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STORIA
tratto dal n. 08/09 - 2003

Il contrasto fra Orlando e Cadorna durante la Grande guerra

Orlando contro Cadorna: duello di Stato


Cadorna, comandante supremo delle Forze armate, avrebbe voluto un governo forte, implacabile contro tutti coloro i quali criticavano la guerra. Orlando, responsabile della politica interna, intendeva viceversa mediare ed evitare crisi laceranti. La resa dei conti avvenne con la disfatta di Caporetto


di Piero Melograni


Sopra, Vittorio Emanuele Orlando; sotto, Luigi Cadorna col suo Stato maggiore segue un’azione dalle pendici del monte Zerula, in Carnia, nell’estate del 1917

Sopra, Vittorio Emanuele Orlando; sotto, Luigi Cadorna col suo Stato maggiore segue un’azione dalle pendici del monte Zerula, in Carnia, nell’estate del 1917

Durante la Prima guerra mondiale gravi contrasti si manifestarono tra i politici e i militari, in particolare tra Vittorio Emanuele Orlando e Luigi Cadorna. Orlando fu ministro della Giustizia nel governo Salandra (dal novembre 1914 al giugno 1916), ministro dell’Interno nel governo Boselli (dal giugno 1916 all’ottobre 1917), e presidente del Consiglio (dall’ottobre 1917 al giugno 1919). Il generale Cadorna fu a capo dello Stato maggiore dell’esercito dal 10 luglio 1914 all’8 novembre 1917. In pratica, dall’inizio della guerra a Caporetto, fu lui il comandante supremo delle Forze armate.
Lo Statuto del regno avrebbe riservato a Vittorio Emanuele III il comando supremo, ma Cadorna, prima di accettare l’incarico di capo di Stato maggiore, pose la condizione di essere lui il capo supremo in caso di guerra. Il re non si oppose sia perché possedeva un carattere schivo, sia perché, rinunciando ad assumere la responsabilità delle operazioni militari, riteneva di poter meglio garantire la prosecuzione dell’istituto monarchico nell’eventualità di una sconfitta o di una pace di compromesso. Il re conservò “le apparenze” del comando e soltanto quelle.
Il palermitano Vittorio Emanuele Orlando, oltre che un eccellente giurista, era un uomo politico assai navigato, deputato al Parlamento fin dal 1897, due volte ministro con Giovanni Giolitti. Duttile e smaliziato era abituato ai compromessi e alle schermaglie parlamentari. Non era un fanatico e, nel 1914-15, aveva esitato a schierarsi per l’intervento italiano contro l’Austria-Ungheria. Nel 1916, secondo Ferdinando Martini, cercò di evitare che l’Italia dichiarasse guerra anche alla Germania. Liberale e laico non era anticlericale, anche se apparteneva, per quel che si dice, alla massoneria. La prima volta era stato eletto deputato nel collegio di Partinico, in provincia di Palermo, vale a dire in una zona controllata dalla mafia rurale.
Cadorna possedeva un carattere totalmente diverso da quello di Orlando. Era un uomo rigido, militaresco, autoritario, caparbio e ostinato. A differenza di altri generali non apparteneva alla massoneria e subiva l’influsso di ambienti clericali. Due sue figlie si erano fatte monache. Il generale riteneva che l’indisciplina degli italiani fosse cresciuta negli ultimi decenni proprio perché il freno del sentimento religioso era stato sradicato. Pensava che il regime parlamentare avesse subìto una progressiva degenerazione a partire dal 1876, dalla caduta della Destra, e che Giolitti avesse ulteriormente guastato la società italiana corrompendone l’anima. Dopo la guerra, nelle sue Pagine polemiche, Cadorna scrisse che tutti i governi succedutisi nel corso della Prima guerra mondiale avrebbero meritato di «essere spazzati via per essere sostituiti con un regime più confacente alle necessità della grave ora che si stava attraversando». Alludeva ovviamente al regime mussoliniano. In una lettera del 1926 diretta al generale Krafft von Demmelsingen, Cadorna sostenne che, se nel 1917 l’Italia avesse avuto un governo forte come quello di Mussolini, il disastro di Caporetto non ci sarebbe stato.
Le diversità fra Orlando e Cadorna erano assai pronunciate e difatti, come abbiamo già detto, fra i due uomini scoccarono scintille. Il primo incidente ebbe luogo nell’autunno 1915, allorché la guerra cominciò a dimostrarsi più lunga del previsto e l’opinione pubblica interventista entrò in crisi. Dopo le illusioni del “radioso maggio” gli italiani e in particolare gli interventisti piombarono in un funereo autunno. Dato che lo scontento ebbe modo di diffondersi anche fra i reparti combattenti, Cadorna emanò direttive affinché «una salutare giustizia sommaria» fosse vieppiù applicata nei confronti di chi tentasse di arrendersi o retrocedere. Il 15 ottobre, a tale proposito, scrisse una lettera ad Antonio Salandra, presidente del Consiglio. Gli spiegò che la natura di alcuni reati, come ad esempio la diserzione, dava spesso luogo a giudizi contumaciali i quali dovevano essere revocati nel caso di una successiva volontaria costituzione del condannato o del suo pervenire in mano alla giustizia. Cadorna riferì di avere inizialmente pensato di dettare norme le quali rendessero “irrevocabili” le sentenze contumaciali, senonché tale soluzione aveva dovuto essere scartata dopo un più maturo esame della questione. Chiedeva pertanto al governo di escogitare qualche altra misura, come ad esempio l’esclusione dalla grazia sovrana.
Salandra si rivolse a Orlando, suo ministro della Giustizia, e Orlando, con qualche sarcasmo, scrisse il 20 ottobre ciò che pensava di Cadorna: «Mi felicito innanzi tutto che il sullodato generale abbia da sé esclusa la possibilità che siano rese definitive le sentenze contumaciali: ciò ripugnerebbe alla più elementare giustizia e potrebbe condurre a conseguenze assolutamente enormi». Quanto al diritto alla grazia sovrana, esso era senz’altro escluso finché la sentenza restava riformabile: ma per escluderlo in presenza di una sentenza definitiva, faceva notare il ministro, sarebbe stato necessario cambiare lo Statuto del regno. Il presidente Salandra riferì la sostanza di queste argomentazioni al comandante supremo che ricevette, in tal modo, una lezione di diritto per lui sgradevole. Cadorna cercò di rimediare a modo suo disponendo che i comandi dessero parere favorevole all’inoltro della domanda di grazia soltanto nei casi “veramente meritevoli” e, nel gennaio 1916, tornò a lamentare con Salandra i limiti posti dalle leggi penali militari, deplorando che il codice penale non gli consentisse di ordinare la decimazione dei reparti.
Nel 1916, la guerra continuò senza che se ne scorgesse la fine. E all’interno del Consiglio dei ministri sia Orlando sia altri suoi colleghi cominciarono a criticare vivacemente il comandante supremo. Cadorna lo venne a sapere grazie ai suoi informatori. Apprese che Orlando, in particolare, avrebbe voluto sostituirlo con Di Robilant e seppe che Orlando, insieme con altri, aveva espresso insofferenza per le chiusure del comandante supremo nei confronti del mondo politico. Cadorna in effetti, sapendo che i politici erano poco o nulla al corrente delle faccende militari, si batteva perché la guida della guerra restasse sua e soltanto sua. Orlando e altri ritenevano invece che il conflitto in corso, avendo assunto i caratteri di una guerra totale, esigesse una profonda intesa fra il potere civile e quello militare.
Cadorna, oltre a escludere i ministri dalle faccende militari, avrebbe voluto dettare ai ministri la sua linea politica. Avrebbe voluto un governo forte, implacabile contro tutti coloro i quali criticavano la guerra. Orlando, responsabile della politica interna, intendeva viceversa mediare ed evitare crisi laceranti. Il 4 novembre 1916, tuttavia, lo stesso Orlando ritenne suo dovere accettare le sollecitazioni provenienti dal comando supremo ed emanare una circolare ai prefetti affinché reprimessero ogni forma di propaganda contraria alla guerra. Invitò i prefetti a vigilare sia sui militari in licenza invernale sia sui “perturbatori” che si fossero permessi di addottrinare questi militari.
A Cadorna, in realtà, sarebbe piaciuto arrivare a una vera e propria messa al bando del Partito socialista italiano. Questo partito, infatti, al momento dell’intervento dell’Italia in guerra, aveva assunto una posizione molto diversa dai partiti socialisti di Francia, Germania o Austria, i quali avevano accolto l’appello delle rispettive patrie. Il partito italiano aveva invece adottato una linea equivoca, quella del “non aderire né sabotare”. Al di là dell’equivoco tuttavia, nei fatti concreti, il Partito socialista italiano restava ad attendere gli eventi, pensando che il tempo lavorasse in suo favore.
I socialisti più moderati, come Filippo Turati e Claudio Treves, sarebbero stati favorevoli ad avvicinare le masse alla causa nazionale e, in tal senso, fin dai primi di giugno del 1915, avevano scritto al presidente del Consiglio Salandra. Ma Salandra non aveva giudicato conveniente accogliere la loro offerta di collaborazione, nella errata convinzione che la guerra si potesse risolvere in poche settimane con una schiacciante vittoria. Il tricolore, in attesa di questa imminente vittoria, sventolò anche dal balcone di Palazzo d’Accursio, sede del comune socialista di Bologna. E i giovani socialisti richiamati alle armi combatterono disciplinatamente: lo stesso segretario nazionale della Federazione giovanile socialista, Amedeo Catanesi, morì al fronte nel luglio 1915.
Nel corso del 1916, con il diffondersi di un generale malcontento nei confronti di una guerra sempre più lunga e dolorosa, la sinistra socialista accentuò i suoi sentimenti antipatriottici. E tuttavia anche la Sinistra ritenne che le scelte più impegnative dovessero essere rinviate al dopoguerra. Nel maggio 1916, a Molinella (Bologna), si levarono grida di “abbasso la guerra” dal treno in cui viaggiavano i coscritti della classe 1897 e ne furono arrestati otto, tutti socialisti. In quello stesso mese, ad Arezzo, altri coscritti furono arrestati per aver inneggiato alla pace e alla rivoluzione socialista. Nella seconda metà del 1916 furono processati alcuni dirigenti della Federazione giovanile socialista per aver stampato (e non ancora distribuito) 1.300 manifestini di critica alla guerra. Ma il 15 marzo, alla Camera, l’onorevole Giulio Casalini, deputato socialista di Torino, affermò che il suo partito sabotava non la guerra, bensì «la eventualità di movimenti impulsivi delle masse». E l’onorevole Modesto Cugnolio, il 19 marzo, dichiarò inammissibile che il nemico «venisse nel nostro Paese e s’insediasse nelle nostre case». Mentre Filippo Turati, il 14 dicembre, fra gli applausi generali dell’aula di Montecitorio, si spinse fino ad affermare che l’Italia non potesse concludere la pace, senza ottenere sia i territori sia le garanzie strategiche che le spettavano di diritto. I socialisti “intransigenti”, d’altra parte, non soltanto erano incerti sui loro compiti immediati, ma restavano in minoranza nel partito, tanto che nella stessa Torino, in ottobre, vennero battuti dai socialisti moderati ed esclusi dalla Commissione esecutiva successivamente eletta nel marzo 1917.
Tenendo conto dei rassicuranti segnali, il ministro dell’Interno, Orlando, ritenne che, mettendo fuori legge il Partito socialista, l’ordine pubblico avrebbe ricavato più danni che vantaggi. Il 31 dicembre 1916, durante un colloquio con l’interventista Leonida Bissolati, dichiarò di aver comunque predisposto i decreti per la proclamazione dello stato d’assedio; ma soggiunse di non vedere la necessità di applicarli, dato che il Paese era tranquillo e gli stessi deputati socialisti lo aiutavano nell’opera di polizia.
Nel corso del 1917 la guerra continuò e lo scontento crebbe ancora. Sia fra i civili, sia fra i militari si diffusero le proteste contro la guerra. Lo scoppio della rivoluzione russa, l’8 marzo, e l’intervento in guerra degli Stati Uniti d’America, il 6 aprile, suscitarono eccitazione e fermenti, facendo nascere l’illusione che la pace fosse ormai vicinissima. Benedetto XV parlò del conflitto in corso come di «un’inutile strage». E tutto questo spinse gli interventisti più accesi a reclamare provvedimenti di carattere eccezionale contro i neutralisti e specialmente contro i socialisti. Questi interventisti temettero infatti che una pace di compromesso potesse segnare la loro sconfitta politica. Misero in atto manovre parlamentari ed extraparlamentari contro il ministro degli Esteri Sonnino e specialmente contro Orlando. Fondarono comitati e leghe di resistenza per dare la caccia ai neutralisti nel Paese. Fecero di Cadorna una loro bandiera e ottennero che il comandante supremo agisse d’intesa con loro. Si parlò perfino di un possibile colpo di Stato militare che avrebbe consegnato la guida della cosa pubblica al generale Cadorna o al generale Giardino. Ottavio Dinale, redattore del Popolo d’Italia ed esponente dell’interventismo milanese, rivelò di essersi recato più volte a questo scopo nella città di Udine, sede del comando supremo. Ma aggiunse che Cadorna, in luglio, decise all’improvviso di non volere più seguire le vicende del complotto: «Si venne a sapere molto più tardi che tale inatteso atteggiamento era stato determinato dagli scrupoli religiosi e monarchici infiltrati nell’animo del generale dall’abilità di padre Semeria, suo confessore».
I resti di un soldato aggrappato al filo spinato di una trincea sull’Isonzo.

I resti di un soldato aggrappato al filo spinato di una trincea sull’Isonzo.

Certo è che tra il 6 e il 13 giugno 1917, Cadorna inviò al presidente Boselli tre lettere sulla politica interna, nelle quali denunciò il moltiplicarsi degli atti di indisciplina tra i militari, specialmente tra i siciliani, e sostenne che la responsabilità di tali atti ricadeva sul governo di Roma, per la colpevole tolleranza da esso dimostrata verso la propaganda sovversiva nel Paese. In agosto inviò una quarta lettera. Nelle sue memorie, Cadorna spiegò che cosa avrebbe preteso in quei mesi dal governo: «Io non credo affatto» scrisse «che fosse necessario un regime di terrore, anzi l’avrei giudicato dannoso. Sarebbe stato sufficiente, io credo, arrestare qualche centinaio di caporioni, di propagandisti, liberarne il bel Paese trasportandoli sulle coste dell’Eritrea o della Somalia, e sopprimere i giornali e giornalucoli, avvelenatori dello spirito pubblico, che pullulavano e che il governo lasciava liberamente pullulare in ogni angolo d’Italia». Secondo Giuseppe Antonio Borgese, Cadorna intendeva far arrestare anche il ministro Orlando.
Il presidente Boselli, dopo le prime tre lettere, chiese un parere a Orlando e questi demolì le argomentazioni di Cadorna: l’aumento della delinquenza militare poteva ben esserci stato, ma riguardava pure quei reati individuali (come l’autolesionismo) sui quali la propaganda politica non era in grado di esercitare alcun influsso; neanche l’indisciplina dei siciliani al fronte poteva essere imputata ai socialisti, dato che in Sicilia quel partito era scarsamente rappresentato.
In realtà Cadorna non si rendeva sufficientemente conto del fatto che gli operai e i socialisti, da quando la guerra aveva avuto inizio, erano sostanzialmente disarmati e impotenti. In Italia, difatti, forse più che altrove, si era determinata una profonda spaccatura tra i contadini, richiamati alle armi, e gli operai delle industrie, in larga misura esonerati dal servizio militare. Da una parte c’era l’esercito dei fanti-contadini, con i loro ufficiali piccolo borghesi, borghesi o aristocratici, e dall’altra gli operai-imboscati che, come segnale del loro esonero dal servizio militare, portavano al braccio una fascia tricolore. Erano stati esonerati perché le loro competenze tecniche li rendevano indispensabili nelle produzioni di guerra. Né si trattava soltanto delle industrie di guerra in senso stretto, bensì di quasi tutti i settori industriali: dal tessile al calzaturiero, dall’alimentare al chimico, dalla produzione di auto, camion e vagoni ferroviari, alla produzione di apparecchiature ottiche, fotografiche, telefoniche e telegrafiche, dai cantieri navali alla fabbricazione degli aerei.
I fanti-contadini, che per poche lire ponevano a rischio la loro vita, odiavano gli operai-imboscati che guadagnavano molto più di loro, restavano a casa con le famiglie o magari con le amanti, e non rischiavano di essere uccisi dal piombo austriaco. E così, allorché a Torino, nell’agosto 1917, furono chiamati a reprimere una sommossa degli operai-imboscati e delle loro donne, dovuta alla mancanza del pane, i fanti-contadini spararono con grande convinzione. Alla fine, tra i rivoltosi, si contarono 35 morti, di cui 5 donne, mentre la forza pubblica e i reparti militari ebbero 3 morti. I dirigenti socialisti e sindacali svolsero opera di moderazione tanto che, nonostante la rivolta, buona parte delle maestranze industriali continuò disciplinatamente a lavorare nelle fabbriche.
Ma i socialisti erano disarmati anche grazie a una preveggente politica adottata dai comandi delle Forze armate. I dirigenti politici e sindacali “sospetti” richiamati alle armi, infatti, venivano senz’altro allontanati dalla zona di guerra, per essere relegati nei reparti di stanza in luoghi lontanissimi dal fronte, dove la loro presenza non potesse suscitare preoccupazioni. Gli stessi dirigenti politici e sindacali erano lieti di preservare le loro vite imboscandosi nelle lontane retrovie, fra i “territoriali”, anche se questa separazione dai reparti combattenti rendeva loro impossibile esercitare un’efficace attività di propaganda e di guida rivoluzionaria. Alcuni paragonarono la ritirata di Caporetto a uno sciopero delle truppe. Ma uno sciopero, come obiettò Luigi Albertini, il direttore del Corriere della Sera, presupponeva dei capi. E nel caso di Caporetto i capi degli scioperanti non c’erano. Alcuni soldati, durante la ritirata, cantarono l’Inno dei lavoratori, altri gridarono “Viva Giolitti”, “Viva il Papa”, o “Viva la pace”. Ma la folla degli uomini in grigioverde che abbandonò in massa l’Isonzo non era animata da spiriti sovversivi. L’automobile del re, in cui viaggiavano Orlando, il generale Brusati e il ministro della Real Casa, si trovò d’improvviso isolata in mezzo alla fiumana degli sbandati. Ma i soldati in fuga passarono e lasciarono passare: alcuni di essi riconobbero il re e lo salutarono con rispetto. «Mai migliore né più facile occasione» scrisse Orlando nelle sue memorie «si sarebbe potuta offrire di impadronirsi del capo dello Stato e, nel tempo stesso, del capo del governo». Anche Cadorna ebbe un’analoga esperienza il 6 novembre fra Treviso e Padova, mentre era accompagnato in auto dal solo generale Giardino e senza scorta: «Passammo» scrisse poi «attraverso una lunghissima colonna di sbandati. Qual migliore occasione per ingiuriarmi impunemente e peggio! Ebbene, non una voce, men che rispettosa, partì da quella turba».
Nel contrasto fra Cadorna e Orlando, siamo dunque indotti a giustificare la prudente politica adottata dal ministro dell’Interno. Il quale, tornando alle vicende dell’estate del 1917 e dunque alle lettere inviate da Cadorna a Boselli prima di Caporetto, propose che ad ogni buon conto fosse presto indetta una riunione collettiva del comandante supremo con alcuni ministri, al fine di approfondire i problemi della politica interna. Questa riunione non si tenne mai. Intervennero, presumibilmente, gli scrupoli religiosi e monarchici suscitati in Cadorna dal suo confessore. Oppure il generale intuì il rischio di infilarsi in una strada per lui assai pericolosa: complottando un colpo di Stato con alcuni avventurosi interventisti avrebbe potuto facilmente perdere il comando supremo. E in un duello polemico con i politici e in particolare con Orlando, avrebbe potuto dimostrarsi assai meno abile e soccombere. Nel giugno 1917, fra l’altro, la Camera si era riunita a porte chiuse, in Comitato segreto, e Orlando era uscito benissimo dal dibattito, mentre Cadorna era stato pesantemente criticato. Perfino l’onorevole Marcello Soleri aveva rivelato in aula che Cadorna tramava un colpo di Stato. Certo è che Cadorna venne a Roma per partecipare a una riunione con i ministri soltanto il 28 settembre e che, nel corso di tale riunione, si rifiutò di discutere la politica interna.
A distanza di poche settimane da questa riunione l’intero quadro politico e militare venne sconvolto dalla disfatta di Caporetto. La battaglia ebbe inizio il 25 ottobre e qualche giorno più tardi Cadorna non fu più il comandante supremo, poiché fu sostituito da Armando Diaz, mentre Orlando diventò presidente del Consiglio al posto del vecchio Boselli. Tra Orlando e Diaz i rapporti furono molto più facili e cordiali.
Molto probabilmente fin dal 28 ottobre, assumendo la presidenza del Consiglio, Orlando aveva trattato col re la liquidazione di Cadorna. Ma il 6 novembre, allorché si recò alla Conferenza di Rapallo, per incontrarvi i dirigenti politici francesi e britannici, non aveva ancora formalizzato il licenziamento del generale e magari avrebbe ritenuto prudente attendere prima che si consolidasse la linea del fronte. Senonché i due premier alleati, David Lloyd George e Paul Painlevé, gli comunicarono subito, senza tante cerimonie, che Cadorna doveva essere sostituito al più presto. Un abile diplomatico britannico, sir Maurice Hankey, suggerì di rimuovere il vecchio comandante supremo promuovendolo capo del Consiglio superiore interalleato in via di costituzione (un incarico poco più che onorifico) e Orlando colse la palla al balzo esonerando Cadorna la sera stessa.
Il generale venne informato l’indomani, all’ora di cena. E al Comando supremo ebbe inizio un tragico pranzo. I commensali pensavano che, con la liquidazione di Cadorna, stesse finendo un’epoca. Nessuno di loro immaginava che in quelle stesse ore, era il 7 novembre, i bolscevichi di Pietrogrado stessero penetrando nottetempo, attraverso un portone secondario, nel Palazzo d’Inverno.


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