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LIBIA
tratto dal n. 10 - 1999

Incontro con Abdulrramahan Shalgam

Tripoli, Europa


Gheddafi ha festeggiato trenta anni al potere. Il Paese, uscito dall’embargo, opera nel Mediterraneo e in Africa come mediatore di pace. E punta sull’Italia per abbracciare il vecchio continente


Intervista con Abdulrramahan Shalgam di Giovanni Cubeddu


Il leader libico con il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika

Il leader libico con il presidente algerino Abdelaziz Bouteflika

Abdulrramahan Shalgam si trova alle prese con un’epoca di grandi opportunità. Da segretario del Congresso del popolo libico per gli Affari esteri fa il viaggiatore globale, per tener dietro alle nuove vie di dialogo che “La Guida” (“al-Quaid”) Muammar al-Gheddafi da qualche tempo apre di continuo per tentare (e ci riesce) di garantire alla Libia un nuovo status nello scacchiere internazionale. Il 6 aprile scorso Tripoli ha guadagnato la sospensione delle sanzioni imposte dall’Onu nel ’92 – Gheddafi ha consegnato alla giustizia internazionale i due funzionari libici sospettati di aver causato con una bomba il disastro aereo di Lockerbie del dicembre ’88 (270 morti) – e i riflettori di nuovo accesi sulla “Jamahiriya araba, libica, socialista popolare” hanno fatto conoscere un Paese che vuole tagliare i ponti con gli errori e le incomprensioni del passato (quando, soprattutto da parte di Gran Bretagna e Stati Uniti, lo si accusava di ogni male possibile come alfiere del terrorismo mondiale). E ancor di più hanno reso pubblico quel paradosso che da tempo appassionava gli analisti: la Libia reietta di Gheddafi opera nel mondo come mediatore di pace, come una potenza di buon rango seriamente intenzionata ad esercitare tutta la sua influenza in Africa nera (e Asia), obiettivo geopolitico già noto, ma di nuovo evocato dal colonnello alla fine di agosto quando, una volta di più, ha platealmente criticato i fratelli arabi: «Ho mollato il mondo arabo, un’aberrazione… Il Ciad è più vicino alla Libia del Libano e il Niger mi è più vicino dell’Iraq», ha detto, non risparmiandosi però battute polemiche all’indirizzo del processo di pace israelo-palestinese, pur affermando di non interessarsene.
Il 1° settembre scorso il colonnello Gheddafi ha festeggiato trent’anni di vita al potere, e oggi più di ieri appare a tutti chiaro che il futuro riserva a “Gheddafi l’africano” grandi chance nelle crisi regionali africane come uomo della provvidenza, una provvidenza islamica che non disdegna nemmeno un discreto proselitismo religioso.
Abbiamo incontrato Abdulrramahan Shalgam a Roma, capitale europea prediletta dalla diplomazia tripolina. L’Italia, avendo chiuso il 4 luglio ’98 con un Documento congiunto il contenzioso seguito all’epoca coloniale (che ha visto il nostro Paese occupare la Libia dal 1911 al ’43), è il primo partner “morale” ed economico del regime libico: tanto per citare, il contratto concluso in luglio sul gasdotto tra la Sicilia e la Libia vale diecimila miliardi di lire, ed è il più grande affare realizzato sinora dall’Occidente con Gheddafi. Vista da Tripoli, l’Italia è la sponda amica per agganciarsi all’Unione europea, Italia che Shalgam conosce bene per esservi stato lunghi anni ambasciatore. È dai suoi ricordi romani iniziamo.

Eccellenza, come trova l’Italia?
ABDULRRAMAHAN SHALGAM: Con voi abbiamo sempre mantenuto un rapporto speciale. Ho sempre sostenuto che i problemi del passato, legati alla colonizzazione italiana in Libia, andassero ben interpretati per costruire un futuro comune. Quando venni in Italia nell’84 lavorai con Andreotti, che tra gli statisti italiani ed europei più di ogni altro conosce la geopolitica del Mediterraneo. Fu un’occasione grande per approfondire il legame italo-libico. Non dimentichiamoci che i nostri Paesi sono partner strategici in molte situazioni: la Tamoil, l’investimento in Fiat e in Banca di Roma, la Banca Ubae, l’Agip, e ora il gasdotto siculo-libico. Tutto ciò, nonostante vi fosse ancora la guerra fredda, e la collocazione differente dei nostri rispettivi governi non favorisse piene e sincere relazioni. Oggi è diverso.
E come trova il nostro Mediterraneo? Voi libici lo avete sempre indicato come un “lago di pace”…
SHALGAM: Abbiamo cominciato negli anni Ottanta a collaborare con il gruppo “5+5” [conferenza di cooperazione euro-mediterranea che comprendeva cinque Paesi della sponda nord: Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Malta – e cinque della sponda sud: Libia, Algeria, Tunisia, Marocco e Mauritania]. Quell’esperienza di confronto tra i Paesi del Maghreb e la sponda meridionale europea non deve andare perduta, proprio adesso che possiamo andare avanti. Cito l’esempio della guerra in Iugoslavia, in cui anche la Libia si è adoperata attivamente a livello diplomatico per evitare il degenerare degli scontri etnici e l’escalation verso la terza guerra mondiale.
La mediazione offerta dal suo Paese durante la guerra in Iugoslavia ha stupito molti.
SHALGAM: Subito dopo la rivoluzione libica del ’69 abbiamo cercato di giocare ovunque un ruolo specifico e pacifico. La divisione del mondo in blocchi però imponeva che ogni comportamento dovesse essere ricompreso “pro o contro” una delle due superpotenze, e se ci trovavamo a criticare il colonialismo americano o europeo, venivamo subito incasellati come terroristi. Vi cito adesso qualche caso per il quale gli americani ci accusavano di terrorismo internazionale: a) l’aiuto a Mandela e ai neri del Sudafrica, ed oggi quando Mandela va alla Casa Bianca si affrettano a srotolare il tappeto rosso; b) l’appoggio ai palestinesi di Arafat, con il quale oggi Israele tratta dopo aver a suo tempo tentato di ucciderlo; c) il sostegno a Robert Mugabe, leader nella lotta di liberazione dello Zimbabwe, oggi acclamato tra gli uomini nuovi dell’Africa. Come sono cambiati i tempi! Ma noi siamo stati sempre dalla stessa parte.
La Libia uscita dall’embargo cerca un ruolo di prestigio nel Mediterraneo e in Africa. Quali sono i punti chiave della nuova politica estera di Gheddafi?
SHALGAM: Prima di rispondere la invito a guardare la carta geografica. Noi libici facciamo parte del mondo arabo, dell’Africa e del Mediterraneo. Abbiamo assistito al lungo conflitto arabo-israeliano, ai guasti del fanatismo musulmano nel Maghreb e, in Africa, a guerre civili che, come nel conflitto tra tutsi e hutu in Ruanda qualcuno dice abbiano ucciso fino a 700mila persone. E se vi fosse un’escalation cosa ci accadrebbe? Ai nostri confini già ora giungono le masse dei profughi che fuggono dalle aree di crisi, dal Sahel sahariano, dal Ciad, dal Niger, dal Sudan. Per questo la Libia cerca la pace regionale. Per questo Tripoli è diventata meta fissa di numerosi leader e capi di Stato africani. Sappiate che se scoppia di nuovo la guerra civile in Africa, non se ne troverà più il filo.
Secondo fronte, l’Europa. Ho già detto che chiediamo il ripristino della formula di dialogo “5+5”.
Muammar Gheddafi con il presidente della Repubblica Sudafricana Nelson Mandela

Muammar Gheddafi con il presidente della Repubblica Sudafricana Nelson Mandela

Terzo, la Libia si impegna per l’Unione del Maghreb. I maghrebini vedono nell’Europa la luce della civiltà, del progresso e del lavoro, e i nostri giovani migrano con questo desiderio nel cuore. La massa dei clandestini potrà essere fermata iniziando a far brillare qui da noi le medesime luci, attraverso un saggio impulso alla cooperazione, bilaterale e multilaterale. La Libia gioca la carta della Nuova Africa, del Nuovo Mediterraneo in termini di impegno politico. Guardando al Kosovo i musulmani più accesi potrebbero dire: «Guardate cosa hanno fatto i cristiani ai nostri fratelli albanesi… Dobbiamo ripagare con la stessa moneta!»… No! L’alternativa è il lavoro comune in progetti che creino qui nel Maghreb posti di lavoro e prospettive.
Qual è la situazione interna a proposito del fanatismo musulmano? Talvolta si hanno notizie di fermenti pericolosi anche in Libia.
SHALGAM: I fanatici sono loro stessi vittime di una non comprensione dell’islam. Quando trovo qualcuno che mi dice che tutto si riduce al Corano, io gli chiedo cosa vi sia di specifico contro la disoccupazione, o circa lo sviluppo, la sanità, le banche… Il fanatismo esiste, come da voi esiste la criminalità, ma il nostro popolo è contrario, soprattutto dopo aver visto le stragi terroristiche in Algeria. E in definitiva, possiamo dire che è un fanatismo senza radici.
Nessuno nega più l’importante funzione del sistema libico come bastione contro l’avanzata dell’integralismo.
SHALGAM: I fanatici negano il modello europeo e vorrebbero riproporre uno Stato tale e quale a quello dell’epoca del profeta Maometto, quando Medina era un villaggio di qualche centinaio di abitanti. Noi libici invece vogliamo far vivere l’islam in un sistema di democrazia diretta, di rispetto della donna (che da noi è anche soldato!), di progresso. L’Europa ha la grande possibilità di capire che noi vogliamo vivere la civiltà europea, e che se ci abbandona lascia solo il campo libero ad un islam più arretrato e conservatore. Invece spesso l’Europa si deresponsabilizza accogliendo certe immagini da stereotipo del colonnello Gheddafi, quando invece dobbiamo guardarci negli occhi e capire perché accadono eventi come il Kosovo, i Grandi Laghi, Hong Kong.
Quale è il posto delle minoranze nel vostro Paese? Dei cristiani, ad esempio. La Santa Sede da due anni, ben prima quindi della fine dell’embargo, ha coraggiosamente allacciato rapporti diplomatici con la Libia.
SHALGAM: Non esiste in Libia una minoranza cattolica, perché il concetto di minoranza riguarda i cittadini all’interno di uno stesso Paese, e nel caso cattolico parliamo invece di circa 50-60mila operatori stranieri che lavorano spesso per società estere. I libici autoctoni sono al cento per cento musulmani. Ma noi siamo allo stesso tempo l’unico Paese musulmano che consente l’apertura delle chiese cattoliche. Anche Egitto, Siria, Libano e Iraq lo permettono, ma lì esistono vere minoranze autoctone. Qui no. Questo lo sanno bene anche monsignor Tauran e il Papa, con i quali manteniamo rapporti ottimi. Il Papa stesso più volte ci ha detto di aver pregato e di pregare per il colonnello Gheddafi, perché «lui è pieno di una grande ricchezza spirituale contro il materialismo e contro il comunismo».
In Sudafrica ora è al potere Thabo Mbeki, delfino di Mandela, che ha aiutato Gheddafi e la pace globale nel continente nero.
SHALGAM: Quando Mandela era in carcere noi abbiamo lavorato con Mbeki, e lui conosce la Libia più di Mandela stesso. Dunque, siamo contenti che lui governi.
Ma il rapporto non è circoscrivibile al binomio Gheddafi-Mandela, è un legame di popoli. Insieme con lo Zimbabwe, la Libia è stata fin dal 1969, anno della rivoluzione, la prima ad aiutare l’African National Congress nella lotta contro l’apartheid, e durante la stagione del carcere di Mandela tutti i dirigenti dell’Anc, Mbeki compreso, sono venuti a Tripoli ad ottenere aiuti, a tutti i livelli.
Per parlare sulla base della carta geografica, un vostro grande vicino di casa, l’Algeria, ha da pochi mesi un nuovo presidente, Abdelaziz Bouteflika, impegnato nella pacificazione e ricostruzione della nazione.
SHALGAM: Fa un lavoro oneroso portato avanti con abilità, anche nei confronti di quel terrorismo algerino che ha avuto la funzione di ostacolare il ruolo importante proprio di questo Paese. Bouteflika è un leader con grande esperienza, ha una sua storia politica e con lui manteniamo rapporti fraterni: ha un relazione personale con il colonnello Gheddafi, e poiché Bouteflika conosce bene il passato – è stato anche il numero due all’epoca di Boumedienne – saprà governare bene. Noi su di lui siamo ottimisti.
Il processo di pace israelo-palestinese pare sempre più certo negli esiti; l’Europa inizia a parlare in maniera unitaria in politica estera con la voce di “mister Pesc”. C’è un contesto promettente nel Mediterraneo, e la Libia – rigida nei confronti di Israele – non rischia di restarne fuori?
SHALGAM: La Libia non ha oggettivamente lo stesso interesse alla pace con Israele di Libano, Siria, Egitto; non lo ha neppure l’Arabia Saudita. Se Israele è capace di superare le discriminazioni che vengono imposte agli arabi su base razziale e religiosa, se saprà seguire il modello sudafricano e dunque se darà vita ad uno Stato democratico e laico, non solo ebraico, allora avrà successo ed otterrà una pace globale con gli arabi. Ed è nel suo stesso interesse di nazione potente.


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