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UNESCO
tratto dal n. 12 - 1999

UNESCO. Il ruolo della cultura e la ricerca di modelli di sviluppo sostenibile nel mondo

Cercando un pensiero pratico comune


Intervista con la senatrice Tullia Carettoni Romagnoli, presidente della Commissione nazionale italiana per l’Unesco. Le strategie di questa agenzia dell’Onu in cui il nostro Paese gode della stima di moltissimi Paesi del terzo mondo


di Roberto Rotondo


«Siamo in tempi di globalizzazione, che è motivo, soprattutto in campo culturale, di grandi diffidenze, malintesi, contrasti, conflitti. E l’Unesco è il luogo deputato alla ricerca, all’organizzazione culturale, alla mediazione, alla funzione di portavoce di tante esigenze, di tante ingiustizie che spesso l’ipocrisia nasconde». Tullia Carettoni Romagnoli, senatrice, presidente della Commissione nazionale italiana per l’Unesco, sintetizza così il ruolo fondamentale di questa agenzia dell’Onu, conosciuta soprattutto per la difesa dei beni culturali nel mondo e per l’impegno nell’educazione. Con Tullia Carettoni abbiamo fatto il punto sulle strategie dell’Unesco alla luce dei risultati della XXX Conferenza generale di Parigi del novembre 1999. Spiega la senatrice Carettoni: «A Parigi sono state evidenziate due cose. Primo, la necessità di spingere di più sull’“educazione di base”, cioè l’alfabetizzazione, all’interno di quel filone chiave dell’azione dell’Unesco che è l’“educazione permanente”; quindi un impegno maggiore in programmi di alfabetizzazione che siano anche un veicolo per educare alla pace e alla convivenza. Secondo, promuovere il dibattito sulla comunicazione globale. Il mondo della comunicazione e dei media oggi è totalmente nelle mani dell’Occidente e i nostri valori e i nostri modelli raggiungono anche l’angolo più sperduto della terra. Gli altri Paesi si sentono colonizzati e vittime di una prepotenza. Non è in gioco solo il diritto di accedere alla comunicazione, ma anche quello di “dare” comunicazione. Sono contenta che Koichiro Matsuura, il nuovo direttore dell’Unesco, nel suo discorso di insediamento abbia sottolineato questo problema, che noi già sentivamo da tempo, visto che l’Italia all’interno dell’Unesco gode della stima di molti Paesi del terzo mondo e ne raccoglie le istanze».
Lezione a una scolaresca in Africa. Per  Tullia Carettoni Romagnoli il summit di Parigi ha sottolineato l’importanza dell’educazione di base. Ed ha raccolto le istanze dei Paesi 
del terzo mondo che vogliono entrare nel sistema della comunicazione globale

Lezione a una scolaresca in Africa. Per Tullia Carettoni Romagnoli il summit di Parigi ha sottolineato l’importanza dell’educazione di base. Ed ha raccolto le istanze dei Paesi del terzo mondo che vogliono entrare nel sistema della comunicazione globale

Quindi anche nell’Unesco si registrano quei conflitti che si sono creati con il processo di globalizzazione neoliberista? Riprende la Carettoni: «Oggi l’interdipendenza tra i Paesi del mondo è in crescita (commercio, circolazione dei capitali, immigrazioni, uso di tecnologie avanzate nella comunicazione e nei trasporti); di fronte alla maestosità del fattore economico si tende a sottovalutare l’importanza dei fattori culturali; la “mondializzazione” della cultura, che pure avviene, anche se a livelli assai superficiali: abbigliamento, gusto, costume. Già questi tre dati di per sé tagliano fuori larghe fasce di popolazione e buona parte dei Paesi meno fortunati. Ovvio, quindi, che, davanti a tale tipo di mondializzazione, si creino reazioni nazionalistiche, tribalistiche, fondamentalistiche. Lo sviluppo dovrebbe essere un processo di partecipazione creativa nel quale tutti hanno un ruolo da svolgere. Ma così non è».
L’Unesco si sente un’organizzazione tagliata fuori da questo progresso selvaggio che non tiene conto del ruolo della cultura, della possibilità di studiare ed elaborare modelli di sviluppo sostenibili, che portino verso la pace dei popoli e non verso la creazione di nuovi conflitti sociali? «No, perché l’Unesco ha affrontato tutti i problemi che sono stati e sono il simbolo dei giganteschi mutamenti dell’ultimo cinquantennio. Valga un solo dato: i Paesi aderenti all’Unesco erano venti all’inizio, oggi sono 186. È una folla di etnie e di culture che ha spinto e spinge perché si passi da una visione eurocentrica a una visone mondiale. Da una cultura egemone a un multiculturalismo».
Più facile a dirsi che a mettersi in pratica… «È vero. Il superamento del concetto di “cultura egemone” è difficile nelle operazioni quotidiane e concrete. Così dicasi del sacrosanto principio della pari dignità delle culture e del necessario continuo raccordo fra la libertà e la pluralità delle culture e le logiche governative. Ma lo sappiamo, l’Unesco non ha avuto, non ha e non avrà vita facile. Giova fare un po’ di storia: lUnesco nasce sotto le bombe della seconda guerra mondiale, nel 1942, nell’ufficio londinese del signor Butler, presidente del Board of Education, in cui si tiene una riunione di esponenti di Paesi alleati che si pongono – in un momento in cui non era del tutto chiaro come sarebbe andata a finire – il problema del “dopo” la guerra, del domani, di come sanare le ferite, ricucire i rapporti, superare le rotture fra gli animi. I ministri dell’Educazione dei Paesi alleati, sempre in quel 1942, faranno propria l’idea di giungere a una Organizzazione internazionale per l’educazione. Ci si arriverà presto: nel novembre 1945 nascerà infatti l’Uneco (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione e la cultura) cui si aggiungerà rapidamente la “s” di scienza. Ed ecco l’Unesco, che comincerà il suo cammino affermando che “poiché le guerre nascono nello spirito degli uomini è nello spirito degli uomini che devono essere innalzate le difese della pace”. L’Italia, Paese vinto, entrerà nel 1947. Negli anni Cinquanta, su spinta degli Usa – che ne usciranno poi nel 1984 –, l’Unesco diventa un’agenzia dell’Onu, cioè un’organizzazione multilaterale di Stati membri, dunque di governi. Si trova quindi tra due fuochi: essere un’organizzazione di Stati e dover essere luogo di incontro-scontro di tutte le culture (“a pari dignità”, recitano le carte) indipendentemente dai filtri governativi (e di qui infiniti malintesi); cui si aggiunge un terzo fuoco se pensiamo che un organismo voluto e nato dalla cultura occidentale, indiscussamente egemone nella prima metà del secolo, ha dovuto fare i conti con la decolonizzazione, prima, e con il crollo del blocco sovietico, poi. Se teniamo ben presente questa storia, capiamo molte cose. Apprezziamo per esempio la fedeltà all’ideale di Maritain, che invita a “credere nella possibilità di una struttura sovranazionale che possa impegnarsi culturalmente per la pace”. Dirà infatti in Messico alla II Conferenza generale nel 1982: “L’accordo degli spiriti si può fare non su un pensiero speculativo comune ma su un pensiero pratico comune […] su uno stesso insieme di convinzioni che dirigano l’azione”. Idee che trovo ancora oggi molto attuali».
Ma anche individuare «convinzioni che dirigano l’azione» che siano valide per tutti mi sembra molto difficile. Non solo: lei ha parlato della pari dignità delle culture e dunque dell’importanza delle varie “radici” culturali. Ma quello stesso uomo che si esorta a esaltare le sue radici è, o può divenire, cittadino del villaggio globale e quindi ha diritto all’accesso al progresso della scienza, della tecnologia, alla tutela dei diritti umani. Sembrano spinte antitetiche: come conciliarle? Risponde la Carettoni: «È un problema complesso. È vero che molte volte quello che per noi è un valore positivo per altri è imperialismo e non possiamo avere la pretesa di rappresentare l’umanità. La molto evocata società multiculturale dovrebbe essere questo, un luogo dove sono rispettate le tradizioni e le culture di tutti ma dove ognuno può liberamente accedere ai progressi della scienza e della tecnologia. Per questo l’Unesco dedica una parte essenziale del suo impegno al tema delle diversità culturali. E non vi è dubbio che in funzione delle diversità delle culture e dei diversi valori si apre una discussione sui massimi princìpi. Prendiamo ad esempio i diritti umani. A parte le “celebrazioni ufficiali” è stata la riflessione che abbiamo condotto lungo questo anno dedicato, appunto, al cinquantenario della Carta dei diritti umani. La visione dei diritti da una parte individualistica (tipica dell’Occidente) e dall’altra comunitaria (tipica, per esempio, dei Paesi africani, per cui è più importante il popolo, la tribù, che il singolo) non appare affatto superata. Tanto che si parla sempre più di minimo comune denominatore e della necessità di una riflessione sulla condizione umana che può essere – questa sì – davvero collettiva e comune. E poi anche nel campo dei diritti umani una sorta di métissage è in atto. Senza il principio squisitamente occidentale e individualistico di “una persona, un voto”, Mandela, Nehru Kenyatta avrebbero vinto le loro battaglie?». Qual è allora la via giusta? «Fare le cose assieme. È difficile ma inevitabile. Inoltre non dobbiamo pensare che i Paesi in via di sviluppo seguiranno in nostri stessi passi, come se noi fossimo più avanti (e quindi superiori) in un processo di sviluppo che è uguale per tutti. Molti popoli, anche aiutati dal progresso tecnologico, possono fare dei passi in avanti senza per questo seguire la strada che abbiamo fatto noi».
Un’ultima domanda è sul ruolo dell’Italia nell’Unesco. «È un ruolo importante. Non solo perché siamo il primo Paese finanziatore e non solo perché siamo un Paese con un patrimonio artistico e culturale senza pari, ma anche per il lavoro svolto in questi anni, che ci ha fatto guadagnare credito presso tantissimi Paesi, specie del terzo mondo, come accennavo prima. Basti pensare che il nostro recente rientro nel Consiglio esecutivo è stato deciso con un voto plebiscitario e che siamo l’unico Paese europeo che è stato rieletto nel Comitato per il patrimonio. Anche grazie al successo della Conferenza internazionale di Firenze nell’ottobre del 1999, organizzata dalla Banca mondiale e dal governo italiano in collaborazione con l’Unesco. È stato un tentativo di legare il mondo della finanza a quello della cultura, perché l’Unesco deve essere un luogo di elaborazione e di studio. Quello che rimprovero alla passata presidenza, infatti, è di aver organizzato grandi parate, ma di essere stata incapace di coinvolgere le menti migliori, l’intellighenzia, in un progetto serio. Comunque, a Firenze l’Italia ha dato una testimonianza di solidarietà unica: pur cosciente dei problemi e delle esigenze del nostro patrimonio artistico ha sostenuto, anche finanziariamente, il recupero e la conservazione di molti siti in Paesi più poveri».


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