nessun giovane, dei giovani uomini politici che vengono sorgendo a costituire il nuovo ceto politico direttivo del Paese, ha sentito la necessità di assumere comunque la difesa del collegio uninominale: neppure il collega Lucifero, tanto meno il collega Cassandro, liberale, per riferirmi ai settori che possono essere più vicini ad una impostazione di quel genere.
I mali che si rimproverano al proporzionale non sono evidentemente profondi e sostanziali ma connaturati, se mai, con il persistente costume politico italiano e con alcune caratteristiche peculiari della nostra vita politica, specialmente locale.
La democrazia moderna come tale, sebbene sia stata per lungo tempo volutamente confusa col liberalismo, è invece qualche cosa di diverso, ha una esigenza fondamentale, strutturale, diversa da quella che poteva esser fatta valere in regime liberale prefascista. Liberalismo vuol dire organizzazione politica dello Stato nella quale si punta decisamente sull’individualismo, le cui limitazioni devono essere ridotte al massimo. Democrazia significa allargare il compito politico a tutto il popolo, significa organizzare giuridicamente tutto il popolo perché partecipi in modo attivo, permanente e responsabile alla vita politica del Paese.
Il liberalismo postula dal punto di vista elettorale l’esigenza personale e la esigenza localistica del collegio uninominale; la democrazia, appunto per queste sue profonde caratteristiche di organizzazione integrale, postula necessariamente il sistema elettorale proporzionale. Né vale addurre, come si suole fare troppo spesso, l’esempio in contrario dell’Inghilterra e degli Stati Uniti d’America. Sono democrazie anche queste, per quanto notevolmente diverse da quella che è la democrazia nell’Occidente europeo».
Giulio Andreotti con Attilio Piccioni

Giulio Andreotti con Attilio Piccioni

La conclusione fu emozionante:
«O colleghi, bisogna staccarsi dal passato».
E le elezioni si svolsero con il proporzionale.
Nel frattempo vi era stato un acceso dibattito sul modo di decisione della scelta istituzionale, accantonata dal 1944 per non togliere unanimità di energie alla lotta di liberazione. Secondo alcuni si doveva dar luogo ad un referendum pro o contro il mantenimento della monarchia abbinato all’elezione dei costituenti. Altri invece pensavano che spettasse agli eletti del popolo sciogliere il nodo dopo adeguata discussione. Don Sturzo dall’America caldeggiava con vigore la seconda tesi, mentre De Gasperi si batté per il referendum simultaneo e trovò in Piccioni un riservato ma decisivo sostegno. Non era solo la necessità di impedire che i cittadini dovessero dare un mandato specifico (che per la Democrazia cristiana, ma non solo per essa, sarebbe stato nefasto). Si doveva sgomberare preventivamente il campo e lasciare che l’Assemblea potesse tracciare il disegno dell’ordinamento statale con una ricerca quotidiana di punti di incontro e di sintesi che il contrasto sulla scelta istituzionale avrebbe impedito.
Risolto il problema con la vittoria repubblicana del 2 giugno 1946 (la saggezza e il prestigio di De Gasperi furono essenziali, ma senza l’autorevolezza di Piccioni egli non avrebbe potuto sviluppare la sua azione, superando gli ostacoli dei massimalisti) iniziarono i lavori della Costituente. Ad una commissione di settantacinque deputati – Piccioni tra questi – venne dato l’incarico di redigere lo schema, che fu poi discusso ed approvato in Aula.
De Gasperi aveva lasciato intanto la segreteria della Dc, sostituito appunto da Piccioni, sotto la cui guida si svolse la campagna elettorale per la prima legislatura repubblicana, vittoriosamente conclusa il 18 aprile 1948. Ancora una volta Piccioni aiutò il presidente De Gasperi a respingere le ansie dell’ala contraria al perdurare della collaborazione della Dc con i partiti democratici liberale, socialdemocratico e repubblicano. Del nuovo governo di coalizione Piccioni fu vicepresidente. Il suo peso era notevole per impostare e far approvare leggi fondamentali come la Riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno.
Per vari motivi la legislatura 1948-1953, pur così ricca di decisioni (Piano Marshall, Patto Atlantico, oltre le ricordate riforme) vide un logoramento della maggioranza. In particolare nell’eterno contrasto inter-socialista Saragat credette – a torto – che il presidente volesse accordarsi con Nenni; e prese le distanze facendo cadere l’ultimo ministero De Gasperi, formato dopo le elezioni.
A succedergli il candidato naturale era Piccioni, che di fatto ebbe l’incarico dal presidente della Repubblica. Non è ancora del tutto chiaro perché Piccioni rinunciò, addirittura eclissandosi per alcune ore. Si disse che la segreteria politica – retta da Fanfani – ponesse veti per candidature ministeriali che Piccioni voleva soddisfare. Vi furono anche pressioni per “entrare” alle quali Piccioni non voleva accedere ma senza creare una conflittualità interna.
Nella impossibilità di un governo “politico” si ricorse ad un gabinetto tecnico, affidato al ministro del Tesoro Pella con il compito di presentare e far approvare il bilancio dello Stato. Il distacco dei partiti alleati della Dc cominciò ad attenuarsi e – i numeri c’erano – sembrò realizzabile un ritorno al governo politico, a formare il quale venne chiamato il segretario della Dc Fanfani, che non ebbe però le adesioni necessarie, non solo per la partecipazione ma anche per un semplice appoggio esterno. Il governo fu sconfitto sul nascere nel voto di fiducia. Ma l’incubo della corda tesa che stava per spezzarsi indusse gli alleati storici ad uscire dall’Aventino e rientrare nella coalizione, affidata a Mario Scelba, tenace assertore del quadripartito. Piccioni andò a dirigere il Ministero della Giustizia, impostando subito innovazioni notevoli, come lo sganciamento della magistratura dalla piramide unica dell’amministrazione statale.
Una giovane signora, delusa dalla rottura del suo rapporto di fatto con il ricco imprenditore Ugo Montagna, redasse un memoriale denunciando le frequentazioni del suo amico sia con alti esponenti, come il capo della Polizia Pavone e il questore di Roma Polito, sia con uno dei figli del ministro Piccioni, accusato quest’ultimo di aver abbandonato sul litorale romano una ragazza rinvenuta morta. La passione per la caccia avrebbe collegato questi ed altri personaggi in un quadro dipinto a tinte boccaccesche.
L’inconsistenza e il ridicolo del documento emergeva dalle prime parole. Si diceva che il Montagna avesse avuto a suo tempo rapporti con Claretta Petacci e Mussolini lo sapeva: «Ma non faceva niente perché aveva paura di Ugo».
Il credulo padre gesuita cui la giovane abbandonata aveva affidato il suo memoriale riuscì a farlo prendere in considerazione (notitia criminis?) dal Ministero dell’Interno, avviandosi una inchiesta che suscitò un clamore inaudito con speculazioni politiche mostruose. Da quel che so e credo, il direttore dell’Unità aveva ritenuto che davvero si fosse dinanzi a uno scandalo ciclopico e ci dette sotto. Molti anni dopo nella stessa Unità si riconosceva l’infondatezza del “caso”.
Piccioni si dimise da ministro in un clima di parziale isolamento (per incontrarlo, qualche settimana dopo, uno dei principali suoi collaboratori accettò di vederlo solo nella clandestinità di una chiesa).
L’inchiesta ebbe due tempi. Nel primo un magistrato obiettivo e non intimidito dai rumori concluse per la non colpevolezza. Ma, soggiacente alla canea della stampa e della opposizione parlamentare, un altro magistrato – senza prove, anzi con una prova che risultò scandalosamente falsa – rinviò a giudizio… gli amici di Ugo Montagna. Il processo fu affidato al tribunale di Venezia che dimostrò esemplare dirittura. Il pubblico ministero concluse per la piena assoluzione e così il collegio decise. In corso di istruttoria il tribunale aveva fatto un sopralluogo in Roma constatando, tra l’altro, la mostruosa falsificazione di una prova portata a carico del questore Polito.
Nel dibattimento veneziano spiccò una arringa difensiva per Piero Piccioni del celebre professor Carnelutti.
Piccioni padre tornò in seguito al governo come ministro degli Esteri e per parecchi anni presiedette la delegazione italiana all’Assemblea generale dell’Onu. Ma la terribile vicenda lo aveva segnato in modo irreparabile e non fu più quel comunicatore saggio, riservato, sorridente, caratteristiche che avevano fatto di lui un personaggio di primissimo piano per la vita della Repubblica.
Morì il 10 marzo 1976. Non potei andare al funerale perché coincise con quello di mia madre. Anche per questo sono stato lieto di essere stato invitato a Pistoia – dove Piccioni è sepolto accanto alla sua sposa – a parlare in Comune di questo autentico padre fondatore.


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