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DON MILANI
tratto dal n. 06 - 2007

Il filo d’oro di Lorenzo


Storia di un curato di campagna che diceva di sé: «Delle mie idee non m’importa nulla. Perché io nella Chiesa ci sto per i sacramenti, non per le mie idee»


di Gianni Valente


Quando nella casa fiorentina di sua madre in via Masaccio don Lorenzo Milani chiuse gli occhi per l’ultima volta, il 26 giugno di quarant’anni fa, l’anziana perpetua Eda, compagna discreta di tutta la sua vita di sacerdote, aveva già avuto istruzioni precise su come vestirlo per il suo ultimo viaggio verso il piccolo cimitero di Barbiana: i paramenti sacri per le liturgie solenni, ma ai piedi gli scarponi di montagna, lustrati dal fango e dalla polvere del monte Giovi.
Da otto lustri, sull’icona diafana di don Lorenzo, ammiratori devoti e irriducibili detrattori continuano a ritagliare altre impolverate divise d’epoca: l’utopista pacifista, il tribuno dei poveri, il castigatore delle ipocrisie clericali. Oppure, sull’altro fronte, il plagiatore di giovani, il piccolo despota giacobino, guastatore della scuola italiana, ispiratore di un classismo forsennato e miope. In un caso o nell’altro, un prete anomalo come tanti nell’Italia del dopoguerra, la cui vicenda si archivia tutta nelle controversie ecclesiastiche e politiche del tempo. Roba da reduci, da amarcord.
Eppure, dietro i fumi delle polemiche, non era difficile scorgere già allora qual era l’unico vestito che gli si attagliava. Quello che ha sempre portato. «Don Lorenzo» ha detto uno dei suoi ragazzi «non è che si mettesse la tuta d’operaio per stare vicino al popolo. Non ha mai messo tute da operaio. Ha sempre fatto il prete, e basta».

Un ritratto di don Lorenzo Milani con alcuni ragazzi della scuola di Barbiana

Un ritratto di don Lorenzo Milani con alcuni ragazzi della scuola di Barbiana

Un ribelle obbedientissimo
Già la cronista Neera Fallaci, che fu la sua prima appassionata biografa, registrava con la più scontata naturalezza: «È assai probabile che la conversione [di Milani] si sia stabilita sui sacramenti della confessione e dell’eucaristia: punto focale dello stesso suo sacerdozio». Quando, a vent’anni, dopo il liceo Berchet a Milano e un periodo passato a studiare da pittore, Lorenzo si converte e chiede di farsi prete, tutto accade in modo travolgente e impetuoso. Come raccontava il suo padre spirituale don Raffaele Bensi, «per lui il cristianesimo era una cosa nuovissima. Perché incontrare Cristo, impadronirsene, derubarlo, mangiarlo, fu tutt’uno, ecco. Fino a pigliarsi un’indigestione di Gesù Cristo». Alla madre ebrea agnostica, che manifesta tutti i suoi dubbi amari per la strada imboccata dal figlio, Lorenzo cerca di spiegare che essa non poggia su una sicurezza empia e presuntuosa, ma sulla grazia donata dai sacramenti. Scrive: «Te vuoi dire che è troppo presto per me per sapere se seguiterò tutta la vita a volere così. Io ti rispondo che è di fede (Concilio Tridentino) che nessuno può essere sicuro della propria perseveranza (eccetto naturalmente la signora Cesarina e tutte coloro che fanno la comunione per nove primi venerdì del mese). Ma ciò che non possiamo sperare dalle nostre forze lo possiamo sperare dal Signore che in fondo vuole così […]. Qui si vive di messa dal vestito che portiamo a tutti gli studi che facciamo, dal lavoro in sacrestia alle canzoni che cantiamo. […] E quando si è vissuto così non mi pare possibile che si possa rinunciare a celebrarla noi. Sarebbe come uno che ha visto il cielo e gli tocca stare in terra». Più tardi il suo sarcasmo corrosivo fulminerà anche «l’odor di moccolaia» del seminario, manifestando tutta la sua repulsione «per ogni discorsino ben fatto, per gli argomenti spirituali e “formativi”», per quel mondo «in cui le porcherie si chiamano finemente: mancanza contro la santissima purità, la vigliaccheria tiepidezza, l’odio poca carità, la bestemmia pratica un attimo di aridità spirituale». Ma la percezione di non poter vivere senza i sacramenti diventerà in lui sempre più acuta. In una sua celebre invettiva contro gli intellettuali laici borghesi, rimasta registrata su un nastro ai tempi di Barbiana, dice davanti ai suoi ragazzi: «Per me che l’ho accettata, questa Chiesa è quella che possiede i sacramenti. L’assoluzione dei peccati non me la dà mica l’Espresso. L’assoluzione dei peccati me la dà un prete. Se uno vuole il perdono dai peccati si rivolge al più stupido, arretrato dei preti pur di averla. […] In questa religione c’è fra le tante cose, importantissimo, fondamentale, il sacramento della confessione dei peccati. Per il quale, quasi per quello solo, sono cattolico. Per avere continuamente il perdono dei miei peccati. Averlo e darlo. Il più piccolo litigio che io avessi con la Chiesa, io perdo questo potere: di togliere i peccati agli altri e di farli togliere a me. E chi me lo rende questo potere? Arrigo Benedetti, oppure… Come si chiama quello là dell’Espresso… Falconi?».
Nei mille particolari raccontati dai testimoni a Neera Fallaci affiora il filo d’oro che attraversa la vita di Lorenzo, che già negli anni passati da giovane cappellano a San Donato di Calenzano non esitava a buttare fuori dalla pieve le signore abituate al chiacchiericcio dopo la messa, perché «in chiesa si andava a pregare, e basta». Quando la sua fama di piantagrane gli fa guadagnare il “trasferimento” a Barbiana, un grumo sperduto di case contadine sul monte Giovi, gli ex amici che salgono lassù a trovarlo non sono molti. Lorenzo dorme su un sacco di foglie di frumentone, ma, come nota il suo ex rettore al seminario don Giulio Lorini, «la chiesa era sempre così linda». «Un prete» raccontava l’altro suo amico don Brandani «non finiva di arrivare a Barbiana, che subito Milani gli diceva: “Vieni, vieni, adesso tu mi confessi!”». Mentre don Ermidio Corsinovi, che era il parroco di Vicchio, aggiunge di Milani che «se in una settimana scendeva in paese due volte, veniva a confessarsi due volte. Arrivava giù in archivio, e si buttava in ginocchio». E ai preti che attaccano don Lorenzo non trova di meglio da rispondere che «i ragazzi di don Milani son quelli che si confessano e si comunicano più di tutti». Alla stessa madre ebrea agnostica Lorenzo cercherà di far balenare il miracolo della confessione cristiana, «meravigliosa istituzione per cui il cristiano può vivere più sereno e ottimista degli altri: il male lo cancella con un colpo di spugna, il bene non lo cancella, anzi lo accumula». La stessa esperienza della necessità dei sacramenti ispirerà il suo atteggiamento ultimo davanti alle incomprensioni e ai provvedimenti subiti dall’autorità ecclesiastica: «Non si riuscirà a trovare in me la più piccola disubbidienza proprio perché, prima di ogni altra cosa, mi premono i sacramenti. E nessuno riuscirà a farmi disubbidire. Il primo ordine che il vescovo mi dà, se lui mi sospendesse eccetera, io mi arrendo immediatamente. Rinuncio alle mie idee. Delle mie idee non m’importa nulla. Perché io nella Chiesa ci sto per i sacramenti, non per le mie idee».

Don Milani (seduto al centro) con  don Giulio Facibeni (il sacerdote più anziano), alcuni giorni prima della sua ordinazione sacerdotale

Don Milani (seduto al centro) con don Giulio Facibeni (il sacerdote più anziano), alcuni giorni prima della sua ordinazione sacerdotale

Un mondo che finisce
Negli anni del dopoguerra italiano, mentre l’altro grande “irregolare” Pier Paolo Pasolini coltiva il mito della vita contadina, sbirciato durante l’infanzia e l’adolescenza, Milani negli ambienti proletari e rurali in cui gli capita di vivere il suo sacerdozio registra invece, con lo sgomento del neofita, l’avvizzire della memoria cristiana e il dissiparsi del cristianesimo in abitudine borghese anche nei cuori degli operai e dei contadini. Le messe e le processioni sono ancora piene di gente, ma secondo lui anche per quelli che distrattamente affollano le chiese per le feste patronali «la religione è roba da ragazzi», «il peccato originale sull’anima fa meno male di un’infreddatura», e «lo stare in grazia di Dio non è un problema quotidiano. O meglio, non è il problema quotidiano fondamentale del cristiano». Nelle circostanze che si trova a vivere, prima a Calenzano («fame sicura, popolo comunista, industrie», come scrive in una lettera alla madre Alice) e poi tra i montanari di Barbiana, anche le sue scelte che oggi appaiono più discutibili e sguaiate nascevano come tentativi di rispondere al suo unico cruccio: «Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Essere liberi, avere in mano Sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti». Per don Lorenzo la dottrina comunista non val nulla. È brutta. Imparagonabile con quella cristiana, che «ha portato per secoli migliaia di giovani al martirio e al chiostro, sorridenti». Ma dal suo punto d’osservazione, la peggiore sciagura è aver confermato gli operai socialisti e comunisti nel preconcetto che la Chiesa abbia fatto blocco comune coi ricchi e gli industriali.
Anche le sue talora sgangherate polemiche contro i preti della “ricreazione”, che in angosciata gara coi circoli comunisti passano il tempo a organizzare attività ludiche per attrarre i giovani, nascono dall’esperienza dei primi anni di San Donato: «Ogni poco compariva in paese qualche attrazione più grande, e allora bisognava buttarsi alla concorrenza: magline loro? Magline e scarpe noi. Tesserino in tasca loro? Tesserino e distintivo noi. Cinema, televisione, biliardo loro?…». Uno di questi preti arriverà a lamentarsi col vescovo che la battaglia è persa finché «i comunisti disporranno di campi regolamentari e noi di campi che al massimo arrivano a 70 metri di lunghezza». Sono gli anni in cui cominciano le «prove esibizionistiche dell’attivismo ecclesiastico» che solo nell’ultimo quarto di secolo hanno raggiunto il grado sommo. Ma è allora che cominciano a spuntare i preti chitarristi, cantanti, tuffatori. O quel parroco torinese che gira l’Italia organizzando sfilate di indossatrici per “cristianizzare” l’ambiente della moda. A Milani appaiono battaglie perse: «È scontato che lo svago del prete, per quanto sbrigliato, sia sempre meno divertente di quello sbrigliatissimo del mondo. O per essere più precisi, diciamo che lo svago del prete arriva a sbrigliatezze molto simili a quelle del mondo, ma con cinque anni di ritardo. […] E io dunque m’ero fatto prete per correre verso il male sulla stessa strada e un passo indietro a quel poverino di Giovanni, capo comunista del paese?». Ma in tutto questo Milani vede soprattutto il rischio di snaturare e dissipare l’unica missione che compete al prete: la cura d’anime attraverso i sacramenti. «Non si può esigere la supervisione su tutti gli aspetti della vita del nostro popolo […]. Che il prete sia l’uomo che ha avuto la missione più alta non significa che essa riassuma tutte le altre fino a potersi a tutte sostituire. Dire così non è fede nel sacerdozio, ma superbia volgare. Del sacerdote la fede ci dice solo che è latore dei sacramenti; solo per quelli è insostituibile». Il suo zelo fustigatore deraglierà nell’attaccare il conformismo meccanicistico di quelli che sgomitano per partecipare a feste tradizionali e pratiche devozionali per puro obbligo sociale. A San Donato se la prende impietosamente col suo parroco e con tutti i bravi prevosti che a ragione si guardano bene dallo spegnere i «lucignoli fumiganti», mostrando indulgenza davanti alle incoerenze dei miscredenti, pur di non spazzar via quello che resta («“un’Ave Maria la sera o sotto i bombardamenti la dicono ancora tutti”, dice lui»). Può non avere torto l’arcivescovo Ermenegildo Florit quando nel ’66 scrive al prete di Barbiana su cui imperversano veleni e polemiche: «Tu potrai magari scuotere le coscienze, ma resta vero che l’aceto converte pochi e una goccia di miele ogni tanto attirerebbe forse più anime a Dio. Papa Giovanni insegna […]. Tu, don Milani, sei per natura un assolutista, e rischi di produrre soprattutto tra i più sprovveduti di cultura e di fede dei veri classisti…». Eppure, anche le invettive più stonate sgorgano dallo spettacolo che vede, e che lo fa gridare: i preti non se ne sono ancora accorti, ma sta venendo meno la fede nel conforto ordinario della vita sacramentale, anche in tanti di quelli che pure prendono ancora parte a messe e processioni.

Don Milani mentre parla con alcuni ragazzi sotto il pergolato

Don Milani mentre parla con alcuni ragazzi sotto il pergolato

Insegnare agli ignoranti
La vicenda tumultuosa di don Lorenzo si fonde con quella dell’opera in cui egli rovescia tutta la sua arroventata sensibilità: la scuola popolare, tirata su prima per i figli degli operai e dei disoccupati analfabeti di Calenzano, e poi per quelli dei rozzi montanari e dei contadini di Barbiana. È facile oggi rintracciare e mettere alla gogna nella creatura tutti i difetti a essa trasmessi dalla personalità del suo fondatore: il classismo esasperato («si accettano forse i ricchi alle nostre distribuzioni gratuite di minestra? Il classismo in questo senso non è dunque una novità per la Chiesa»), l’autoritarismo («la scuola deve essere monarchica assolutista, ed è democratica solo nel fine, cioè solo in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia»), l’accigliato rigorismo invasivo («noi si fa scuola dieci ore al giorno, sette giorni su sette»). Nelle aule in cui si fa scuola don Milani toglie il crocifisso, perché sia chiaro a tutti – genitori socialisti e comunisti in primis – che la “scuola del prete” non è una scuola confessionale. Ha una fiducia quasi fanatica nell’opera di emancipazione civile dell’istruzione. La sua denigrazione delle scuole di Stato è senza appello. Ma per Lorenzo non si tratta di trasformare tutti i ragazzi in soggetti antropologicamente cattolici attraverso l’educazione. Tutto si può dire di don Milani, ma gli è estraneo ogni tentativo di appiccicare la fede alla vita attraverso la cultura. Quella che lui chiama «educazione civile» si muove a livello della natura, non della grazia. Serve a far uscire i poveri e gli sfruttati dalla condizione subumana di sfruttamento in cui è relegato chi è stato espropriato anche degli strumenti minimi del linguaggio. Condizione in cui va evaporando ogni traccia della vecchia cultura contadina, irrorata di cristianesimo. Eppure, anche la foga unilaterale con cui si immerge nella sua opera ha come orizzonte ultimo la salvezza eterna delle anime dei ragazzi. «Da bestie si può diventar uomini e da uomini si può diventar santi. Ma da bestie santi d’un passo solo non si può diventare». Il suo libro Esperienze pastorali, su cui si abbatteranno le stroncature di Civiltà Cattolica e la disposizione di ritiro dal commercio comminata dal Sant’Uffizio, non è altro che un’apologia – a tratti segnata da un dogmatismo indigesto – della scuola popolare come strumento per ridestare nei «paria italiani» quel minimum di sensibilità umana senza cui ogni istruzione religiosa rischia di passare come acqua sui sassi. «Lasciatemi dunque il tempo di far le cose per benino, rifacendomi cioè dalla grammatica italiana e su su nel giro di vent’anni vi riempirò di nuovo la chiesa. Ma questa volta di uomini ardenti, preparati e coerenti. Capaci di risuscitare anche la festa del Titolare se occorrerà, ma incapaci di sdondellar campane e di ornar di lumiere un altare senza aver prima approfittato tutto l’anno del sacerdote per sgravarsi volta a volta dei loro peccati».
Al di là delle intenzioni e degli opinabili programmi, l’esaltazione della scuola popolare avviene perché è solo lì che il cuore inquieto di don Lorenzo trova indizi di conforto e di letizia. È lì che ogni giorno raccoglie tra i sui ragazzi «meteore di grazia a vagoni». Le statistiche ingenue di Esperienze pastorali sono in fondo un escamotage sociologico per mettere in rilievo che i ragazzi che frequentano la scuola sono gli unici che si comunicano e si confessano abitualmente. La scuola è «segreta fucina» di confessioni e comunioni. «Don Milani confessava tutti i giorni» racconterà Franco Gesualdi, uno dei ragazzi di Barbiana. L’educatore rigido e pieno di pretese si trasforma in un pastore discreto, che attende con pazienza le occasioni propizie quando vuole suggerire ai suoi studenti sui generis di approfittare delle pratiche della vita di grazia. Ai detrattori che lo criticano perché non costringe i suoi ragazzi ad ascoltare i predicatori forestieri che vengono in parrocchia nei tempi forti dell’anno liturgico, risponde che «non si accorgono che quei medesimi giovani vivono in Grazia di Dio sotto il loro stesso tetto e senza far pesare agli altri la loro giovane fede». A chi stigmatizza che nei suoi programmi fuori registro l’insegnamento religioso è poca cosa, risponde che non si diventa più cristiani moltiplicando chiacchiere sulla religione: «Dopotutto, l’istruzione religiosa che serve per vivere da buon cristiano è poca cosa».

Don Milani e i ragazzi di fronte alla canonica di Barbiana

Don Milani e i ragazzi di fronte alla canonica di Barbiana

La fredda cronaca dei Vangeli
Nelle lezioni di Milani i racconti del Vangelo entrano come un particolare della stessa realtà concreta di cui fanno parte i contratti di lavoro degli operai tessili di Calenzano o le lezioni di botanica. Concentra il suo insegnamento catechistico sul racconto storico della vita di Gesù, utilizzando la sinossi dei Vangeli del Lagrange e le carte storiche della Palestina. Anche le sue omelie a messa sono tutte costruite sugli episodi della vita di Gesù.
Una delle sue famose lettere esprime in maniera singolare questa sua attitudine verso Gesù. Il prete ventinovenne aveva scritto al regista francese Maurice Cloche, già autore del film Monsieur Vincent dedicato alla vita di san Vincenzo de’ Paoli, per suggerirgli di cimentarsi in una nuova pellicola incentrata sui racconti evangelici. Il regista aveva rilanciato, chiedendo a Milani di aiutarlo a stendere la sceneggiatura. Nella replica datata 15 febbraio 1952, don Lorenzo lo invita ad attenersi alla natura storica del fatto cristiano: «Per commentare il Vangelo non c’è poesia più alta che la scrupolosa ricerca scientifica del vero significato di ogni parola e atto del Signore… Faccia dunque un film che abbia l’austerità di un documentario scientifico […]. Guardi la crocifissione! I quattro evangelisti ci dedicano un mezzo versetto appena. Non una parola d’indignazione, d’amore, di pietà, di fede. E ciò nonostante, è la loro fredda cronaca che da duemila anni incendia il mondo». Poi, Milani introduce quasi en passant una considerazione lucida e penetrante sul cristianesimo moderno: «È strano, ma oggi è più facile che si creda Gesù Dio che Gesù uomo. Il film dovrà far capire a fondo che cosa significa in concreto “la Parola si è fatta carne”». Per sottrarre l’opera alla deriva spiritualista dominante, Milani suggerisce anche di girare il film nella terra stessa di Gesù: «Andare a fotografare dal vero la fame che tormenta oggi la Palestina ci darà il più giusto sfondo della vita del Signore. Un popolo di schiavi, folle senza pace, bambini rachitici… Il disoccupato e l’operaio d’oggi dovranno uscire dal cinema con la certezza che Gesù è vissuto in un mondo triste come il loro, che ha come loro sentito che l’ingiustizia sociale è una bestemmia». Poi, per far capire come il film dovrà far emergere l’umanità ordinaria di Gesù, il prete improvvisato cineasta si azzarda a tratteggiare alcuni bozzetti di sceneggiatura: «Suggerisco le scene seguenti: Gesù ragazzo a scuola. Dieci o venti ragazzi seduti per terra. Lo spettatore sa che uno di loro è Lui, ma non sa quale. La stessa scena sul Giordano. Il Battista punta il dito sulla folla: “Ecce Agnus Dei”… Anche l’obiettivo inquadra quel punto: nove o dieci visi di giovani pellegrini sorpresi. Quale sarà Lui? Non si sa, uno qualunque di loro, non ha importanza, ciò che ci interessa è che nel gruppo indicato dal Battista non si vede nulla di speciale. Gesù è là, ma è talmente uomo che non si può riconoscerlo fra gli altri».
Questo, secondo Milani, sarebbe stato il risultato più prezioso a cui puntare: «Impedire che il film dia l’impressione che questo invisibile Gesù abbia una carne diversa da quella degli altri personaggi».


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