Pietro a Roma
Il vicepresidente del Senato, dopo la lettura del libro O Roma felix, chiede in una lettera quali siano le prove storiche per cui possiamo dire con certezza che il Principe degli apostoli è venuto ed è morto nella capitale dell’Impero. Gli risponde Lorenzo Bianchi
di Lorenzo Bianchi
La crocifissione di san Pietro, affresco del XIII secolo, Sancta Sanctorum presso il Laterano
Per le testimonianze di presenza, martirio e sepoltura di Pietro a Roma non occorre arrivare fino ad Eusebio di Cesarea, cioè al IV secolo.
La sepoltura è attestata per la prima volta dalle parole del presbitero Gaio, che allude al “trofeo” (si intenda “le spoglie mortali”) di Pietro in Vaticano; sebbene questa testimonianza sia riportata proprio nell’opera di Eusebio di Cesarea, si tratta di una citazione diretta delle parole di Gaio e alla sua epoca deve essere attribuita, cioè alla fine del II secolo o all’inizio del III (per la precisione, negli anni del pontificato di Zefirino, tra il 199 e il 217). Dice dunque Gaio (in Eusebio, Hist. eccl. II, 25, 7): «io posso mostrarti i trofei degli apostoli [Pietro e Paolo]. Se vorrai recarti nel Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa [di Roma]».
In quello stesso periodo, il martirio è attestato da Tertulliano, che verso il 200 scrive (De praescr. haer. 36) che la preminenza di Roma è legata al fatto che tre apostoli, Pietro, Paolo e Giovanni, vi hanno insegnato e i primi due vi sono morti martiri: «Si autem Italiae adiaces, habes Romam, unde nobis quoque auctoritas praesto est. Ista quam felix Ecclesia! cui totam doctrinam apostoli cum sanguine suo profuderunt: ubi Petrus passioni dominicae adaequatur; ubi Paulus Ioannis [Baptistae] exitu coronatur; ubi apostolus Ioannes postquam in oleum igneum demersus nihil passus est, in insulam relegatur».
Ma ancor prima il martirio è attestato da Clemente Romano, nella lettera ai Corinzi databile forse al 96 (1Cor 5-6):«prendiamo in considerazione i buoni apostoli: Pietro, che per gelosia ingiusta sopportò non uno né due ma molti affanni, e così, dopo aver reso testimonianza, s’incamminò verso il meritato luogo della gloria. [...] Intorno a questi uomini [Pietro e Paolo] che piamente si comportarono si raccolse una grande moltitudine di eletti, i quali, dopo aver sofferto per gelosia molti oltraggi e tormenti, divennero fra noi bellissimo esempio». Certo, non è nominata la parola “Roma”, ma Clemente scrive da Roma e il contesto stesso della lettera si riferisce a fatti accaduti a Roma: a Pietro e Paolo vengono inoltre accomunati i martiri romani («fra noi») della persecuzione neroniana, ai quali si riferisce l’ultima frase riportata. Non sono personalmente d’accordo con Margherita Guarducci nel dedurre da questo testo (esaminato in combinazione con altri, specialmente quello famoso di Tacito) anche il luogo preciso (il Circo Vaticano) e l’anno (il 64) del martirio di Pietro, questioni del resto molto controverse fra gli studiosi e per le quali si potrebbero elencare svariate opinioni dedotte da ricerche serie e condotte con metodologia scientifica (purtroppo, però, sono i dati di base che scarseggiano). Tutto ciò non invalida però la notizia del martirio di Pietro a Roma.
Un graffito rappresentante san Pietro, catacombe di Sant’Agnese, Roma
E, qualche decennio più tardi, tra il 175 e il 189, Ireneo di Lione attribuisce alla Chiesa di Roma «la più forte preminenza» («potentior principalitas») fra le altre, proprio in virtù della sua istituzione per opera di Pietro e Paolo (Adv. haer. III, 2: il brano ci è giunto nella traduzione latina): «Sed quoniam valde longum est in hoc tali volumine omnium ecclesiarum enumerare successiones, maximae et antiquissimae et omnibus cognitae, a gloriosissimis duobus apostolis Petro et Paulo Romae fundatae et constitutae ecclesiae, eam quam habet ab apostolis traditionem et adnuntiatam hominibus fidem per successiones episcoporum pervenientem usque ad nos indicantes, confundimus omnes eos qui quoquo modo, vel per sibiplacentiam vel vanam gloriam vel per ceacitatem et sententiam malam praeterquam oportet colligunt. Ad hanc enim ecclesiam propter potentiorem principalitatem necesse est omnem convenire ecclesiam, hoc est eos qui sunt undique fideles, in qua semper ab his qui sunt undique conservata est ea quae est ab apostolis traditio» («Ma poiché sarebbe troppo lungo in quest’opera enumerare le successioni di tutte le Chiese, prendiamo la Chiesa più grande e la più importante e conosciuta da tutti, fondata e istituita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo, e, mostrandone la tradizione ricevuta dagli apostoli e la fede annunciata agli uomini che giunge fino a noi attraverso le successioni dei vescovi, confondiamo tutti coloro che in qualunque modo, o per infatuazione o per vanagloria o per cecità e per errore di pensiero, si riuniscono oltre quello che è giusto. Con questa Chiesa infatti, per la sua più forte preminenza, è necessario che concordi ogni Chiesa, cioè i fedeli che da ogni parte del mondo provengono; con essa, nella quale da coloro che da ogni parte provengono fu sempre conservata la tradizione che discende dagli apostoli»).
Non bisogna credere alla presenza di Pietro a Roma perché gli Atti degli Apostoli non ne parlano? Gli argumenta e silentio in genere poco spesso hanno valore “forte”, e mai valore decisivo. D’altronde, più forte deve essere senz’altro considerato un opposto argumentum e silentio, e cioè che nessuna città ha mai rivendicato per sé il martirio e la sepoltura di Pietro.
Ma, oltre e a conferma delle testimonianze più sopra ricordate, a dimostrare la presenza di Pietro a Roma c’è l’evidenza archeologica, che almeno per quel che riguarda la presenza della tomba di Pietro sotto l’altare della Basilica vaticana, non può essere messa in dubbio. Devo innanzitutto chiarire che gli scavi sotto l’altare della Confessione di San Pietro (certo condotti con metodi che oggi nessun archeologo accetterebbe) non sono stati fatti da Margherita Guarducci, bensì, tra il 1940 e il 1949, sotto la direzione di monsignor Ludwig Kaas, da Enrico Josi, Antonio Ferrua, Engelbert Kirschbaum e Bruno Maria Apollonj Ghetti. Questi scavi, i cui risultati sono stati pubblicati nel 1951, hanno portato al ritrovamento, scientificamente dimostrato, della tomba di Pietro, sulla base di alcuni elementi datanti, della stratigrafia delle sepolture e della particolare collocazione della tomba terragna attorno e rispetto alla quale si orientano, con particolari accorgimenti, una serie di strutture successive, fino all’altare tuttora visibile nella Basilica. Questa conclusione, rafforzata dal ritrovamento del graffito «Petros eni» (databile a prima della fine del II secolo), è pacificamente accettata dagli archeologi (senza voler andare a consultare più ponderosi studi, basti leggere le argomentazioni alle pagine da 168 a 185 del manuale di Archeologia cristiana del compianto professore Pasquale Testini, Edipuglia, Bari 1980).
L’altare della Confessione nella Basilica di San Pietro, sotto il quale si trova la tomba dell’apostolo
Sarebbe poi curioso conoscere, da chi giudica in base a tali distinzioni, in quali atti e competenze debba caratterizzarsi scientificamente la figura dell’archeologo. Le recenti vicende del parcheggio di Propaganda Fide e della rampa Torlonia al Gianicolo, nelle quali ho avuto una qualche parte, mi hanno fra l’altro dimostrato che a volte anche la più alta scientificità di qualche archeologo si mostra incline a decadere, come tutte le cose umane, a più mediocri livelli, se le circostanze del momento suggeriscono di ignorare la “tradizione” (e relative fonti storiche) oppure di sostenere contro ogni evidenza, ad esempio, che dei cunicoli di catacombe siano solo semplici “cantine”, o ancor più di avallare, ripudiando più di mezzo secolo di metodologia della ricerca archeologica, improbabili “tagli conservativi” d’asporto di strutture murarie.
Caro direttore,
non ho titolo specialistico per discettare sulla venuta di Pietro a Roma, data per scontata in O Roma felix, libro allegato a 30Giorni; pure, essa venuta mi sembra non provata.
Clemente Romano, nella lettera scritta nel 96, non dice, per quanto io ricordi (non ho il testo con me), che Pietro venne a Roma: dice soltanto che subì il martirio sotto Nerone. La locuzione è temporale, non locativa, come è provato dai riferimenti di altri martìri, avvenuti sicuramente lontano da Roma, e portanti lo stesso riferimento temporale ad un imperatore in carica. È forse perciò ultronea la conclusione tratta dagli autori in cui si dice che «la lettera di Clemente è la più antica testimonianza sul Principe degli apostoli a Roma». E così anche il Bianchi, nel testo più recente scritto sull’argomento, afferma che la «prima notizia del martirio di Pietro a Roma, [...] risale alla fine del primo secolo, cioè al papa Clemente [...]». Riporta poi il testo, ove non v’è traccia del fatto che il martirio sarebbe avvenuto a Roma (L.Bianchi, Ad limina Petri, Roma 1999).
Non ho ora la possibilità di consultare il testo di papa Clemente, ma il mio ricordo (non esservi scritto che Pietro fu a Roma) è rafforzato dalle citazioni del testo nei due libri ora da me citati, ove questa notizia non c’è.
A me sembra che la prima notizia della presenza delle spoglie di Pietro in Vaticano, e perciò della probabile venuta a Roma, sia molto ma molto più tarda. Mi riferisco ad Eusebio di Cesarea, che scriveva agli inizi del IV secolo. Ed è significativo il fatto che la tradizione della presenza di Pietro a Roma vada di pari passo con l’affermando primato del vescovo di Roma.
A destra, il “muro g” con i graffiti contenenti acclamazioni a Cristo, Maria e Pietro. Nel loculo al di sotto del “muro g” sono riposte le ossa di Pietro. A sinistra, il frammento del “muro rosso” sul quale è inciso in greco il graffito PETROS ENI, «Pietro è qui dentro»
Infine, una domanda: se Pietro è venuto a Roma, perché negli Atti degli Apostoli (quelli autentici, non quelli apocrifi di Marcello) non si parla della venuta di Pietro a Roma? Pure essi descrivono con sufficiente dettaglio i primi anni del cristianesimo: mi sembra questo un argumentum ex silentio forte.
In verità, la presenza di Pietro a Roma sembra necessaria per motivare il primato papale: scrivo sembra, perché non lo è. Il primato romano è indiscutibile, perché assegnato dalla storia. Può essere rimesso in discussione dalla stessa Chiesa, per ragioni ecumeniche. Al momento non lo è. Scrivo queste cose, caro direttore, da laico e da “non specialista”; in più, scrivo da Roma e non da casa, ove avrei potuto consultare i testi. Mi scuso perciò per qualche imprecisione. In conclusione, non voglio affermare che Pietro non è venuto e non ha subito il martirio a Roma. Voglio solo dire che, mentre è scientificamente provata la venuta di Paolo, non lo è quella di Pietro. La sua presenza a Roma è perciò solo affidata ad una tradizione autorevole.
Con cordiale ossequio,
Domenico C. Contestabile
Vicepresidente del Senato