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GUERRA IN IUGOSLAVIA
tratto dal n. 04 - 1999

Se l’impero è unico la libertà è in pericolo


La Santa Sede ha sempre temuto che l’ordine mondiale dipendesse da un solo potere. Oggi, a dieci anni dall’89, una sola superpotenza imponele proprie regole con la forza


di Marco Politi


Nella memoria l’immagine mi è rimasta assolutamente chiara. Il vecchio Papa in piedi nel corridoio dell’aereo Alitalia, mentre sorvoliamo l’Atlantico diretti a Città del Messico. 22 gennaio di quest’anno. Wojtyla cerca le parole, le pronuncia lentamente come se a una a una si modellassero nel suo pensiero. La lentezza è calcolata, perché il Pontefice non improvvisa. O meglio, anche quando improvvisa, segue il filo di un suo lontano discorso. «Dopo la caduta dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti sono rimasti soli… Non so se è un bene o no… Ma è così».
Venti anni fa, ricorda il Papa, quando per la prima volta si recò in Messico, «c’era la contrapposizione tra Est e Ovest, tra Stati Uniti e blocco sovietico… Oggi questa contrapposizione non c’è più». Qualcuno di noi giornalisti, che lo seguiamo in tutti i suoi viaggi, cerca di stimolarlo a un commento ulteriore. Il Papa replica pensieroso: «Mah, lasciamo stare…». Riusciamo a sentire l’auspicio di un mondo umano, giusto e pacifico. Ancora una pausa. E poi Giovanni Paolo II sospira: «Vivere in pace…».
Belgrado, i  soldati cercano i corpi dei civili morti tra le macerie del palazzo 
della televisione distrutto dalla Nato il 23 aprile

Belgrado, i soldati cercano i corpi dei civili morti tra le macerie del palazzo della televisione distrutto dalla Nato il 23 aprile

Dunque, gli Stati Uniti sono rimasti “soli”.
È questo il rovello della Santa Sede. Non c’è nostalgia per l’equilibrio del terrore nato a Yalta – come potrebbe essere nostalgico il Papa polacco? – ma desiderio di “equilibrio” sì. Giovanni Paolo II è fermamente convinto che il mondo va gestito con la partecipazione di tutti i membri della comunità mondiale. «Il diritto internazionale» ha detto all’inizio dell’anno ricevendo il corpo diplomatico «non può essere quello del più forte».
Il Vaticano non nega il ruolo (e le responsabilità) di leadership internazionale degli Usa, ma è allarmato nei confronti di ciò che può profilarsi come un predominio, una tentazione a usare la propria forza politica, economica, militare e culturale svincolata da un’adeguata considerazione di altri interessi geopolitici. Come ha detto una volta con finezza il “ministro degli Esteri” papale, monsignor Jean-Louis Tauran: «C’è la tentazione di imporre la propria filosofia, le proprie regole».
Il taglio, la divaricazione evidente tra la visione geopolitica della Santa Sede e quella attualmente prevalente negli Stati Uniti, è avvenuto nel dicembre 1998. Da tempo era maturato in seno alla Segreteria di Stato vaticana un sentimento di disagio, se non di allarme, per l’iperegemonia americana (per usare un termine caro ai francesi). I raid aerei angloamericani contro l’Iraq fecero precipitare la situazione. «La Santa Sede si augura che questa aggressione termini quanto prima e venga ristabilito l’ordine internazionale», dichiarò immediatamente il 17 dicembre 1998 il portavoce vaticano Joaquín Navarro-Valls.
«Aggressione»: mai questo termine era stato impiegato dal Vaticano nei confronti degli Stati Uniti. E neppure mai Washington era stata accusata di violare l’ordine internazionale, che andava «ristabilito». Pochi giorni dopo il cardinale segretario di Stato avrebbe esplicitato maggiormente il dissenso della Santa Sede nei confronti di un uso disinvolto delle risoluzioni dell’Onu da parte della Casa Bianca: «C’è un aspetto che pochi hanno segnalato: è quello dei due pesi e delle due misure. Ci sono risoluzioni che a volte si applicano e a volte no». L’allusione era rivolta alla politica americana assai arrendevole nei confronti del modo con cui Israele ha disapplicato le risoluzioni dell’Onu sui territori occupati e su Gerusalemme (non rispettando neanche le tappe di ritiro previste dagli accordi di Oslo).
La “guerra d’Europa”, scoppiata nei Balcani, ha approfondito il gap tra Washington e il Vaticano. Sembra di assistere al capovolgimento di quella santa alleanza tra Giovanni Paolo II e il presidente Reagan, che per molti osservatori caratterizzò gli anni Ottanta. Un’alleanza, nel senso stretto del termine, in verità non esisteva. Ma fu certamente l’epoca di una convergenza strategica, in cui da entrambe le parti si agì in sintonia per frenare l’espansionismo sovietico, difendere Solidarnosc e garantire alla Polonia la possibilità di uno sviluppo sociale autonomo.
L’esito non lo poteva prevedere nessuno, all’inizio del pontificato wojtyliano, ma la concordanza di giudizio e di azione nei confronti di Mosca indubbiamente ci fu e diventò un potente fattore di cambiamento della scena mondiale.
Questa concordanza non c’è più. Princeps legibus solutus, dicevano i giuristi romani dell’imperatore. Il principe è al di sopra delle leggi. Per sua natura la Santa Sede è diffidente nei confronti di un principe universale, che rischi di porsi al di sopra delle regole. Certo, l’Onu è faticosa. Ci sono veti da affrontare, mediazioni da elaborare, interessi con cui fare i conti. Ma qualsiasi ordine, si tratti di un municipio di villaggio o di una nazione o di un’organizzazione di Stati, ha bisogno di pesi e contrappesi. Wojtyla, insieme a Bush e Gorbaciov, voleva (e vuole tuttora) un “nuovo ordine mondiale”. Invece assiste con inquietudine alla tendenza degli Stati Uniti di bypassare sempre più spesso le Nazioni Unite, di interpretare a suo modo le risoluzioni, di ignorare addirittura la necessità di una legittimazione dell’Onu per ricorrere all’uso della forza. Così non si supera Yalta. Si torna alla preistoria delle regole internazionali costruite faticosamente dopo la seconda guerra mondiale. È come se Washington volesse sbarazzarsi sulla scena internazionale di ogni contrappeso, di ogni camera di compensazione (che per definizione esige fatica e compromessi).
«Gli Stati Uniti sono rimasti soli... Non so se è un bene o no...».
In queste settimane di ambigua e terribile guerra nei Balcani si capisce ancora meglio l’esclamazione di Giovanni Paolo II. È una posizione di oggi, ma le sue radici sono secolari. La Sede romana ha sempre preferito che vi fossero pesi e contrappesi nella comunità dei popoli e norme “naturali e morali” che superassero l’arbitrio o gli interessi di un principe. Certo, c’era il mito dell’impero universale cristiano, ma nei fatti la saggezza politica del papato ha sempre contrastato un imperatore del mondo (fosse pure solo del mondo conosciuto, l’Europa e il bacino del Mediterraneo). Contro i Bizantini Roma si appoggiava ai Franchi, contro i Longobardi chiamava Carlo Magno. Contro gli imperatori tedeschi si alleava con i Normanni. Contro il Barbarossa appoggiava i comuni, contro gli Svevi invocava gli Angioini. In tempi successivi sarebbe stata la politica del Regno Unito, convinto che per l’Europa (e per i propri interessi) era preferibile un “concerto delle nazioni” piuttosto che l’egemonia di una sola nazione. La Carta delle Nazioni Unite nasce in fondo dalla consapevolezza che un nuovo ordine internazionale deve basarsi sulla concertazione degli Stati del mondo, pur concedendo il diritto di veto alle potenze vincitrici della guerra.
Cinquanta anni dopo, mentre si afferma pienamente il concetto della globalizzazione, Giovanni Paolo II è tornato frequentemente sull’argomento di un ordine mondiale gestito comunitariamente, sottolineando la preminenza delle organizzazioni internazionali (cioè le Nazioni Unite) chiamate a garantire la validità e la forza del diritto internazionale. Non c’è, ovviamente, nessun riflesso antiamericano nella sua impostazione. Giovanni Paolo II ha espresso ripetutamente e davanti a grandi folle il suo apprezzamento per la religiosità del popolo americano, per il suo attaccamento ai grandi valori umani, per la sua capacità di correre in soccorso alle nazioni più svantaggiate in situazioni disperate.
L’arcivescovo Jean-Louis Tauran, inviato del Papa, con Slobodan Milosevic, il 1 aprile

L’arcivescovo Jean-Louis Tauran, inviato del Papa, con Slobodan Milosevic, il 1 aprile

Il punto è un altro e riguarda la gestione del mondo. Giovanni Paolo II crede che la fine della guerra fredda e l’eclissi della Russia come superpotenza non debbano portare a una situazione incontrollata, in cui si afferma il più forte ed il più forte usa la legge quando meglio risponde ai suoi interessi. «Nell’ambito della comunità internazionale» ha dichiarato nel suo messaggio per la Giornata mondiale per la pace 1999 «nazioni e popoli hanno il diritto di partecipare alle decisioni, che spesso modificano profondamente il loro modo di vivere». Il principio vale soprattutto per le grandi scelte: «La ricerca del bene comune nazionale e internazionale» prosegue il Papa «esige una fattiva attuazione del diritto di tutti a partecipare alle decisioni che li concernono».
E quale decisione è più fondamentale della pace e della guerra? La guerra d’Europa, che sta devastando i Balcani senza proteggere i kosovari, è per la Santa Sede il banco di prova di come si gestiscono o non si gestiscono le crisi internazionali. Nei confronti dei dittatori che popolano il mondo è inutile dire che il Pontefice non nutre nessuna simpatia. Stragi e pulizie etniche gli fanno orrore e profonda è stata la sua angoscia, quando ha visto scorrere sui teleschermi le immagini dei deportati kosovari vittime della barbarie delle milizie di Milosevic.
«Nessuno Stato può commettere crimini gravi riparandosi dietro lo schermo della sovranità nazionale», ha dichiarato recentemente a Le Figaro monsignor Jean-Louis Tauran, a conferma della posizione vaticana favorevole agli interventi umanitari (anzi, si può dire che tali interventi siano stati inventati dalla Santa Sede al tempo del conflitto in Bosnia).
Ma per la Santa Sede conta moltissimo chi, come, con quali mezzi e obiettivi interviene nelle crisi che scuotono il mondo. Non ci può essere unilateralismo. Non ci può essere un principe, che fa per conto suo o per conto suo interpreta i diritti universali. Appartiene certamente agli acuti paradossi della guerra in corso il fatto che la Nato bombardi la Iugoslavia per garantire ai kosovari quei diritti, che nemmeno per la centesima parte un membro Nato come la Turchia è disposto ad accordare alla propria minoranza dei curdi, vittime di una sanguinosa repressione che ha già provocato decine di migliaia di morti, e ai quali viene persino negata la facoltà di una blanda autonomia come quella che in Italia godono i valdostani.
Perciò, appena si è affacciato sulla scena Kofi Annan, il Papa ha voluto inviargli un caloroso messaggio di incoraggiamento, auspicando che l’Onu «ritrovi il suo posto» nella gestione della crisi e sottolineando significativamente l’esigenza di un «negoziato realista».
Il Vaticano non condivide una politica basata sugli aut aut.
Non è sfuggito a nessuno che nella guerra d’Europa la Santa Sede ha sistematicamente avanzato proposte che si distinguevano dalla politica ultimativa della Nato e della Casa Bianca.
La Santa Sede non ha “giurato” sul documento di Rambouillet, perché ha capito prima di altri che non era un accordo ma un testo che imponeva ai serbi condizioni inaccettabili.
La Santa Sede, dopo i primi bombardamenti, ha proposto una tregua pasquale per verificare la possibilità di riprendere un negoziato autentico.
La Santa Sede ha proposto un corridoio umanitario per permettere l’assistenza ai kosovari.
La Santa Sede ha proposto un dialogo “leale e paziente”, cioè qualcosa di radicalmente opposto nel metodo alle cinque condizioni-ultimatum proclamate dal segretario della Nato. Là dove il Papa dice “trattare”, la Casa Bianca risponde con il diktat delle condizioni Nato da prendere o lasciare. Come se a Washington affiorasse ogni tanto lo spirito che animò i nordisti durante la guerra di Secessione, sintetizzato dalle due parole: «Unconditional surrender», resa incondizionata.
Sono evidentemente due visioni del mondo molto diverse.
In ultima analisi il filo conduttore dell’azione diplomatica papale risiede nel convincimento della necessità che la crisi torni a essere gestita da mani internazionali e non da un solo polo del potere mondiale.
Non è per pacifismo che agisce Giovanni Paolo II. La Chiesa non è mai stata pacifista nel senso ideologico del termine. Papa Wojtyla, si potrebbe dire, agisce in questi momenti con la visione dell’uomo di Stato e del filosofo della storia. Lo sviluppo dei fatti e le rivelazioni, che come sempre affioreranno dopo la guerra, diranno se ha indicato la rotta giusta.


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