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DOPO IL VIAGGIO DEL PAPA IN...
tratto dal n. 07/08 - 2000

È Gesù Cristo la realtà


«Guardando Gerusalemme noi sappiamo che l’Antico Testamento è anche nostra eredità, ma lo vediamo compiuto in Gesù Cristo. Sebbene non siamo marcionisti e non lo vogliamo cancellare, lo vediamo compiuto in Gesù Cristo. Gerusalemme ha un rapporto unico con Gesù Cristo, ma è Lui la realtà, la novità». Intervista con David Maria Jaeger, ebreo di nascita e sacerdote cattolico


Intervista con David Maria Jaeger di Giovanni Cubeddu


Continuando il nostro giro d’orizzonte sullo status quaestionis del dialogo ebraico-cristiano, abbiamo incontrato David Maria Jaeger. Questo religioso francescano sin dall’inizio è stato membro ed esperto giuridico della delegazione della Santa Sede alla Commissione permanente di lavoro con lo Stato di Israele, e degli accordi tra le parti conosce le battaglie su ogni singolo termine. Le sue opinioni sono perciò una fonte autorevole. Oltretutto Jaeger ha un rapporto unico con Israele e il popolo ebreo, perché è nato a Tel Aviv nel ’55 e figura ancora oggi come l’unico sacerdote cattolico ebreo di nascita e di nazionalità israeliana.

Padre Jaeger, dal maggio ’92 – quando le delegazioni della Santa Sede e dello Stato di Israele progettano una Commissione permanente di lavoro – ad oggi, sono stati realizzati, nell’ordine: l’Accordo fondamentale con Israele (30 dicembre ’93), i pieni rapporti diplomatici (giugno ’94), l’Accordo sul riconoscimento della personalità giuridica degli enti ecclesiastici in Israele (10 novembre 1997); e l’11 marzo 1999 sono stati avviati i negoziati per l’Accordo economico sullo statuto fiscale degli enti ecclesiastici, la partecipazione economica statale alle opere sociali ed educative della Chiesa a favore della popolazione, e la restituzione di alcune proprietà ecclesiastiche. Sono stati otto anni eccezionali…
Un particolare dei mosaici dell’abside (XII-XIII secolo) della Basilica di San Clemente a Roma

Un particolare dei mosaici dell’abside (XII-XIII secolo) della Basilica di San Clemente a Roma

DAVID MARIA JAEGER: …Ma lungo la strada dei negoziati tra la Santa Sede e lo Stato di Israele ci sono stati alcuni fenomeni un po’ “strani”. L’Accordo fondamentale, entrato in vigore il 10 marzo ’94, non viene promulgato sulla Gazzetta ufficiale di Israele fino alla primavera del ’99: cinque anni! E anche ciò avviene dopo ripetute, chiamiamole così, “espressioni di perplessità” da parte nostra.
Per dire fino a che punto era sconosciuto l’Accordo fondamentale in Israele, vi racconto, con i dovuti omissis, un episodio. Esiste un convento cattolico che si trova vicino a un’installazione dello Stato che per sua natura deve essere ben custodita dai servizi segreti israeliani – che sappiamo tutti quanto siano efficienti –. Si impone ad un certo momento, siamo già nel tardo ’98, un piccolo negoziato per conciliare il rispetto dovuto al luogo sacro con le misure di sicurezza, di per sé comprensibili, che gli 007 ritengono necessarie. A un certo momento, mentre si negozia, io faccio riferimento all’Accordo fondamentale, per dire che si rende necessaria una sua menzione nel piccolo patto che stavamo raggiungendo, in quanto l’Accordo fondamentale garantisce l’inviolabilità dei luoghi sacri. Davanti a me vi sono due alti ufficiali dei servizi segreti, dei Gss, la polizia segreta, i quali, alla menzione dell’Accordo fondamentale saltano e gridano sorpresi: «Ma che cos’è questo accordo? Lei di che parla? Noi non ne sappiamo nulla!». Capito? Dopo cinque anni dalla firma, dell’Accordo fondamentale non ne sapevano nulla i servizi segreti, figuriamoci il resto dell’amministrazione israeliana, che avrebbe già dovuto applicarlo!
È un episodio incredibile, ma forse unico. Oppure lei lo ritiene la punta dell’iceberg?
JAEGER: Anche l’Accordo sulla personalità giuridica, fino a questo momento, non risulta che sia stato promulgato sulla Gazzetta ufficiale israeliana, nonostante gli interventi continui da parte nostra.
E poi, oltre l’Accordo sulla personalità giuridica e quello economico sullo statuto fiscale degli enti ecclesiastici (i cui negoziati sono ancora in corso), l’architettura dell’Accordo fondamentale prevedeva una serie di altri patti particolari su vari aspetti dei rapporti Chiesa-Stato in Israele ancora da avviare.
Però, al di là del gioco diplomatico tra negoziatori, quale conoscenza lei ritiene che abbia la controparte governativa israeliana della Chiesa cattolica?
JAEGER: Quando cominciammo i negoziati nel ’92 vi era una mancanza totale di informazioni e di comprensione da parte israeliana riguardo alla Chiesa cattolica. Non sorprendentemente. Per vari motivi: anzitutto perché nel sistema di rapporti tra religione e Stato vigente in Israele – fondamentalmente ereditato dall’Impero ottomano – non si riconosceva la Chiesa cattolica in quanto tale, e così è stato fino all’Accordo fondamentale del 1993, il primo del suo genere in tutta la regione.
Poi gli israeliani non capivano come la Santa Sede potesse essere distinta dallo Stato della Città del Vaticano, e quali fossero le differenze e i legami tra le due istituzioni. Anche qui compimmo una grande opera di presentazione, che poi mi risulta sia stata efficace stando ai testi degli accordi già entrati in vigore. Infine, naturalmente, anche di fatto non c’era una buona conoscenza della Chiesa cattolica locale, perché la grande maggioranza dei credenti cattolici in Israele appartengono ad una minoranza nazionale, quella arabo-palestinese, e agli occhi dello Stato israeliano si percepivano anzitutto sotto il profilo etnico-nazionale, e talvolta in un’ottica di polizia. Però va detto che lacune e responsabilità ci sono anche da parte della Chiesa.
Cioè?
JAEGER: A 52 anni ormai dalla nascita dello Stato d’Israele non si è ancora curata di essere visibilmente presente presso la maggioranza della società israeliana, quella dominante in Israele, cioè l’ebreofona. Manca un interlocutore ecclesiale all’interno della società ebreofona.
Visto il difficile contesto israeliano e della Terra Santa, è un fatto comprensibile oppure è stata una scelta meditata?
JAEGER: Non è una scelta, è una lacuna. Storicamente la società ebraica si percepisce come unità di nazione-religione, per cui parlare di una presenza ecclesiale all’interno della società ebraica è stato ed è difficile concettualmente, ma ancor più praticamente. Inoltre in Terra Santa, in seguito alla guerra arabo-israeliana del ’48-49, al disastro umanitario della popolazione palestinese in genere e della parte cristiana e cattolica in particolare, la Chiesa si concentrò nel ricostruire la propria presenza all’interno della minoranza arabo-palestinese in Israele, nel dare sollievo ai rifugiati, ecc. Ci sono state delle ragioni storiche pastorali, chiare e onorabili, per cui non si è posta attenzione alla Chiesa nella società ebraica in Israele. Sebbene già negli anni Cinquanta ebbero delle idee in tal senso il cardinale Tisserand e il patriarca latino di Gerusalemme Gori.
Ma l’istituzionalizzazione di un’ulteriore entità cattolica in Israele per gli ebreofoni non potrebbe essere mal compresa?
JAEGER: In Terra Santa e all’interno dello stesso Israele ci sono due nazioni, due società e due culture; la Chiesa è presente all’interno della società arabo-palestinese, sia in Israele che in Palestina, allo stesso modo potrebbe esserlo all’interno della società di espressione ebraica. La spettacolare riuscita della visita del Papa ha aumentato enormemente l’interesse della popolazione israeliana per le cose cristiane. Nei media israeliani è stato un crescendo, fino all’ultimo giorno della visita e al giorno dopo la partenza, quando i commenti tipici della stampa laica erano: «Questo è un vero uomo di Dio, ne siamo arricchiti, magari potessimo tenerlo tra noi più a lungo!». Questo successo d’immagine potrebbe fungere da volano. Io ritengo, modestamente, che sarebbe bene se ci fosse in loco un soggetto ecclesiale capace e interessato a sviluppare questo mirabile “commercio” spirituale, nel senso medievale, questo mirabile dialogo. Perché in Italia la santa messa la celebra un sacerdote o un vescovo cattolico italiano: un italiano che parla ad italiani. Ciò che non esiste in Israele: colui che appartiene alla Chiesa cattolica sempre si distingue per nazionalità, cultura e lingua d’origine; è uno straniero. Questa barriera si potrebbe superare. Sarebbe una piccola agevolazione, senza mai prevaricare il lavoro nei cuori che solo Dio può svolgere…
Esistono quindi cattolici di origine ebraica che sinora non sono stati rappresentati, tutelati?
JAEGER: Questo non è così semplice da dire. Che vi siano cattolici che vivono nell’ambiente ebraico d’Israele è certo: ce ne sono migliaia e migliaia, non tutti di origine ebraica, ma tutti viventi all’interno della società ebreofona. E la Chiesa, in qualche modo, dagli anni Cinquanta ha provveduto alla celebrazione della messa in ebraico e all’amministrazione dei sacramenti in alcuni centri parrocchiali ed extraparrocchiali (anche se la messa, a mio umile avviso, è ancora in un ebraico alquanto imperfetto; ma è una questione di dettaglio). Questo pio sforzo non raggiunge se non una piccola parte di quei fedeli che vivono in ambiente ebreofono: è un lavoro pastorale limitatissimo, quasi invisibile.
Lasciando da parte tutti i problemi che potrebbero essere provocati dalla reazione degli ebrei ortodossi ad un’impresa cattolica di proselitismo, c’è la consapevolezza che oggi in Israele tra gli immigrati venuti negli ultimi anni dai Paesi dell’Europa dell’Est siano numerosissimi quelli che non sono di religione ebrei ma cristiani. E ci sono circa ventimila cattolici di altre parti del mondo venuti in Israele come lavoratori stagionali, che ormai vivono nella società ebraica, i cui figli parlano ebraico. In Israele e in mezzo alla società ebreofona c’è già un pubblico non indifferente di cristiani.
E secondo lei sarebbe maturo il tempo per creare una diocesi personale ebreofona di Israele?
JAEGER: Una cosiddetta associazione cattolica ebreofona esiste dagli anni Cinquanta, con una storia dolorosa e travagliata. Ma la maggior parte di quelli che sarebbero potenzialmente membri di una circoscrizione ecclesiastica ebreofona israeliana non hanno sede, riferimento. Solo una minima parte dei fedeli ha la possibilità materiale di frequentare la messa in ebraico, celebrata a Gerusalemme, Tel-Aviv, Be’er Sheva e Haifa, e molti altri potrebbero essere raggiunti. Perché i centri in cui da più di quarant’anni si è celebrata la messa in ebraico sono stati quasi sempre nelle catacombe, non favorendo una visibilità sociale e con ciò quasi condannando i propri adepti all’assimilazione. I protestanti, ad esempio, hanno già dei pastori nativi israeliani, mentre i cattolici non ne hanno nessuno (tranne il povero sottoscritto, che è tuttora l’unico sacerdote cattolico ebreo ed israeliano di nascita). Perciò, se mi si domanda se sarebbe stato opportuno avere una circoscrizione ecclesiastica di espressione ebraica in Israele, rispondo di sì, come c’è in ogni nazione, in ogni popolo, in ogni ambiente. Soprattutto negli anni postconciliari, ciò sarebbe stato forse un buon modo di avvicinare, anche in Terra Santa, la Chiesa alla nazione. E se così avvenisse, si eliminerebbe tanta spettacolarizzazione nel dialogo ebraico-cristiano, si faciliterebbe il dialogo tra le comunità locali. Altrimenti vi sarebbe sempre un alibi per procedere preferenzialmente con operazioni di vertice, peraltro inefficaci una volta spente le telecamere.
In Israele, che effetto fa ai suoi interlocutori politici o religiosi sapere che esiste un sacerdote cattolico ebreo israeliano?
JAEGER: Lo ritengono interessante, perché rompe gli schemi tradizionali come loro li comprendevano, e facilita moltissimo il dialogo, condividiamo una medesima lingua, cultura e memoria storica. A questo proposito io, e credo anche i miei colleghi pastori protestanti, così diremmo ai connazionali israeliani laici: «La nostra presenza qui come sacerdoti israeliani dovrebbe essere considerata parte del compimento delle aspirazioni nazionali ebraiche ad una esistenza nazionale finalmente normale».
È sicuro che in Israele condividerebbero questa tesi?
JAEGER: Qui entra in gioco la profondissima differenza di mentalità tra l’ebreo israeliano e l’ebreo della diaspora. In passato ci sono stati tanti sacerdoti cattolici di origine ebraica, anche in Israele. Però erano sempre nati nella diaspora ed eredi di una mentalità radicalmente diversa: l’ebreo della diaspora, anche nei Paesi dove l’emancipazione degli ebrei è stata piena, rimane consapevole di essere membro di una minoranza – il che può essere un punto di forza e di debolezza contemporaneamente –; qualora l’ebreo diventi cattolico in un Paese di tradizione cattolica, sa di aver fatto un’opzione per una vita oggettivamente più facile, anche se non è per questo che si è convertito. Ho visto terribili drammi psicologici in convertiti ebrei provenienti dalla diaspora. Somigliano a Simone Weil, che pur essendo cristiana credente non volle essere battezzata, proprio perché sentiva che il battesimo avrebbe costituito una rottura con la propria gente. Tutti questi complessi per un cittadino israeliano oggi forse non ci sarebbero, perché nasce libero in una nazione libera, in una situazione più normale.
Un’ultima questione calda nei rapporti tra Santa Sede ed Israele e nel dialogo ebraico-cristiano è la città di Gerusalemme e il suo status giuridico. Attingendo alla sua lunga esperienza di negoziatore, quale è da parte della Chiesa un corretto atteggiamento sul tema?
JAEGER: L’interesse della Chiesa per Gerusalemme è una questione di giustizia, su uno sfondo teologico-mistico, simbolico. Su questo sfondo simbolico, e tenendolo sempre presente, c’è una questione di ius, di giustizia, visto che è un luogo dove si incontrano interessi legittimi e diritti di più parti. Infatti, di Gerusalemme si dice: “Una città, due nazioni, tre religioni”. Di conseguenza, la soluzione giuridica che la Santa Sede oggi ipotizza è che dal punto di vista politico-nazionale le sorti della città siano concordate tra Israele e Palestina, seguendo gli accordi di Oslo, ma che tutti e due gli Stati sottoscrivano prima un atto giuridico internazionale che ponga nella cura del diritto internazionale alcuni temi riguardanti la città. Così come la parte palestinese ha già accettato e proclamato di voler fare nel preambolo all’Accordo di base con la Santa Sede da poco stipulato.
Sin qui l’aspetto politico…
JAEGER: Guardando Gerusalemme noi sappiamo che l’Antico Testamento è anche nostra eredità, ma lo vediamo compiuto in Gesù Cristo. Sebbene non siamo marcionisti e non lo vogliamo cancellare, lo vediamo compiuto in Gesù Cristo. I luoghi dell’Antico Testamento conservano il loro significato riguardo alla storia della salvezza. Ma se si afferma che per la religione ebraica ortodossa Gerusalemme significhi concretamente molto di più che non per la fede cristiana – per la quale Gerusalemme è già compiuta in Gesù Cristo – questo nessuno lo discuterà. È la differenza tra l’aver accettato Cristo oppure no. Gerusalemme ha un rapporto unico con Gesù Cristo, ma è Lui la realtà, la novità.


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