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COPERTINA
tratto dal n. 04 - 1999

Nessun vescovo passi da una diocesi all’altra


Sant’Alfonso Maria de’ Liguori spiegava così la ragione di questa norma antica: «Altrimenti ne scaturirebbero innumerevoli inconvenienti. Innanzitutto perché i vescovi verrebbero a mancare di amore per le loro Chiese, e inoltre quelle stesse Chiese non potrebbero essere rette bene se i vescovi cambiassero spesso»


di Lorenzo Cappelletti


Cè stato un momento in cui il vescovo che avesse brigato per essere spostato dalla propria diocesi a quella cui aspirava non solo era scomunicato ma non poteva essere riconciliato neppure in articulo mortis. È quanto stabiliva il canone 2 del Concilio di Sardica del 343. Oggi i trasferimenti non sono proibiti né il Codice attuale esorta (come fa a ogni pie’ sospinto per tante altre materie) a limitarli né richiama storicamente la loro antica proibizione. La prassi approfitta della norma, o meglio del vuoto normativo: i trasferimenti di vescovi da una sede all’altra sono sempre più frequenti.
Alcuni incipit delle cause contenute 
nel Decretum Gratiani tratti da manoscritti di epoca e provenienza diverse. Qui sopra, manovre illegali 
per acquisire una sede vescovile, Ms. 355, f. 161v., Biblioteca Municipale, Amiens, Francia

Alcuni incipit delle cause contenute nel Decretum Gratiani tratti da manoscritti di epoca e provenienza diverse. Qui sopra, manovre illegali per acquisire una sede vescovile, Ms. 355, f. 161v., Biblioteca Municipale, Amiens, Francia

In un articolo comparso il 27 marzo scorso sull’Osservatore Romano il cardinale Fagiolo ha sollevato la questione: «La dignità dell’episcopato sta nel munus che comporta ed è tale che per sé prescinde da ogni ipotesi di promozioni e trasferimenti, che andrebbero, se non eliminati, resi rari». Il cardinale Gantin gli fa eco (vedi l’intervista che precede), augurandosi che il trasferimento di vescovi da una diocesi all’altra sia proibito canonicamente. Salvo eccezioni per gravissimi motivi. Non si tratta dei meno esperti e prudenti fra gli uomini della Curia.
Andiamo a dare uno sguardo alla normativa attuale.
Il presente Codice di diritto canonico (a onor del vero imitando in tutto il vecchio, in questo caso) si limita a enunciare il trasferimento dei vescovi. Il canone 416, infatti, non fa altro che elencare il trasferimento fra le possibili cause che rendono vacante una diocesi. Più in generale, il trasferimento degli uffici ecclesiastici è trattato nei canoni 190 e 191 (nel Libro I contenente le norme generali), dove ci si contenta di dire, appunto in generale, che competente a trasferire è chi ha il diritto di provvedere all’ufficio che viene lasciato e a quello che viene conferito (i commenti al Codice spiegano che pertanto, nel caso dell’ufficio episcopale, il trasferimento dei vescovi diocesani spetta al romano pontefice). Il canone 190, § 2 nomina la «causa grave» solo nel caso che il trasferimento sia contro la volontà del titolare dell’ufficio. Mentre non si fa parola della necessità e dell’utilità della Chiesa, binomio tradizionale (valga l’esempio del Decretum Gratiani, Causa VII, q. 1, c. 34) per dire in positivo la «causa grave» di un trasferimento. Unico residuo dell’antica disciplina sembra essere l’aggiunta fatta dal Codice canonico per le Chiese Orientali, che al canone 85, § 2 afferma che il trasferimento deve avvenire sempre «per una grave causa».

La disciplina antica
Ma qual era la disciplina antica?
La prima cosa da dire è che la disciplina antica non è antichissima. È postcostantiniana. Emerge cioè a fronte di un problema che prima non si poneva. È intesa ad arginare trasferimenti che si fanno frequenti solo dalla prima metà del IV secolo in Oriente, dove non a caso più importanti erano le sedi episcopali e più prossime al centro dell’Impero ormai cristiano. Prassi considerata pericolosa, se si guarda la severità con cui i concili cercano di correggerla. Il primo concilio a prendere provvedimenti è “il grande e santo sinodo dei 318 padri”, il Concilio di Nicea del 325, il cui canone 15 sancisce la nullità di trasferimenti da una sede all’altra, dopo aver ricordato «il gran subbuglio e le agitazioni provocati dalla consuetudine che ha preso piede fra i chierici di passare da una città all’altra». Concili successivi quali quello di Antiochia (341) o di Sardica (343), che dedica i suoi tre primi canoni ai trasferimenti, aggravano, come abbiamo visto, le sanzioni. Motivo: «Non si è visto fin qui alcun vescovo che sia passato da una città più importante a una più modesta; da qui risulta che tali persone sono infiammate da ardente cupidigia e sono a servizio piuttosto della loro ambizione, sembrandogli così di acquisire maggior potere» (canone 2 di Sardica). La lettera che papa Damaso scrive ai vescovi della Macedonia nel 380 riassume gli elementi precedenti: «Non permettete che qualcuno, contro quello che è stato stabilito dai nostri padri, sia trasferito da una città a un’altra, e abbandoni il popolo a lui affidato passando per ambizione a un’altra Chiesa. Ne sorgono infatti ora contese, ora le divisioni più pericolose; dal momento che quelli che hanno perso il vescovo non possono non essere addolorati, e quelli che ricevono il vescovo da un’altra città, anche se immediatamente sono contenti, si renderanno conto che va a loro discredito stare sotto un vescovo che viene da altrove».
Resta che anche in quest’epoca, come in epoca precostantiniana, sono attestati dei trasferimenti legittimi, perché, magari per cause di forza maggiore, il vescovo non ha potuto prendere possesso della sede in un primo tempo assegnatagli, o per motivi di reale utilità. Ma resta pure che il motivo prevalente che sta alla base dei trasferimenti è l’ambizione. E la ripetizione della proibizione anche in Occidente, dalla seconda metà del secolo IV in poi, è il segno che l’abuso persiste e si estende. Tanto che fra V e VI secolo, invocando «le necessità dei tempi», si rinuncia alla condanna assoluta dei trasferimenti e ci si accontenta di sottoporli a controllo.

La teologia sponsale
Fin dai primi decenni del secolo IV, per opporsi con più forza contro le mire ambiziose di vescovi, quali ad esempio l’ariano Eusebio di Nicomedia, Atanasio e altri padri (seppure con significative eccezioni: a san Girolamo la cosa non piacque) applicarono il noto versetto paolino («Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti», 1 Cor 7, 27) al legame del vescovo con la Chiesa.
Quella che in epoca patristica era solo una possibile immagine del legame fra il vescovo e la Chiesa, fra il IX e X secolo si sviluppa come teologia sponsale. Una teologia diventa d’ora in avanti l’argomento principe per salvaguardare la stabilità dell’ufficio episcopale.
Non basta. Poco dopo la metà del IX secolo cominciano ad apparire documenti (alcuni dei quali falsi che pretendono rimontare a un’epoca precedente a Sardica e Nicea) che intendevano esaltare e difendere la supremazia romana sia nei confronti di alcuni metropoliti dell’Occidente sia nei confronti della sede costantinopolitana, con cui era allora in atto un duro scontro, sia nei confronti dei potentati laici. Seppure sfavorevoli in linea di principio alle traslazioni, tali documenti, ponendo l’accento sulla necessità del consenso della Sede romana, fin dal secolo seguente saranno utilizzati ampiamente a giustificazione delle traslazioni, operate appunto col consenso della Sede romana.
Discussione sulla possibilità di rimpiazzare temporaneamente un vescovo, Ms. lat. 3893, f.160 v., Biblioteca Nazionale, Parigi

Discussione sulla possibilità di rimpiazzare temporaneamente un vescovo, Ms. lat. 3893, f.160 v., Biblioteca Nazionale, Parigi

Tali testi verranno in auge specie fra XI e XIII secolo, all’epoca della grande svolta centralizzatrice. Con una significativa accentuazione. Se, ancora in epoca carolingia, i trasferimenti erano giustificati in via eccezionale essenzialmente per la rationabilis causa costituita dalla loro utilità e necessità, Gregorio VII, prima, e Innocenzo III, poi, mettono avanti innanzitutto la riserva pontificia. Data per acquisita la legittimità dei trasferimenti, si insiste ora su chi abbia il potere di operare il transfert. Al papa, si dice, è riservato tale diritto, perché un trasferimento è una “causa maggiore” e una causa maggiore deve essere trattata da chi ha il potere maggiore. Ma viene pur sempre espressa la condizione della necessità. «Per ragioni di necessità al papa è concesso di trasferire i vescovi da una sede all’altra» recita il tredicesimo dei Dictatus papae di Gregorio VII. Cui fa eco la decretale X, 1, 7, 3 di Innocenzo III: «Il Signore e Maestro si è riservato il potere di trasferire i vescovi e per speciale privilegio lo ha attribuito e concesso solo a san Pietro suo vicario e attraverso lui ai suoi successori e a noi stessi che, benché indegni, teniamo in terra il suo posto [...]. Non è infatti un uomo, ma Dio a separare quelli che il romano pontefice (che fa le veci sulla terra non di un semplice uomo ma del vero Dio) scioglie non per autorità umana ma divina». I trasferimenti, nel pensiero di Innocenzo III e della scuola bolognese, dunque, sono cosa del papa. «Considerata la necessità o l’utilità delle Chiese» aggiunge peraltro la medesima decretale.
In questo periodo l’argomento teologico si fa più insistente. Lo scopo è chiaro: rafforzando teologicamente il vincolo fra il vescovo e la sua Chiesa si intende renderne più difficile lo scioglimento. Scrive Innocenzo III al vescovo di Bamberga nel 1200: «Come un uomo non può sciogliere il vincolo del matrimonio legittimo che si stabilisce fra un uomo e una donna, dicendo il Signore nel Vangelo “Quel che Dio ha unito l’uomo non lo separi”, così anche il patto coniugale che si stabilisce fra il vescovo e la sua Chiesa [...] non può essere sciolto senza l’autorità di colui che è successore di Pietro e vicario di Gesù Cristo» (X, 1, 7, 4). Paradossalmente questa assimilazione al matrimonio rende però più ambigua presso i canonisti la teologia dell’episcopato (e se ne risentono fino a oggi gli effetti). Il vescovo infatti non è più considerato semplicemente il custode della Chiesa sposa di Cristo (sponsa Christi), bensì sposo della Chiesa, che ora è sponsa episcopi e innanzitutto sponsa papae, si potrebbe dire.

Vescovi migratori
Peraltro, se i trasferimenti sono restati eccezionali fino alla fine del XIII secolo, forse un po’ di merito va anche a quella teologia sponsale fatta propria, insieme col principio della stabilità, dal Decreto di Graziano e dalle decretali dei papi. Ma la svolta segue a breve scadenza. Coincide sostanzialmente col papato avignonese, quando le nomine episcopali sono in numero sempre maggiore riservate al papa, sottoposto ora a molteplici sollecitazioni. Si ripresenta la figura del vescovo di corte (quale era stato a suo tempo Eusebio di Nicomedia, il nostro punto di partenza). Ma questa volta di corte pontificia. La storia non si ripete mai identica. «Il pastore fedele al suo popolo cede il posto a un nuovo tipo di vescovo la cui carriera, contrassegnata da transfert, non è indifferente alle promozioni e alle soddisfazioni personali» scrive Jean Gaudemet, direttore insieme col defunto Gabriel Le Bras della mitica collana d’Histoire du droit et des institutions de l’Eglise en Occident, e forse massimo storico vivente del Diritto canonico. E porta qualche esempio: Pierre de la Forest, canonico di Parigi, fu vescovo di Tournai (1349), poi di Parigi (1351), poi arcivescovo di Rouen (1352) e infine cardinale (1355). I conti sono presto fatti: la permanenza risulta ridottissima, due o tre anni di media nella Francia di quell’epoca. Non basta. Il vescovo, anche durante la sua breve permanenza, è assente sempre più spesso. Tanto che il problema della residenza dei vescovi sarà il problema dei problemi al Concilio di Trento. E dopo, quando si tratterà della sua effettiva applicazione. Dei trasferimenti non si parlerà più.

L’equilibrio di sant’Alfonso
Ma un’epoca nuova si affaccia già con la seconda metà del XVIII secolo. Ne è interprete un vescovo marginale, di una piccola diocesi del Meridione d’Italia, ma santo, sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che costruisce tutta la sua somma autorità in campo morale sull’apostolato in mezzo ai poveri e sull’umile servizio episcopale a Sant’Agata dei Goti (1762-1775). Egli riprende ora l’argomento sponsale per la stessa ragione per cui al Medioevo sembrò bene svilupparlo, cioè perché lo scioglimento del vincolo fra vescovo e diocesi risulti proibito iure divino (per diritto divino). Ma i tempi, al suo tempo, erano di nuovo cambiati e questa proibizione iure divino viene fatta valere da lui per riservare al papa la questione solo condizionatamente a una causa davvero grave: «Il papa non può dispensare né lecitamente né validamente sine valde gravi causa» (Theologia moralis IV, 104). Sant’Alfonso sente il bisogno di ripetere la ratio della proibizione: «La ratio di questa indissolubilità naturale è che altrimenti ne scaturirebbero innumerevoli inconvenienti. Innanzitutto perché i vescovi verrebbero a mancare di amore per le loro Chiese, e inoltre quelle stesse Chiese non potrebbero essere rette bene se i vescovi cambiassero spesso» (ibidem, 104). La capisce anche un bambino questa ratio.
Poi i tempi sono di nuovo cambiati. A che punto stiamo oggi nei corsi e ricorsi della storia?


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