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03 - 2000 >
«Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, or fu sì fatta la sembianza vostra?»
«Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, or fu sì fatta la sembianza vostra?»
Così Dante parla della “Veronica” nel XXXI canto del Paradiso. La storia poco conosciuta di questa famosa reliquia, che una tradizione antichissima indica come la vera effigies Christi
di Dario Rezza
L’ostensione della “Veronica” ai fedeli, xilografia in Mirabilia urbis Romae (1475 circa)
Giovanni XXII, uno dei papi avignonesi (1316-1334), ci ha lasciato un inno in onore della “Veronica”: «Salve sancta facies/ nostri Redemptoris/ in qua nitet species/ divini splendoris/ impressa in panniculo/ nivei candoris/ dataque Veronicae/ signum ob amoris». Difficile dire se questo Papa abbia mai contemplato la reliquia nella quale afferma essere impresso il volto di Cristo in un divino splendore, ma egli, prendendo spunto da analoghe composizioni anche di suoi predecessori, quale Innocenzo IV (1243-1254), si fa comunque autorevole portavoce di una tradizione consolidata e antica secondo la quale il Santo Volto di Gesù è rimasto impresso su un panno, per nostra consolazione.
Negli apocrifi del ciclo di Pilato, e precisamente nelle Lettere, databili intorno al V secolo, si fa cenno a una certa Veronica, devota di Gesù, la quale così si esprime: «Quando il mio Signore girava predicando, io con molto dispiacere ero privata della sua presenza; volli perciò dipingermi un’immagine affinché, non godendo della sua presenza, avessi un sollievo almeno con la rappresentazione della sua immagine. Mentre stavo portando un panno da dipingere al pittore, mi venne incontro il mio Signore e mi domandò dove andavo. Avendogli manifestato il motivo del mio viaggio, egli mi richiese il panno e me lo restituì insignito della sua venerabile faccia». Tale Veronica si sarebbe poi recata a Roma nell’anno 34 e avrebbe guarito l’imperatore Tiberio malato mostrandogli l’immagine. In seguito, secondo altre fonti, avrebbe donato la preziosa effigie al papa san Clemente. Probabilmente fu una devozione già esistente nei riguardi della reliquia a suggerire il racconto all’anonimo redattore dell’apocrifo.
Di qui, da questa leggendaria Veronica, l’origine quindi e il nome della famosa reliquia? Oppure è più conveniente accettare l’interpretazione del nome Veronica proposta da Gervasio di Tilbury tra il 1212 e il 1214, secondo la quale sarebbe un’anomala trasposizione linguistica (un misto di latino e greco) di “vera icona”, cioè di vera immagine? È antico comunque il culto di una santa Veronica e, pur avendone Gregorio XIII nel 1582 cancellato il nome dal martirologio, esso è rifiorito ed è rimasto fino a oggi nella pratica devota della Via Crucis alla sesta stazione. Anche se questa Veronica avrebbe avuto in dono l’immagine del volto di Gesù asciugandone il sudore e il sangue lungo la via dolorosa.
Un pellegrino porta sul cappello l’immagine della “Veronica”, particolare del Trionfo della Chiesa militante (1366-67), Andrea di Bonaiuto, Cappellone degli Spagnoli, chiesa di Santa Maria Novella, Firenze
Niccolò IV nel 1289 aggiunge un’altra corposa indulgenza, e altre ancora progressivamente si accumulano, con una curiosa particolarità: sono dosate diversamente. «Indulgenza di tremila anni per i romani, novemila per gli italiani e dodicimila per gli stranieri»: probabilmente in rapporto alla maggiore lunghezza del cammino da compiere per giungere a contemplare la reliquia. Si moltiplicano anche le ostensioni del velo: Clemente VI ne autorizza ben dodici negli anni del suo pontificato (1342-1352). La “Veronica” veniva però sempre contemplata da lontano: solo il papa e i canonici vaticani potevano avere un contatto ravvicinato con essa. E per permettere all’imperatore Federico III nel 1452 e al granduca Cosimo III de’ Medici nel 1700 di vederla da vicino, si dovette nominarli canonici onorari.
Due eventi, la demolizione della basilica costantiniana nel 1506 e il sacco di Roma nel 1527 hanno fatto temere che la “Veronica” fosse andata perduta in quei frangenti. E durante la demolizione della vecchia Basilica, il «santissimo sudario della Veronica» – insieme alla punta della lancia di Longino e al capo di sant’Andrea – il 26 gennaio 1506, di notte e in forma privata, fu messo al sicuro negli ambienti dell’archivio capitolare, chiuso in una cassa di ferro con triplice serratura e protetta da un muro. Ma ci sono testi che confermano la presenza della reliquia in San Pietro negli anni immediatamente seguenti il sacco.
Nella nuova Basilica, la “Veronica”, racchiusa in una triplice teca di argento e protetta da una reticella a velo («crivellotto»), venne collocata solennemente il 21 marzo 1606, il martedì santo, alle otto di sera (come risulta dal cod. vat. lat. 4993, pp. 513-514), in una nicchia ricavata all’interno del pilone (detto appunto “della Veronica”) della cupola. Sotto la tribuna, aperta a uguale livello della nicchia nel pilone stesso, la grande statua della Veronica, “melodrammaticamente agitata”, di Francesco Mochi, eseguita tra 1629 e il 1640, indica ai fedeli il luogo dove la reliquia è conservata.
Copie, riproduzioni e rappresentazioni pittoriche del velo della Veronica sono state eseguite in tutti i secoli, infittendo il mistero su ciò che effettivamente si riesce a vedere impresso nel velo. Infatti i vari pictores Veronicarum si affidavano ad antiche copie di dubbia autenticità o supplivano con la propria personale fantasia e ispirazione. Inoltre, altre reliquie di identico soggetto erano già entrate in concorrenza: quando Dante parla della «Veronica nostra», l’aggettivo possessivo fa supporre l’esistenza di repliche che contendevano l’autenticità a quella romana. Nel 1629 Urbano VIII ordinò che tutte le repliche della “Veronica” romana venissero bruciate, ma più di qualcuna è sopravvissuta: tra esse quella donata dalla duchessa Sforza alla chiesa del Gesù in Roma, che è la copia più antica a noi pervenuta.
La statua raffigurante la Veronica, nella Basilica di San Pietro a Roma, opera di Francesco Mochi realizzata tra il 1629 e il 1640
Nella storia ingarbugliata, tipica di tutte le grandi reliquie custodite e venerate durante i secoli nella cristianità, alcune certezze si fanno però strada per quanto riguarda la “Veronica”: un “santo sudario”, del quale si ha notizia fin dal secolo V, è giunto a Roma ed è stato conservato con somma cura, ininterrottamente da oltre un millennio, nella Basilica di San Pietro; è stato sempre oggetto di grande devozione, soprattutto durante i giubilei, per tutti i pellegrini quale pictura Domini vera, tanto da diventare emblema dello stesso pellegrinaggio che aveva Roma per meta; a esso sono stati attribuiti poteri taumaturgici e viene ancora mostrato in determinate occasioni alla venerazione collettiva. Il mistero rimane invece circa l’origine e la natura di questa icona, anche se essa appartiene certamente alla tradizione delle immagini acheropite (cioè non dipinte da mano umana). Qualcuno ha invocato la possibilità di un’indagine scientifica, ma, dopo l’insuccesso di quella eseguita sulla Sindone di Torino, c’è sufficiente motivo per dubitare che possa servire a qualche, anche parziale, soluzione del mistero. Ma che resti il mistero! Che è il mistero dello stesso operare di Dio, che si serve a volte di strumenti storicamente e scientificamente inadeguati per elargire i suoi miracoli di grazia. Un mistero che è il riflesso di uno più grande: quello di un Dio che ha assunto un volto umano.
Ogni volta che, come canonico di San Pietro, salgo nella scala a chiocciola all’interno del pilone fin sulla loggia della Veronica per l’ostensione della reliquia, avverto con commozione la grandezza di questo piccolo e misterioso oggetto, di cui Dio si è servito per orientare il cammino di tanta parte dell’umanità in quel viaggio che ciascun credente compie nella vita per giungere alla salvezza.