Home > Archivio > 09 - 1999 > Stupore: attrattiva e libertà
MEETING DI RIMINI 1999
tratto dal n. 09 - 1999

Stupore: attrattiva e libertà


Il 28 agosto, come conclusione del Meeting, è stato presentato il libro di Luigi Giussani L’attrattiva Gesù da Mario Luzi, Michael Waldstein e Giacomo Tantardini. Pubblichiamo l’intervento di quest’ultimo


La presentazione al Meeting del libro di L. Giussani L’attrattiva Gesù di Giacomo Tantardini


La copertina del libro di Luigi Giussani presentato al Meeting di Rimini 1999

La copertina del libro di Luigi Giussani presentato al Meeting di Rimini 1999

Siamo stati aiutati nell’incontro gratuito con don Giussani a situare le cose nel contesto mondano che viviamo. Come breve premessa vorrei accennare a questo. Viviamo in un contesto di patologia religiosa diffusa. Mi ha colpito che il cardinale Ratzinger due o tre mesi fa abbia usato proprio questa espressione «patologia religiosa». Cioè una religiosità che decade, che si ammala, come inevitabilmente, alla lunga, è la religiosità umana. E il testo di Plotino che abbiamo ascoltato è indice anche di questo. Una religiosità, come accennava un editoriale di Repubblica di qualche settimana fa, «sempre meno interiore». Sempre meno interiore vuol dire, cristianamente, che corrisponde sempre meno al cuore, alla propria umanità. «E sempre più spettacolo di se stessa». In un mondo così religioso, cosa sono duemila anni di cristianesimo? Perché questo è il titolo di questo incontro: Duemila anni di cristianesimo. Giussani, nel breve saluto che ha fatto quest’anno agli universitari di Comunione e liberazione riuniti a Rimini per gli esercizi spirituali, dava una descrizione della condizione del cristianesimo oggi nel mondo, dopo duemila anni. Una descrizione che riprendeva ed attualizzava la grande profezia, che tante volte abbiamo citato, del «nostro Paolo VI»1 (per usare anche qui un’espressione di Giussani negli ultimi esercizi della Fraternità: «il nostro Paolo VI»). Alcuni mesi prima di morire, Paolo VI parlava di «un piccolo gregge» e di «un pensiero non cattolico che poteva diventare egemone nel mondo cattolico». Giussani dice: «…quasi un resto d’Israele, e anche questi pochissimi spesso infiltrati o bloccati dall’influsso della mentalità comune»2. Credo che difficilmente si trovi una descrizione così realisticamente sintetica, come queste parole di Giussani, della condizione della fede oggi. Oppure, per riprendere una parola del «nostro Péguy» (anche questo «nostro Péguy» è un’espressione di Giussani che mi è molto cara), che cosa è il cristianesimo, oggi, dopo duemila anni? Péguy in Véronique scrive: «Voi siete i primi uomini, dopo Gesù, senza Gesù». Così descrive la scristianizzazione di oggi. «I primi uomini dopo Gesù». Non prima di Gesù. Prima di Gesù sarebbe evidente. Ma «i primi uomini, dopo Gesù, senza Gesù».
In questo contesto risalta ancora di più il titolo di questo libro, L’attrattiva Gesù. Prima che fosse pubblicato, in un incontro, Giussani, parlando di questo libro che sarebbe uscito a luglio, mi dice: «Mi hanno proposto di intitolare il libro L’attaccamento a Cristo, ma io ho proposto L’attrattiva Gesù». E così ci siamo guardati sorridendo, perché c’è proprio una distanza, direi quasi infinita, tra il primo titolo e il secondo. Infatti, anche se l’attrattiva Gesù genera l’attaccamento a Cristo, si può essere attaccati, come ricordo e come nostalgia, a un passato. Si può essere attaccati al papà morto e alla mamma morta. Ma solo un vivo, solo una persona viva può essere attrattiva per il cuore dell’uomo. Allora mi sembra che già il titolo accenni, e tutto il libro parla, della cosa più grande, della cosa che viene prima, della cosa per cui siamo cristiani, che è la resurrezione di Gesù, che è quel mattino del primo giorno dopo il sabato quando gli angeli hanno detto: «Voi cercate Gesù il Nazareno. Non è qui. È risorto». Mi ha colpito moltissimo il film di Benigni La vita è bella, proprio per l’ultima immagine, quando il bambino dice: «Abbiamo vinto!». Perché, secondo me, l’esperienza di quei poveretti che Lo avevano seguito – pensate Giovanni, pensate anche la Maddalena – deve essere stata proprio una cosa così. Tanto è vero che i Vangeli dicono che per la grande gioia erano come fuori di sé. Come l’esperienza del bambino che dice: «Abbiamo vinto!». La promessa, che era contenuta nel primo incontro, quella promessa è stata mantenuta. Allora il libro L’attrattiva Gesù mi sembra che parli dell’amore all’uomo proprio di Cristo traboccante di pace. Parla di questa presenza viva in quanto attira e corrisponde al cuore dell’uomo. Parla di duemila anni fa, perché quegli incontri sono, in quanto costitutivi del fondamento del corpo della Chiesa, paradigmatici per sempre. Ma parla innanzitutto di adesso, parla di Gesù, parla di Giussani, parla di me, parla di te, parla di noi. È un libro che parla dell’attualità. E non si può che partire dal presente.
Tre brevi cenni.

«…un fenomeno che sul vocabolario si chiama stupore»
Primo cenno. L’inizio, l’inizio di tutto. L’incontro quel pomeriggio. «Era circa l’ora decima». Le quattro del pomeriggio. Il primo incontro pubblico, dopo quegli incontri, che nessun incontro potrà mai superare, di sua madre Maria e di suo padre Giuseppe. Dopo quei primi incontri, il primo incontro pubblico. Vi leggo come Giussani ne parla nell’Introduzione: «Andrea portò il fratello Simone da Gesù, salendo una piccola erta prima di quella casetta. Simone era là con gli occhi fissi su quell’individuo che lo attendeva ancora un po’ lontano, pieno di quella curiosità che caratterizza l’uomo quanto meno è “educato” [quanto meno è “educato”] e quanto più è ricco di vitalità. Quando si trovò là, a tre o quattro metri, come Lui lo fissava non lo avrebbe più dimenticato! Come lo fissava, come lo guardava, come ne scopriva il carattere, come ne coglieva il tipo di personalità: “Nessuno mi ha mai guardato così”. Lo ha dominato un fenomeno che, sul vocabolario, si chiama stupore. Tanto che si è sentito subito legato: se fosse scoppiata una rivolta di piazza contro quell’uomo, lui sarebbe stato per quell’uomo, anche se lo avessero accoppato (anche tu saresti così: non potresti lasciarlo!)» (p. VII). E poi continua l’Introduzione, come un ritornello: «Il giorno dopo… Sentirlo parlare: era come il giorno prima… E il giorno dopo, ancora, idem!». Anche il primo capitolo del Vangelo di Giovanni ha questo ritornello: «Il giorno dopo… Il giorno dopo…». Come il primo capitolo della Genesi, i sette giorni della creazione. In Giovanni e in Giussani si tratta della nuova creazione. «Sentirlo parlare: era come il giorno prima, quando gli ha detto: “Simone, figlio di Giovanni, ti chiamerai Pietro” […]. E il giorno dopo, ancora, idem! […] E il giorno dopo, ancora!». «Vi prego di stare attenti a questa cosa. Man mano che Simone gli andava dietro tutti i giorni – alla mattina correva là e lo guardava, con gli altri compagni: lo guardavano, stavano attenti a quel che diceva, alle sue mosse, quando si inginocchiava a pregare, tanto che un giorno gli hanno detto: “Maestro, insegna anche a noi a pregare”; loro erano abituati a dire i salmi, andare alla sinagoga, pregavano il doppio di noi –, man mano che gli andava dietro quello stupore iniziale si approfondiva. […] Lo stupore iniziale era un giudizio che diventava immediatamente un attaccamento […]. Era un giudizio [qui c’è quell’immagine così concreta. Mi ricordo quando Giussani diceva queste cose ai novizi del gruppo adulto] che era come una colla: un giudizio che li incollava. Per cui tutti i giorni passavano manate di colla e non potevano più liberarsi!» (pp. VIII-IX). E poi subito introduce la grande polemica. Se si toglie questa polemica, bisogna togliere non dico la metà, ma quasi, dei Vangeli. «“Ma voi non osservate mai le leggi! Tutti i farisei si scandalizzano del vostro Maestro perché sta con voi che non osservate mai le leggi!”. E gli apostoli non sapevano cosa rispondere, però dicevano: “Non sappiamo se non rispettiamo le leggi, ma siamo attaccati a quest’uomo”. […] Era un fenomeno di ragione [questo stupore]; […] guardandola [questa persona], nasce una meraviglia di stima che ti fa attaccare. Non c’è neanche l’ombra della irrazionalità o della forzatura [perché un attaccamento che non nascesse così sarebbe irrazionale, sarebbe una forzatura]: “Se andiamo via da te, dove andiamo? Tu solo hai parole che spiegano la vita”, gli disse una volta Pietro, con la solita irruenza. È dopo di allora che ne ha fatte di più, tanto che Gesù gli ha detto una volta: “Va’ via da me, satana! Perché tu non vuoi che io faccia quello che vuole il Padre mio, ma quello che giudichi tu”. Che umiliazione! Ma l’esito era che si attaccava ancora di più! Così che quella volta, quando la barca ha attraccato piena di pesci […] Ho usato la parola decisione, prima, per dire che la decisione non può essere presa in senso volontaristico, come forza di volontà. Pietro era come il pubblicano in fondo al tempio, pieno di ruberie e di peccati. Mentre il fariseo diceva davanti a tutti: “Signore, io ti ringrazio che non sono come quello là: non rubo, non commetto adulterio, pago le decime, vivo tutte le leggi come posso, tutte”, e il pubblicano là in fondo non osava alzare gli occhi e diceva: “Abbi pietà di me!”; e sapeva che quella domanda sarebbe stata la cosa più accolta dal Signore» (pp. IX-X). Più accolta. Come dice Gesù: «Si fa più festa in cielo [cioè nel cuore di Dio] per un solo peccatore che si converte che per novantanove giusti». «Quella domanda rendeva giustizia a tutto» (pp. X-XI). Questa misericordia rende giustizia a tutto perché tutti siamo peccatori e tutti abbiamo bisogno della grazia di Dio. «Pietro non ci pensava neanche, non faceva l’elenco dei peccati passati o l’elenco delle possibilità sbagliate del futuro: quel “sì” era l’esito, la definizione di un rapporto pieno di stima nata come valutazione, come giudizio, come gesto dell’intelligenza che trascinava con sé il cuore, un gesto fatto esistenzialmente, alla luce del sole, da una tenerezza, tanto che lui e gli altri si sarebbero lasciati spaccare la testa piuttosto che tradirlo (e l’hanno tradito! Si sarebbero lasciati spaccare la testa piuttosto che tradirlo, ma l’hanno tradito, perfino quello!)» (p. XI).
Questo è l’inizio. In Riandare al primo incontro, Giussani dice così: «Il tuo rapporto con Cristo non deve essere evoluto, scaltro, maturo, perché la tua personalità ne nasca e la tua personalità da esso sappia creare compagnia. Basta – come dire – la sorpresa che ebbero Giovanni e Andrea, che non capivano niente; basta la sorpresa, basta l’accenno di devozione, basta lo stupore. Più precisamente [qui è bellissimo, perché di questo stupore indica il cuore umano, l’elemento umano, ciò che l’attrattiva Gesù incontra, la libertà, cioè la fame e sete di soddisfazione: perché questa è la libertà. L’attrattiva incontra questa povertà, questa domanda, che si chiama libertà]: basta il chiederlo, basta quell’embrionale percezione di quel che Lui è che te lo fa chiedere» (p. 23). È l’embrionale percezione di quello che Lui è che te lo fa domandare. Mi colpisce sempre il brano di Vangelo che anche prima è stato letto, l’incontro di Giovanni e Andrea. Perché alla domanda di Gesù, quando Gesù voltatosi ha chiesto: «Che cosa cercate?», Giovanni e Andrea hanno risposto con una domanda. Non hanno risposto con un discorso: “Cerchiamo la verità, cerchiamo …”. No! «Maestro, dove rimani?». Quello che cercavano l’avevano davanti agli occhi. Allora potevano solo domandare di rimanere con Lui. O meglio, che Lui rimanesse con loro. Quello che il cuore cercava l’avevano incontrato. Leggo ancora: «Mentre, paradossalmente – come si fa a dire? però lo voglio dire lo stesso –, ci può essere qualcosa che ti commuove, che – più precisamente – ti suscita un’emozione, una commozione […], ci può essere un segno che non è una compagnia: è qui dove s’annida il mio concetto di preferenza, che è così libero e bello rispetto a come questa parola è usata» (p. 23).
Questo stupore nell’andargli dietro, questo stupore che domanda – proprio come stupore domanda di rimanere con Lui – permette anche una cosa che umanamente può sembrare… anzi, umanamente, immediatamente, non è bella, permette anche il sacrificio. Permette, lo rende possibile. Ma è questo stupore, questa domanda di rimanere con Lui che lo rende possibile. Tanto è vero che il sacrificio – al di là delle immagini che possiamo averne e che ci fanno paura, così che siamo bloccati più dalla paura delle immagini che non dalla realtà obiettiva del sacrificio – si esprime in una maniera semplicissima, si esprime, o meglio, coincide con il grido: «Vieni, Gesù». Come quando Lui ha deciso di andare a Gerusalemme, e loro non volevano andare a Gerusalemme, eppure sono rimasti con Lui e Lo hanno seguito, anche contro quello che loro pensavano. Leggiamo da Riandare al primo incontro: «Infatti la parola sacrificio non indica affatto necessariamente fatica o dolore o – meglio – rinuncia, fatica come rinuncia. Non vuol dire affatto necessariamente questo. Vuol dire far penetrare la memoria di Cristo in quello che ami; allora quello che ami diventa più vero, perché viene penetrato dall’Eterno. E la memoria da far penetrare è: “Vieni, Gesù”» (pp. 33-34). È possibile il sacrificio se uno, per rimanere in quello stupore, domanda: «Vieni, Gesù». Allora il sacrificio è possibile fino al sacrificio supremo, al martirio, come per Pietro, che è come il sacrificio più facile, perché in quel momento uno è tutto pieno dell’attrattiva Gesù. «E Gesù è il Gesù di Giovanni e di Andrea, della Madonna e dei pastori, è il Gesù della vedova di Nain, è il Gesù di Zaccheo. E così il Vangelo comincia a vivere; incomincia a vivere e non è solo un libro da leggere» (p. 34).

La fuga in Egitto. particolari degli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni

La fuga in Egitto. particolari degli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni

«…una misericordia più forte del suo errore»
Secondo cenno. In Come un film si dice che se la prima scena è la scena del primo incontro, l’ultima scena è quella di Pietro che dice: «Tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene». Se l’inizio è uno stupore, il termine è uno stupore più grande. Non è un’altra cosa. Più grande, più profondo, più reale. Perché è più grande lo stupore? Perché ha vinto i due nemici. Ha vinto il peccato, il tradimento di Pietro; ed ha vinto la morte, l’ultimo nemico ad essere sconfitto, perché era Gesù risorto che chiedeva a Pietro: «Mi ami tu?». Quindi quello stupore iniziale aveva vinto il peccato di Pietro ed aveva vinto il nemico più grande, la morte.
Leggo a pagina 43. «Perché tutto il discorso evangelico si sviluppa come un film. Se fosse un film, avrebbe come scena iniziale Giovanni e Andrea che stanno guardando Cristo parlare a casa sua. Un impatto: l’impatto con una realtà che loro sentono corrispondere come niente mai ha corrisposto». Qui vorrei leggere una frase di Giussani in uno scritto dal titolo molto bello: Nessuno genera se non è generato3. «Che cosa vuol dire la gloria umana di Cristo? Che Cristo dimostra fin sulle rive dell’apparenza che corrisponde alle esigenze del cuore in modo profetico». La sua presenza dimostra fin sulle rive dell’apparenza di corrispondere alle esigenze del cuore in modo profetico.Siccome Giussani cita Il Sabato e 30Giorni proprio a proposito di gnosi (p. 247), lo posso dire. Se togliete «fin sulle rive dell’apparenza» e «in modo profetico» avete la gnosi, non il cristianesimo. In modo profetico vuol dire, per usare un termine di Paolo che Agostino continuamente riprende, in speranza. Cioè, come dice Giussani nell’ultimo incontro riportato nel libro, L’equilibrio è una unità (pp. 321-335), non come conquista, non come possesso di conquista, ma come sorpresa, come continua approssimazione, come continua tensione (cfr. p. 330). In modo profetico, cioè come stupore che non puoi conquistare tu, che non puoi possedere tu, che non puoi rendere tu discorso, così che avendo in mano tu il discorso cristiano, tu sei perfetto… e puoi dominare gli altri. «Dall’altra parte, l’ultimo quadro, l’ultimo filmato sarebbe Gesù che dice a Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?”: è la domanda che Gesù faceva a chi ha chiamato come Giovanni e Andrea. E questi gli sono andati dietro ed erano peccatori, sono rimasti peccatori, tanto è vero che Pietro l’ha tradito: è il peccato più grave, ma, nonostante che l’abbia tradito, l’ultima scena è l’impatto con una realtà umana che corrisponde così a quello che Simone è da essere più forte del suo errore, da essere una misericordia più forte del suo errore. Perciò, nel primo quadro Cristo che parlava si imponeva ai due che lo guardavano, perché un’onda così corrispondente al loro animo non li aveva mai investiti; nell’ultimo quadro Cristo si imponeva perché aveva una forza capace di abbracciare anche quello che lo aveva contraddetto e rinnegato. Come diceva l’orazione della messa di settimana scorsa: “Dio che dimostri la tua onnipotenza più [questi “più” sono una delle cose più importanti del libro] con la misericordia e il perdono…”» (p. 44). Come una delle cose più stupefacenti del libro è l’uso delle preghiere della liturgia, del breviario. Per esempio, nell’ultimo incontro del libro, quello sull’equilibrio come uno degli elementi essenziali della santità cristiana, Giussani per descrivere questo equilibrio, che tiene presenti tutti i fattori, usa le preghiere più belle del breviario.
La condizione evangelica per rimanere in questo stupore, nel libro, continuamente Giussani la indica come «semplicità di cuore», come «povertà di spirito», come «essere bambino». Tanto è vero che Simone non è mai stato così bambino, così figlio come quando gli ha detto «sì», dopo la resurrezione di Gesù e dopo il suo tradimento. Tanto è vero che Gesù lo chiama: «Simone, figlio di Giovanni». Non è mai stato così bambino come in quel momento. E a Simone, figlio di Giovanni, viene dato il compito di pascere tutta la Chiesa. Poi, anche per Pietro, come per noi, capita, magari l’istante dopo, di non rimanere in questo stupore. «Chi rimane in Lui», in questo stupore, scrive il discepolo prediletto, «non può peccare». Commenta Agostino «in quanto rimane, in questo stupore, non può peccare». Invece, l’istante dopo, anche Pietro ha come la preoccupazione di trovare un posto nell’organizzazione ecclesiastica anche per Giovanni. «E di lui che cosa sarà?». Il commento di Giussani a questa preoccupazione di Pietro è una delle cose più belle cui accenna.
Leggo a pagina 68. «È la semplicità del cuore: “Ti ringrazio, Padre, perché hai nascosto queste cose a coloro che si credono qualche cosa e le hai rivelate ai semplici”. Chi è il semplice? È l’uomo morale. Chi è l’uomo morale? Colui che non fa nessun assassinio? No, uno può commettere cento assassinii [Cento assassinii è il titolo di questo incontro, pp. 55-74] ed essere morale. Il pubblicano in fondo al tempio: Cristo non ha detto “Uscì dal tempio e non fece più il pubblicano”; continuò a fare il pubblicano. […] È la semplicità del tuo cuore, perché la tua salvezza non dipende da altri, ma dipende dall’Altro. E il rapporto con l’Altro è definito dalla parola semplicità, o povertà di spirito, o essere bambino». A pagina 105: «Dalla semplicità uno stupore che cresce. Quando Simone vide Gesù a cinque metri e si sentì guardare come Gesù lo guardava e stette lì a sentirlo parlare seduto, accettava tutto quello che Cristo diceva, sì o no? Lo accettava, lo accettava con meraviglia: “Ma guarda cosa dice questo qui! Come è giusto! Mai sentito niente di più giusto di questo. È vero! È vero, io pensavo diversamente”. Man mano che Gesù parlava, si chiariva: il mondo si chiariva ai suoi occhi e si chiariva il suo rapporto col mondo. Così, il giorno dopo, quando è andato a ritrovarlo: lo stesso atteggiamento, con gli occhi sgranati e riconoscendo la verità di quel che diceva. Ma era sempre più pieno di stupore! Stupore è riconoscere la verità eccezionale di qualcosa che viene detto. Ma per riconoscere con stupore una cosa eccezionale, che si sente dettata da uno – riconoscere vuol dire sorprendere quello che uno dice con stupore, sorprenderlo così corrispondente al proprio cuore: “È proprio così! È giusto così” –, occorre una semplicità, occorre una sincerità, occorre, come diceva Gesù, una povertà di spirito. Questa è la responsabilità. Come il bambino con la mamma: se la mamma lo chiama, risponde; se avesse più anni, si dovrebbe parlare di responsabilità. La responsabilità è la risposta a uno. La responsabilità è l’aspetto più drammatico del proprio esistere». E poi a pagina 300, per togliere a questa parola – perché il cristianesimo prende le parole di tutti, ma con un significato, con un contenuto che è più vero, cioè più umano – per togliere a questa parola drammatico ogni forzosità, Giussani dice: «L’energia della libertà – come dicevo prima – non è qualcosa di drammatico o di eroico; è una cosa semplice: “Aiutami, Signore”. Se un bambino potesse dire alla mamma che lo sta sgridando, perché per l’ennesima volta durante il giorno ha rotto il bicchiere: “Mamma, aiutami a non spaccarli”, e lo dicesse cosciente: ecco, questo è un uomo cristiano!».

L’ultima cena

L’ultima cena

«Tentativi ironici»
Terzo cenno. Un uomo cristiano così, nel mondo, vive, come suo supremo interesse, per testimoniare questa presenza. È suo supremo interesse la testimonianza di Cristo, perché non è una cosa che fa lui, la testimonianza di Cristo. «La testimonianza di Cristo la compie Cristo attraverso quello che cambia nella tua vita»4. È Cristo il soggetto della testimonianza cristiana. Allora un uomo cristiano vive tutto per vedere come in un film questa testimonianza, la testimonianza che Cristo operando dà di sé. Come suggerisce un versetto del salmo che Giussani cita: «Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei tu che agisci». Questo è l’atteggiamento dell’uomo cristiano nel mondo di fronte alla testimonianza di Cristo. Di fronte, quindi, al compito che si chiama anche missione. I brani che volevo leggervi sono tratti dall’incontro intitolato Tentativi ironici (pp. 265-282). Ma il tempo non lo permette. Tentativi ironici sono altro sia rispetto al cinismo sia rispetto all’illusione. L’illusione, per i più, che poi può diventare rassegnazione in fondo al cuore disperata. Il cinismo per chi ha fortuna, per chi è potente. Tentativi ironici. E per descrivere che cosa è l’ironia, di cui aveva parlato nel ’76 agli universitari a Riccione, quando aveva detto che la presenza si esprime per tentativi ironici, Giussani racconta il suo primo ricordo di bambino. Quando davanti allo sguardo e al sorriso del papà, lui bambino cercava di spostare il seggiolone. Un tentativo ironico dentro l’orizzonte dell’affezione del papà che lo guardava. Ed era più importante lo sguardo del papà verso il bambino che tentava di fare questo sforzo, era più importante per il cuore del bambino il sorriso buono del papà, che non spostare il seggiolone. Così si capisce perché l’esito di una azione non è importante. Non è che non sia importante in sé, non è importante se c’è una cosa più importante, se si fa l’esperienza di una cosa più corrispondente al cuore. Come nel tentativo di spostare il seggiolone: è più corrispondente al cuore la riuscita o il papà che abbraccia il bambino in questo suo sforzo di spostare il seggiolone?

Concludo leggendo tre brani. Innanzitutto la testimonianza più sintetica di Giussani quando dice: «A me basta il “sì” di Pietro». «Ad firmandum cor sincerum sola fides sufficit». Il «sola fides» di san Tommaso d’Aquino che la Chiesa ha sempre cantato nel Pange lingua. Per un cuore semplice, per un cuore bambino, questa cosa basta. «“Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu?” “Sì, Signore, io ti amo”. Che bene vuol Pietro! Che bene vuole Simone a Gesù! Ma si sbaglia totalmente la prospettiva» (p. 204). Quando Pietro gli dice “Sì, ti voglio bene” in primo piano non c’è assolutamente il suo voler bene. Non gli avrebbe potuto dire: “Sì, ti voglio bene” se aveva il problema di volergli bene. È solo quella presenza che fa emergere questo filo di tenerezza e di adesione: “Sì, tu sai tutto, tu sai che ti voglio bene”. «Fino a pochi minuti prima era lontano da Lui. Quando gli ha detto: “Buttate le reti”, Simone dice: “Ma è matto quello lì, è un matto: non abbiamo preso niente fino ad adesso!”. Può averlo rinnegato due minuti prima, tre minuti prima. L’avesse rinnegato tre minuti prima come l’ha rinnegato quella notte, se poi, sceso a terra, l’avesse visto e Gesù gli avesse domandato: “Mi ami tu?”, avrebbe detto: “Sì, son legato a te, è come se ti appartenessi”. Sarebbe l’espressione della mia semplicità indifesa, della mia sincerità senza obiezioni e preconcetti, del mio essere puro e netto come un bambino. E un temperamento d’uomo, a sessant’anni, può essere così. Perché opponete? Cosa opponete? Perché opponete quello che voi non avreste a quel che io avrei? Perché, che cosa avrei? Io ho questo e basta, e a voi non costerebbe neanche una virgola di più di quello che costa a me. […] Dire “sì” a Gesù. Se io prevedessi domani di offenderlo mille volte, lo dico. Lo dico, perché se non dicessi “sì” a Gesù non potrei dire “sì” alle stelle del cielo o ai capelli, ai vostri capelli. Se non dicessi “sì” a Gesù non potrei commuovermi di fronte all’Agnus Dei di Mozart cantato dalla Mandy. Non c’è niente di più semplice: “Io non lo so com’è, non so come sia: so che io debbo dire ‘sì’. Non posso non dirlo”» (p. 204). «Altrimenti [e qui c’è la cosa forse più commovente] mia mamma non l’avrei più, capisci? Non avrei più proprio quella donna che, mentre andavo a messa – avrò avuto dieci anni – disse: “Come è bello il mondo e com’è grande Iddio”, aprendo a me due finestre che non si sono più chiuse, anzi, due balconate (sulle quali si può anche ballare, tra l’altro, perché son grandi!)» (p. 207).
Pagina 16: «Quando è morta la mia povera mamma, io nella predica ho detto un unico fatto che era rappresentativo di tutto il rapporto umano e cristiano che mia mamma mi aveva dato. Una volta, ero chierichetto piccolo, seminarista piccolo […] ed ero tornato a casa in vacanza a Pasqua. Mentre stavamo andando a messa al mattino – la prima messa al mattino allora era alle cinque e mezza –, a un certo punto, mi ricordo benissimo, c’era un cielo vibrante di vento, come diceva Barbara Tosatti: “Come una giornata di marzo fredda e ardente” […]. Mia madre camminava svelta in quell’aria fredda e limpidissima, c’era una sola stella in cielo, una sola – che era quella della sera: il vespero della sera è l’ultima del mattino – e mia mamma mi dice: “Guarda come è bello il mondo e come è grande Dio!”. Io avevo dieci o undici anni: non l’ho più scordata questa frase! Un incontro...».
L’ultima cosa.
Dalla frase di sua madre a Desio alle parole che Giussani ha detto in piazza San Pietro: «Al grido disperato del pastore Brand, nell’omonimo dramma di Ibsen (quante volte citato!) – “Rispondimi, o Dio, nell’ora in cui la morte mi travolge. Non è dunque sufficiente tutta la volontà di un uomo per conseguire un filo solo di salvezza?” –, risponde l’umile positività di santa Teresa del Bambin Gesù che scrive: “Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me”. È la frase in cui l’io di santa Teresa del Bambin Gesù riconosce il suo valore nell’affermare che tutto il bene suo, la sua capacità di bene, come tutta la sua vita è del Signore incarnato, morto e risorto per noi. “Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me”»5.
«Quando sono caritatevole è solo Gesù che agisce in me».


Note

1) L. Giussani, Cristo è tutto in tutti. Appunti dalle meditazioni di Luigi Giussani per gli Esercizi della Fraternità di Comunione e liberazione, Rimini 1999, Supplemento a Litterae Communionis – Tracce, n. 7, luglio-agosto 1999, p. 35.
2) Cfr. Giussani, Cristo è parte presente del reale, in 30Giorni, n. 12, dicembre 1998, p. 49: «Oggi il fatto che Cristo esista – chi sia, dove sia, quale strada per andara a Lui – non è vissuto che da pochissimi, quasi un resto di Israele, e anche questi spesso infiltrati o bloccati dall’influsso della mentalità comune».
3) Giussani, Nessuno genera se non è generato, Appunti da una conversazione con un gruppo di Memores Domini, in Litterae Communionis – Tracce, n. 6, giugno 1997.
4) Cfr. Giussani, Un avvenimento di vita, cioè una storia. Roma, Edit. Il Sabato, 1993, p. 346: «Noi rendiamo presente Cristo attraverso il cambiamento che Egli opera in noi. È il concetto di testimonianza».
5) Giussani, Cristo è tutto in tutti, op. cit., p. 33.


Español English Français Deutsch Português