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POVERTA'
tratto dal n. 05 - 2002

APPROFONDIMENTI. La Chiesa e il Vertice sull’alimentazione a Roma

Ci vorrebbe una grande coalizione anche contro la fame


L’osservatore della Santa Sede presso la Fao spiega la posizione della Chiesa sulla fame nel mondo, rispondendo ad alcuni quesiti molto comuni nell’opinione pubblica


di monsignor Agostino Marchetto


Una premessa che evita qualche equivoco: il 10 giugno a Roma non è la Fao che si riunisce, bensì i suoi 187 Stati membri a cui, per l’occasione, si aggiungono anche Stati non membri — penso alla Russia —. E tutti al massimo livello di responsabilità, certamente per recitare un "mea culpa", ma anche — è quello che speriamo tutti — per rimboccarsi le maniche. Il "Vertice mondiale sull’alimentazione — 5 anni dopo" sarà un appuntamento per richiamare ciascuno — e la comunità internazionale tutta intera — alla propria responsabilità per far combaciare la volontà politico-umanitaria espressa nel 1996 con la realtà della sicurezza alimentare che oggi registriamo con pena, se teniamo presenti anche le mete fissate allora. Ridurre alla metà entro il 2015 gli affamati nel mondo resta obiettivo lontano, anzi dilatato al 2024 se dovessero mantenersi gli attuali impegni di cooperazione ed assistenza da parte degli Stati.
24mila persone muoiono ogni giorno per denutrizione; i tre quarti di questa umanità sono bambini con meno di cinque anni

24mila persone muoiono ogni giorno per denutrizione; i tre quarti di questa umanità sono bambini con meno di cinque anni

I dati fornitici, per la loro evidenza, ci lasciano, infatti, profondamente delusi. Ed è il senso comune, oltre l’expertise, è la nostra comune umanità, a togliere molto spazio ad ogni possibile giustificazione. È certo questo mondo, il nostro, nel suo insieme — che vive un progresso ed uno sviluppo senza precedenti nella storia — ad abbandonare di fatto, quotidianamente, milioni di persone alla mancanza di debita nutrizione, minacciandone così la sopravvivenza. Vi è dunque una evidente contrapposizione tra le possibilità di intervento concreto, da un lato, e la volontà di attivare e dare operatività a questi possibili impegni, dall’altro.
Segni di ulteriore grave preoccupazione vengono dai tre livelli di analisi che a partire dal Vertice del 1996 la Fao ha individuato per valutare lo stato di insicurezza alimentare nel mondo. Mi riferisco ai consumi, alla salute e al livello nutrizionale, cioè alla effettiva disponibilità di alimenti nelle diverse aree, con particolare riguardo a quelle a rischio o vulnerabili.
A tali aspetti, credo, va oggi ulteriormente aggiunto il diretto riferimento alla sicurezza degli alimenti, di fronte a quelle situazioni che toccano la salute del consumatore per un’omessa sorveglianza sulla qualità degli alimenti. Orbene, le carenze nutrizionali di intere comunità richiedono un adeguato livello di impegno anche in questa prospettiva, per non prevedere un’astratta disponibilità di quantitativi di derrate alimentari senza il relativo safety control, magari in ragione di situazioni d’urgenza e di deficit alimentare. Ciò deriva dal fondamentale diritto di ogni persona ad avere una nutrizione sicura e, parimenti, da quello di ogni comunità e popolo alla sicurezza alimentare.
Tra le cause della fame osserviamo che è stata proprio la Fao a "costruire" il concetto di insicurezza alimentare, facendolo gradualmente evolvere da mere considerazioni di ordine tecnico, legate cioè alla disponibilità di derrate in stoccaggio in ragione dei consumi, a situazione che nega un vero e proprio diritto fondamentale. Ed è proprio il richiamo a questa tematica dei diritti umani — che si vorrebbe alla base degli ulteriori impegni che il "Summit five years later" sarà chiamato a confermare e ad assumere — a consentire di proporre alte considerazioni.
Innanzitutto riteniamo che il diritto alla nutrizione si configura pienamente quale diritto economico e sociale, e pertanto non può configurarsi nella sua piena portata se lo si separa da alcuni fattori concorrenti o da altri diritti e situazioni ad essi connessi, come in effetti prevede giustamente il rispetto del principio dell’interdipendenza dei diritti umani.
Resta però da precisare il significato del diritto alla nutrizione soprattutto in ragione del ruolo che lo Stato deve svolgere per garantirne l’attuazione e quindi il godimento da parte delle persone. La questione — a nostro modo di vedere — tocca direttamente gli impegni del Vertice e quindi preme per la loro conferma, pur in un mutato quadro di riferimento.
Ottocento milioni di affamati. Un mondo sovrappopolato
o un mondo iniquo?
L’attuale produzione di alimenti a livello globale è in grado di sfamare anche una popolazione mondiale più numerosa di quella attuale. È un dato ritornante, per chi segue da vicino l’attività internazionale volta alla lotta contro la fame e la malnutrizione, quello che Giovanni Paolo II già nel 1992 aprendo a Roma la Conferenza internazionale sulla nutrizione, definì il "paradosso dell’abbondanza". La questione, se letta in termini quantitativi — per restare nella logica di chi vede alla radice di ogni male del nostro pianeta il rapporto tra crescita della popolazione e possibilità di disporre delle risorse —, propone evidentemente il problema della distribuzione delle risorse medesime, del loro uso non esclusivo, ma solidale e — nello specifico della alimentazione — della possibilità di accesso al mercato delle risorse alimentari da parte di tutti i Paesi. Ma qui appare subito come la questione della fame sia collegata al più ampio circolo della povertà, dell’iniquità del sistema economico e dei meccanismi del commercio che continuano a marginalizzare i più poveri. E non solo nei Paesi dove il tasso tendenziale di crescita di popolazione risulta elevato. Nel 2001, ad esempio, sugli 815 milioni di persone che soffrono la fame e la malnutrizione, 777 vivevano nei Paesi poveri, 27 milioni in quelli con economie in transizione e 11 milioni nei Paesi industrializzati.
Anche rispetto alle grandi Conferenze degli anni ’90, l’attenzione degli Stati e dei documenti finali, come pure l’indirizzo politico, sembrano spostarsi dalla considerazione della crescita demografica come fattore scatenante le crisi di diverso tipo, alla questione dei comportamenti — individuali e comunitari — in materia di consumi, di stili di vita, di orientamenti che lasciano da parte ogni riferimento alla solidarietà per lasciare spazio al profitto, all’egoismo, alla indifferenza per quanti vivono in condizioni lontane dalle esigenze minime della dignità umana.
Certo l’insicurezza alimentare è una delle cause che maggiormente limitano l’esistenza di persone e di comunità. Tale considerazione non deve però dare all’azione contro la fame e la malnutrizione una portata parziale rispetto a qualcosa d’altro e quindi ridurre gli impegni specifici del Vertice. L’obiettivo nutrizionale andrebbe invece mirato autonomamente, pur considerando l’insicurezza alimentare come uno degli effetti della povertà. Di conseguenza gli obiettivi del Vertice vanno inquadrati fra gli strumenti essenziali della lotta contro la povertà, prima ancora della sanità e della educazione, anche se tutto è da vedersi come insieme.
11 milioni di persone soffrono la fame pur vivendo nei Paesi industrializzati

11 milioni di persone soffrono la fame pur vivendo nei Paesi industrializzati


Quanto pesano i conflitti sull’aumento degli affamati?
Forse l’incidenza dei conflitti — non parliamo solo di guerre in senso stretto — è maggiore di quella che si possa immaginare. Basti pensare che sui 29 Paesi che sono attualmente classificati "in crisi alimentare" per il periodo 2001-2002, solo 13 possono collegare la loro crisi a cause "naturali" o di contingenza economica. Per gli altri le cause sono da imputare a conflitti, che oggi si manifestano non solo nei combattimenti e nella guerriglia, ma anche attraverso la condizione dei rifugiati e degli sfollati, come pure degli spostamenti forzati di popolazione che causano estremo disagio alle popolazioni interessate, determinando fenomeni di abbandono di terre coltivabili e conseguente deterioramento dei livelli di sicurezza alimentare, fino a modificare la composizione etnica di un territorio causando conflitti più vasti.
Tale visione inoltre ci dice che la sicurezza alimentare non può essere confinata alle urgenze o al soccorso nelle situazioni di assoluto degrado ormai "non-sostenibili", anche se in tali contesti essa appare immediatamente come l’unico possibile traguardo dell’attività di "cooperazione".
Aggiungiamo che in un’efficace azione la questione della sicurezza alimentare va inserita tra i più vasti obiettivi della protezione ambientale e quindi dei vari ecosistemi. Ciò significa che la garanzia di approvvigionamenti alimentari non dovrà solo dipendere dall’uso dei terreni o dalla loro disponibilità, ma anche da una politica contro il degrado ambientale e il mancato rispetto dell’ambiente.
Implicita alla sicurezza alimentare è l’esigenza di accesso ai mercati. Diventa allora particolarmente necessario, in questa prospettiva, che il commercio mondiale si apra a considerazioni di solidarietà. La Conferenza ministeriale di Doha nel novembre 2001 ha portato la stessa Organizzazione mondiale del commercio a intraprendere una strada diversa proprio in ragione della necessità di costituire un legame tra il commercio e gli investimenti nei Paesi meno avanzati.
Si fa strada quell’idea lanciata da Giovanni Paolo II di globalizzare la fraternità. Questo significa l’abbattimento effettivo delle barriere doganali, ma tenendo conto della posizione di evidente svantaggio in cui versano i Paesi a basso reddito e con deficit alimentare.
Cosa chiede la Chiesa alla
comunità internazionale?
L’opzione per gli ultimi, per i poveri è al centro non solo delle preoccupazioni e degli appelli della Chiesa e del Papa, ma anche dell’azione della comunità ecclesiale a tutti i livelli. E questo è vero anche in rapporto alla questione della malnutrizione. Mi riferisco, ad esempio, alle due idee centrali di "globalizzare la solidarietà" ed "evitare le esclusioni" con le quali Giovanni Paolo II legge — e invita a farlo — il fenomeno della globalizzazione. Ne troviamo riscontro nel discorso rivolto alla Pontificia Accademia di Scienze sociali il 27 aprile del 2001, dove si sostiene in un passo per me centrale: "La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno. Nessun sistema è fine a se stesso, ed è necessario insistere che la globalizzazione, come ogni altro sistema, dev’essere al servizio della persona umana, della solidarietà e del bene comune". Aggiungo la lettura di qualche altro breve tratto del menzionato discorso, assai significativo: "La globalizzazione non dev’essere una nuova versione di colonialismo... deve rispettare le diversità delle culture... L’umanità, nell’intraprendere il processo di globalizzazione, non può più fare a meno di un codice etico comune". È qui richiamato un elemento fondamentale di umanizzazione della globalizzazione, l’etica, che il Santo Padre menzionò nuovamente in vista del G8, all’Angelus dell’8 luglio 2001. Una diretta applicazione di questo invito alla questione dell’alimentazione è poi contenuta nel Messaggio pontificio letto dal cardinale Sodano all’inaugurazione della 30� Conferenza della Fao, il 5 novembre 2001.
Ancora varrà esaminare l’applicazione di alcuni dei principi permanenti della dottrina sociale cattolica alle manifestazioni odierne della globalizzazione. Mi riferisco alla Chiesa come attore globale con responsabilità globali, all’umanità vista quale unica famiglia, alla "globalizzazione in solidarietà", appunto, alla questione sociale che concerne tutti, alla necessità di non assolutizzare l’economia e il mercato. Ancora mi riferisco alla centralità della persona umana e al bene comune universale (globale), nonché alle strutture indispensabili per garantirlo, e alla destinazione universale dei beni creati.
Comunque, in relazione alla globalizzazione, credo bisognerà elaborare una nuova frontiera della dottrina sociale della Chiesa.
L’invito che da questi richiami ricaviamo è anzitutto la ricerca di un accorto metodo di intervento della comunità internazionale nella lotta contro la fame che deve porre la dovuta attenzione a tutti i fattori, potenziali o effettivi, della malnutrizione, ma stando attenti a non legare la sicurezza alimentare ad altre situazioni che, pur importanti, rischiano di non mobilizzare tutte le forze necessarie a motivo di differenti obiettivi e principi. Questo approccio dovrebbe segnare anche il riferimento a malattie e contagi che, propagandosi, mettono a grave rischio la salute umana e allo stesso tempo mostrano evidenti ripercussioni sulla sicurezza alimentare. Mi riferisco, in particolare, a quelle infezioni e patologie come ad esempio il virus Hiv/Aids, la malaria, le infezioni respiratorie, il morbillo, i parassiti intestinali che vengono indicati come maggiori responsabili della insicurezza alimentare o di alcune delle sue componenti.
L’attività di prevenzione per malattie ed epidemie, come pure l’assistenza medica e farmacologica a quanti ne sono vittime, resta pertanto una questione di solidarietà che si trasforma in obbligo di giustizia quando la vita umana e la sopravvivenza di persone dipende dall’uso di terapie e farmaci indisponibili a causa di situazioni di povertà o di accentuata protezione dei diritti di proprietà intellettuale.
La Chiesa, anche in questo contesto, chiede che vengano garantiti anzitutto i soggetti più vulnerabili, ma nel rispetto della coscienza di ognuno, delle visioni religiose e delle diverse culture. La prevenzione dunque deve essere capace di educare, anche nella sfera psicologica, affettiva e della sessualità, per evitare, tra l’altro, abitudini sbagliate, comportamenti a rischio o uso di sostanze che possono essere veicolo delle richiamate infezioni o malattie gravi. Questo approccio permette un contributo al fine di raggiungere gli obiettivi preposti, anche a chi — e noi siamo tra questi — non condivide certe applicazioni di programmi preventivi per legittime ragioni etiche, e/o religiose, e/o culturali.

La presenza della
Santa Sede nella Fao:
una coscienza critica?
È dal 1948 che la Santa Sede ha un proprio osservatore permanente presso la Fao; il rapporto è iniziato dunque solo tre anni dopo la sua fondazione. Si tratta dunque della prima organizzazione delle Nazioni Unite ad avere una tale presenza di Chiesa, della Santa Sede. Ma la nostra presenza è oggi non solo presso la Fao ma anche presso gli altri organismi delle Nazioni Unite (Ifad e Pam) che hanno sollecitudine per l’agricoltura e l’alimentazione, con sede a Roma.
La Santa Sede, dunque, al pari degli Stati, anche se essa non è uno Stato (pur godendo di quel fazzoletto di terra che si chiama Città del Vaticano, al fine di essere libera nei confronti dei potenti di questo mondo), intrattiene relazioni con il "polo romano" delle Nazioni Unite, inserendo tale presenza nel quadro complessivo delle sue relazioni, sia bilaterali che multilaterali, nella comunità internazionale.
Nel contesto cioè di una prospettiva che si potrebbe già definire di "globalizzazione", di responsabilità mondiale, di crescita di coscienza di essere un’unica famiglia umana — e perciò di responsabilità di tutti, con approfondimento dei legami che ci sono tra effetti di alcuni fenomeni in certi Paesi e ripercussioni nel mondo intero (come avviene ad esempio per l’economia, l’ecologia, la pesca, l’agricoltura, la zootecnia) — cresce anche l’importanza di specifici organismi internazionali (la famiglia delle Nazioni Unite), che hanno finalità proprie. Si tratta di strumenti di concertazione, di dialogo, di pensiero, di indirizzo, di studio, di riflessione, ma anche di contestazione e di critica. In altri termini la Santa Sede si ritrova in un’arena internazionale in cui ogni membro porta le proprie idee ed aspirazioni, le proprie necessità ed il suo apporto.
In tale contesto la Chiesa, rispetto alle organizzazioni internazionali, è "coscienza critica" e si presenta come "esperta in umanità", secondo le parole di Paolo VI.
Evidentemente dicendo "coscienza" ci si vuole riferire al senso di responsabilità. Si vuol cioè evidenziare che ci sono dei livelli di responsabilità mondiali che meritano l’attenzione della Santa Sede, la quale ha una sollecitudine per tutta l’umanità, indipendentemente dai confini visibili del cattolicesimo.
Quando si entra ad esempio nel campo dei diritti dell’uomo, fra cui vi è, legato alla vita, quello della sicurezza alimentare, per stare nel nostro ambito, è evidente che si parla di un insieme di diritti che sono per tutti gli uomini. In questo campo la Santa Sede si propone specialmente come coscienza critica.
Storicamente — questo è un fatto — con la crescita dell’insieme articolato e complesso di organizzazioni internazionali e l’importanza di una visione d’insieme, a livello mondiale, delle cose, sono cresciuti altresì l’interesse e l’importanza, all’interno della stessa Santa Sede, delle relazioni con questi organismi. In effetti, sono tali, oggi, i condizionamenti che essi pongono in relazione ai singoli Stati che è importante una presenza ecclesiale, di servizio, di coscienza e di umanizzazione, di rispetto e di attenzione allo sviluppo integrale dei popoli, all’interno di queste istituzioni. Ecco, ci siamo: qui sta la spinta per la nostra partecipazione.
C’è dunque, concludendo, da parte della Santa Sede una viva attenzione per le organizzazioni internazionali, che si pone nella linea dell’importanza crescente di questi organismi all’interno della realtà delle relazioni internazionali odierne. Certo si tratta di una coscienza critica, ed è un aspetto della coscienza (che valuta), con particolare attenzione alla dimensione "umana" delle relazioni internazionali.
Quanto alle accuse che qualche volta vengono mosse alla Fao di essere troppo burocratizzata ed elefantiaca va tenuto presente che oltre al rispetto dello statuto, l’organizzazione è soggetta a decisioni degli Stati membri. Per esempio il suo bilancio è bloccato da tempo alla "crescita zero", il che non è sufficiente se si pensa che il Programma alimentare mondiale eroga in un anno oltre un miliardo di dollari in beni e servizi. Poi gli studi e i servizi richiesti alla Fao (che si occupa pure di foreste e pesca) si sono moltiplicati, da parte degli Stati, che considerano l’organizzazione un po’ come la loro longa manus nella formulazione e realizzazione dei propri piani agricoli e nutrizionali. Con ciò non voglio farmi avvocato della Fao, riconoscendone anche i problemi e le carenze burocratiche, nel contesto però della famiglia Onu, e non solo. E anche questi sono limiti.
La Fao è quello che gli Stati membri vogliono che sia. La sua utilità è sotto gli occhi di chi, minimamente, sia pronto a coglierne il lavoro e le finalità che non sono riconducibili agli aiuti alimentari — compito che spetta al Pam, intervenuto con 4,2 milioni di tonnellate di viveri nel 2001 — ma a fornire supporti tecnici, studi di settori, progetti di legge agli Stati membri. Evidentemente deve farlo con un bilancio che — per due anni — non superi il mezzo miliardo di dollari, poca cosa se pensiamo ad esempio a quanto una impresa transnazionale investe annualmente per la sola pubblicità.
Solo 32 dei 99 Paesi in via di sviluppo hanno registrato la diminuzione del numero degli affamati tra il 1990 e il 2000

Solo 32 dei 99 Paesi in via di sviluppo hanno registrato la diminuzione del numero degli affamati tra il 1990 e il 2000


Le iniziative della Santa
Sede nella Fao: senza voto senza peso?
Parlare di iniziative fa venire in mente il sostegno che la Santa Sede dà continuamente alle attività delle organizzazioni del "polo romano" delle Nazioni Unite. Debbo subito aggiungere peraltro una considerazione sulla mia veste giuridica di osservatore permanente, a causa del non essere la Santa Sede, in genere, "membro" dei vari organismi internazionali.
Orbene credo che questa forma di presenza (con un osservatore permanente) sia proprio una delle dimostrazioni più importanti della particolarità della Santa Sede, della particolarità proprio della sua figura giuridica internazionale: e cioè presenza, la sua, ma nello stesso tempo alteritas, diversità rispetto agli altri soggetti di diritto internazionale.
L’importanza di questa "incarnazione" in tale ambiente internazionale si esprime quindi nel "coltivare" tutto quello che è manifestazione di sollecitudine per la comunità mondiale, che si esprime anche attraverso gli organismi internazionali, conservando tuttavia la sua specificità, la sua caratteristica più importante che è di essere in fondo, si potrebbe dire in termini giuridici, super partes. Nella misura in cui diventa "membro" a tutti gli effetti di questa "comunità", la Santa Sede non perde perciò, non deve perdere, le proprie caratteristiche peculiari.
La Santa Sede, pur essendo astrattamente abilitata quindi ad ogni azione in ambito internazionale, anche per questo, nel contesto delle organizzazioni internazionali, ha scelto essa stessa di partecipare ai relativi consessi mediante la figura giuridica dell’osservatore permanente.
Ai fini della sua presenza tale figura appare come la più consona e confacente alla sua specifica natura.
Questa però è in ogni caso una libera scelta della Santa Sede, è un’autolimitazione, diciamo così, che non è imposta da nessun altro soggetto internazionale, in quanto, in fatto di diritto, la Santa Sede potrebbe benissimo partecipare a tali consessi internazionali anche infullness (e in qualche caso lo fa).
Questo di essere super partes non impedisce certo alla Santa Sede di presentare al consesso delle nazioni la dottrina sociale della Chiesa, che per molti versi ci avvicina nel concreto alle posizioni del terzo e quarto mondo. Anche nei nostri discorsi, nelle varie organizzazioni internazionali, ci si rende conto che esiste per noi una particolare "lunghezza d’onda" di simpatia, di attenzione, di solidarietà verso i Paesi più poveri, più deboli. Però in ogni caso la linea della Santa Sede non è mai di parte. La Santa Sede infatti non è membro del "Gruppo dei 77", anche se abbastanza sovente può sposare la causa o le richieste giuste e legittime dei Paesi che ne fanno parte.
Se l’osservatore permanente non ha diritto di voto, tuttavia ha la possibilità di intervenire, di manifestare i propri pensieri, le proprie convinzioni, il punto di vista della Santa Sede. Ha la possibilità di contattare, di concertarsi con i rappresentanti degli Stati. Naturalmente, in genere, gli osservatori intervengono dopo di essi, ma questa è solo una questione di procedura. Dunque, l’unica cosa che non fa parte del bagaglio delle possibilità dell’osservatore permanente è il voto. Tuttavia ci sono anche dei vantaggi che scaturiscono da questa situazione (e che si sono già evidenziati), i quali permettono alla Santa Sede di non essere mai parte in causa, pur restando sempre in causa. Ne abbiamo già fatto cenno.
Aggiungerei qui che le motivazioni principali che animano la Santa Sede nella sua azione presso un’organizzazione come la Fao sono quelle che si desumono dai principi scaturiti dal Concilio Vaticano II. Io credo, a questo riguardo, che la Costituzione pastorale Gaudium et spes certamente abbia creato una coscienza nuova, aggiornata, della responsabilità della Chiesa in relazione con il mondo, sotto tutte le sue varie espressioni. In effetti, dopo aver enunciato colà i principi, si è scesi anche a realtà concrete: ad esempio la pace, la cultura, la giustizia, l’economia, la famiglia, ecc. Sono — come si vede — problemi mondiali a cui si danno risposte o tentativi di risposta. Questo esige ora, se si parla di coscienza nuova, aggiornata, e se si parla di queste finalità, che la Chiesa stessa assuma atteggiamenti rinnovati in questi contesti e milieux nei quali l’umanità "vive"; si deve cioè concretamente cercare di essere fermento in questi mondi. Direi quindi che più cresce la coscienza — e questa certamente con il Concilio Vaticano II si è approfondita — più cresce la necessità di essere presenti nel mondo.
La Santa Sede si pone, direi, ad un altro livello rispetto agli Stati. Il che non significa distacco, ripeto. Anzi agli inizi dell’esperienza della Missione permanente presso la Fao vi fu un gruppo di contatto di religiosi che fecero, diciamo così, da "trait d’union" tra la Fao stessa e le congregazioni religiose. I tempi però cambiarono, anche se un "residuo" dell’antica "organizzazione" rimane, ma indipendente da questa Missione permanente di osservazione.
Di fronte all’emergenza alimentare le proposte della Santa Sede sono state sintetizzate nel mio intervento alla 27� sessione del Comitato per la sicurezza alimentare (Cfs), chiamata a particolare preparazione del "Vertice mondiale sull’alimentazione — 5 anni dopo".
In effetti, escludendo il tema della remissione del debito estero a certe condizioni, già molte volte presentato dal Papa e dalla Santa Sede ai responsabili delle nazioni, e all’invito di versare lo 0,7% del Pil per lo sviluppo, mi pare che si trovino nel mio discorso tutti i punti di particolare "interesse" della Santa Sede, aggiungendo peraltro le considerazioni sul settore pesca che, assieme a quello delle foreste, è pure campo della sollecitudine della Fao. Dicevo, in quell’intervento, che la Santa Sede, particolarmente sensibile alla gravissima questione della fame e della malnutrizione nel mondo, offre, insieme alla propria disponibilità di concertazione e azione in materia, alcuni spunti di riflessione che potranno concorrere ad operare adeguate scelte politiche e concretizzare interventi all’altezza delle odierne necessità. E lo fa partendo proprio dall’ausilio dei dati messi a disposizione che rendono aderenti alla realtà le nostre valutazioni di ordine etico, le quali appartengono più propriamente alla natura e alla missione della Santa Sede.
È un metodo, questo, che scruta la realtà per coglierne, con i positivi risvolti, le situazioni che impediscono a moltissimi la integrale crescita della persona — nel riconoscimento della sua centralità nella società —, per combatterle, anche attraverso scelte di politica internazionale nel settore dell’alimentazione e della sicurezza alimentare. Questo settore — mi permetto di sottolinearlo — ci sta particolarmente a cuore, proprio nella prospettiva del "World Food Summit — cinque anni dopo".

La protesta di piazza giova
alla causa degli affamati?
Penso che siamo qui tutti animati dal desiderio di evitare che il Vertice si limiti ad una carrellata, pur interessante e di alto profilo tecnico, di interventi e di tavole rotonde. Tutto questo infatti sarà utile solo se connesso con effettive manifestazioni di volontà politica e con linee operative e di mobilitazione di risorse umane e finanziarie che vadano a costituire altrettanti impegni concreti.
La società civile da parte sua è direttamente chiamata in causa dal Vertice verso un obiettivo che richiede una "grande coalizione contro la fame" capace di coinvolgere non solo i governi e le organizzazioni intergovernative, ma proprio le opinioni pubbliche e le forme organizzate della società civile.
La questione che si pone, pertanto, non è quella di manifestare contro la Fao o il Vertice in sé, quanto di favorire una informazione e formazione delle coscienze che porti a considerare la fame e la malnutrizione come priorità nelle scelte politiche. Su questa linea, del resto, si muove la Santa Sede in campo internazionale, richiamando i principi e lasciando alla competente autorità la mediazione politica ed economica in senso stretto per il passaggio all’azione. Alla opinione pubblica poi, alle Ong, alla società civile, alle organizzazioni cattoliche, in consonanza con i loro statuti, appartiene il compito di partecipare al grande impegno di dar da mangiare agli affamati.


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