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BENEDETTO GIUSEPPE LABRE A...
tratto dal n. 01 - 2000

Il santo pellegrino


“Il pellegrino della Madonna”, “Il povero delle Quarantore”, “Il penitente del Colosseo”, “Il nuovo sant’Alessio”. Così il popolo romano chiamava Benedetto Giuseppe Labre, che morì a Roma a 35 anni. Un francese che trascorse parte della sua breve vita come pellegrino, sostando in preghiera davanti alle immagini più care della Madonna e davanti all’Eucarestia


di Giovanni Ricciardi


Un ritratto di Benedetto Giuseppe Labre conservato nella Chiesa di Erin, in Francia

Un ritratto di Benedetto Giuseppe Labre conservato nella Chiesa di Erin, in Francia

Roma, 30 aprile 1783. Nel silenzio del suo studio privato, il cardinale De Bernis, ambasciatore di sua maestà il re di Francia presso lo Stato Pontificio, è intento a redigere una nota informativa da inviare a Versailles al conte di Vergennes, ministro degli Esteri: «Noi abbiamo qui, dal 16 di questo mese, in una chiesa di questa città, uno spettacolo che edifica gli uni, e scandalizza gli altri…». Negli stessi giorni, il Diario Romano, il famoso periodico dell’epoca fondato da Giovanni Chracas, a questo proposito, annota: «Muore il 16 aprile 1783 Benedetto Giuseppe Labre, nato ad Amettes, parrocchia di San Sulpizio, diocesi di Boulogne. Si è sentito male mentre pregava nella chiesa della Madonna dei Monti e poco dopo, benché soccorso da alcuni fedeli, è morto. Esposto nella detta chiesa, viene sepolto il 20 in un cavo appositamente fatto a cornu epistolae dell’altar maggiore, fra la venerazione di tutto il popolo romano». Si trattava di un pellegrino, un francese di 35 anni. Viveva della carità di un pio sacerdote, l’abate Mancini, che lo aveva raccolto una sera tra gli archi del Colosseo e lo aveva convinto a prendere alloggio in uno di quegli ospizi che offrivano asilo ai molti vagabondi che affollavano le strade di Roma, accanto alla chiesa di San Martino ai Monti. Perché dunque tanto clamore per questo «Labre o Labré nativo di un villaggio della diocesi di Boulogne», antico novizio della abbazia di Sept-Fonts? Una manovra dei Gesuiti, annota il De Bernis. Essi avevano tolto quello sconosciuto dall’oscurità. «Al momento del suo decesso» scrive il cardinale «la voce della sua santità si diffuse in un istante e universalmente in questa capitale, ciò che sembrerebbe provare che il partito qui dominante – che è quello dei Gesuiti – avrebbe gettato gli occhi su questo pio mendicante per trarne vantaggio secondo le sue mire. Si può presumere che questa pia commedia non finirà così presto…».
Davvero i Gesuiti, soppressi pochi anni prima, nel 1774, da Clemente XIV su pressione delle corti di mezza Europa, potevano aver inscenato quella «pia commedia»? Il fine diplomatico non riusciva a spiegarsi quel concorso di folla venuta a onorare uno “straccione”, un suo ignoto connazionale che aveva trascorso la vita sulle strade, visitando continuamente chiese e santuari, sempre in viaggio tra Roma e Loreto, così scrupoloso nell’osservanza dei doveri religiosi da cadere in sospetto di giansenismo. Eppure, in quegli stessi giorni, il 3 maggio, un medico di Roma riportava anch’egli in una lettera alla sorella, religiosa al Carmelo di Cavaillon in Francia, una versione ben diversa dei fatti: «I muti parlano, i ciechi vedono, i paralitici e gli idropici sono immediatamente guariti. Domenica scorsa una povera donna idropica fu guarita sulla stessa pietra che copre la tomba. Gli increduli, come gli altri, si commuovono fino alle lacrime. Nessuno qui ha mai visto nulla di simile. Ma ci vuole una fortissima sorveglianza per fermare il popolo».
Alla sua morte era accaduto, in effetti, qualcosa di inaudito. Neppure ai funerali di Filippo Neri si ricordava una simile partecipazione di popolo. Erano così abituati a vederlo nelle chiese più disparate, in ginocchio per ore davanti al Santissimo Sacramento, dovunque si celebrassero le Quarantore, ma Benoît-Joseph, questo il suo nome di battesimo, conduceva in fondo una vita sconosciuta ai più, e il suo carattere schivo accentuava questo isolamento. Tutto ciò non spiegava il travolgente concorso di folla di quei giorni.
Il mattino del mercoledì santo, 16 aprile 1783, giorno della sua morte, Benedetto era riuscito a stento, fiaccato nel corpo, a trascinarsi dall’ospizio Mancini alla chiesa di Santa Maria ai Monti per ascoltare il racconto della Passione. I monticiani che lo videro così pallido credettero che sarebbe spirato durante la lettura. Benedetto si accasciò invece sulle scale della chiesa, e fu portato in casa del macellaio Zaccarelli, che abitava in via dei Serpenti e conosceva bene il pellegrino. Lì, nell’ora del Vespro, dopo aver ricevuto l’estrema unzione, Benedetto spirò.
Benedetto Giuseppe Labre tra i poveri del Colosseo, tela di anonimo del XIX secolo

Benedetto Giuseppe Labre tra i poveri del Colosseo, tela di anonimo del XIX secolo

«Avvenne morte sì preziosa» scrive il Coltraro, autore di una biografia del santo, «alli 16 aprile giorno del mercoledì santo dell’anno 1783, nella età di anni 35, giorni 21 ed in quel punto stesso in cui cominciarono tutte le campane di Roma a dare il segno di recitarsi la Salve Regina, ed altre brevi preci, ordinate dal sommo pontefice Pio VI di santa memoria per muovere la Santissima Vergine ad interporsi presso Dio, perché si degnasse mettere in calma la nave di san Pietro ondeggiante nelle presenti tempeste» (Vita di san Benedetto Giuseppe Labre scritta dal padre Anton Maria Coltraro, riprodotta con note ed aggiunte per cura della postulazione della causa, Roma 1881, p. 302).

«Il povero delle Quarantore»
Di quel che seguì vale la pena ascoltare il racconto che ha steso Agnes De La Gorce, in una delle più famose biografie di Labre: «L’alba del giovedì santo si levò su Roma. Nelle strade affluivano i bambini. Uscivano da tutte le bicocche, da ogni abituro e pullulavano come i gatti, gridando: “Il santo è morto”. Erano quei bambini forse che alla vigilia sulla piazza Traiana avevano insultato il mendicante, loro zimbello e vittima. I pesciaioli annunciavano ai passanti la morte del santo. Quale santo? Ma “il pellegrino della Madonna”, “il povero delle Quarantore”, “il penitente del Colosseo”, “il nuovo sant’Alessio”, “Benedetto, il santo francese!”. In via dei Serpenti un’ovazione saliva sempre più forte: beato lui! Beato. Zaccarelli vuotò la bisaccia del povero e inventariava il suo contenuto. Beato lui! Il clamore diventava minaccioso. I devoti invadevano la camera mortuaria. Egli metteva prudentemente in fila la biblioteca del pellegrino: un breviario molto rovinato, l’Imitazione di Cristo in latino, il Memoriale della vita cristiana del domenicano Louis de Grenade, il trattato spirituale del certosino Jean Juste Lanspergio intitolato Epistola di Gesù Cristo alle anime fedeli, un Esercizio della Via Crucis, l’Ufficio dei sette dolori della Vergine. Poi delle immagini: il Bambino dell’Ara Coeli, la Vergine di Loreto, il Salvatore che porta la croce, delle preghiere manoscritte significative: un’orazione in cui il cristiano offre all’Eterno Padre il sangue di Cristo, gli atti di fede, di speranza e di carità copiati quattro volte dal penitente in un giorno di desolazione spirituale. C’erano anche delle monete d’argento e di rame, un almanacco strappato, delle bucce d’arancio e di limone, delle croste di pane indurite. […] La folla non acclamava soltanto Benedetto ma la famiglia Zaccarelli: “Beati voi che avete un santo! Beati voi che possedete un tesoro!”. Questi privilegiati si occupavano di ripulire le reliquie di Benedetto. I confratelli di Nostra Signora della Neve abbigliarono il morto con il loro abito bianco. Il suo volto, finalmente lavato, riposava in pace. Si racconta che le religiose Maestre Pie venute da Sant’Agata dei Goti, inginocchiate davanti al giaciglio, non ebbero la forza di recitare il De Profundis, ma intonarono il Gloria Patri. Verso sera i confratelli di Nostra Signora della Neve trasportarono alla Madonna dei Monti la gracile spoglia. Il quartiere si eccitava del suo proprio entusiasmo. Il santo, ecco il santo! Gli applausi crepitavano come al teatro. […] Zaccarelli ottenne, non senza pena, che si interrasse il povero alla Madonna dei Monti, suo santuario preferito, mentre due parrocchie, San Salvatore ai Monti e San Martino ai Monti rivendicavano i loro diritti su quel cadavere. La casa dove era morto dipendeva dall’una, l’ospizio Mancini dall’altra. Ma i devoti della Madonna dei Monti e di Benedetto, il santo francese, seppero imporre la loro volontà. […] In questo giovedì santo 1783 davanti alla Madonna dei Monti dei bottegai, somiglianti a banditi di commedia, facevano la guardia al loro patrono, il mendicante Benedetto, contro un possibile rapimento. Essi nascondevano un’arma nelle pieghe della cintura e se ci fosse stato bisogno avrebbero versato il sangue. Ma il corteo funebre entrò pacificamente in chiesa. Il santo, ecco il santo… Dalla sera del giovedì santo fino alla domenica di Pasqua la salma del mendicante fu esposta alla Madonna dei Monti […]. I soldati corsi che montavano la guardia alle porte di Roma furono chiamati dalla loro vicina caserma per assicurare il difficile servizio d’ordine e ricorsero alle bastonate. Beato lui! Beato lui! Altre grida presto si levarono: grazia, grazia! Delle creature scapigliate aiutate da uomini dall’aspetto patibolare, spingevano la barella di un malato» (Agnes De La Gorce, Un povero che trovò la gioia, Parigi 1936, tr. it. Ed. Pro Sanctitate, 1992, pp. 208-211, passim).
Benedetto Giuseppe Labre partecipa alla pratica delle Quarantore, stampa di Francesco Rovira Bonet tratta da Il vero penitente dei giorni nostri, Napoli 1789

Benedetto Giuseppe Labre partecipa alla pratica delle Quarantore, stampa di Francesco Rovira Bonet tratta da Il vero penitente dei giorni nostri, Napoli 1789

Quell’anno alla Madonna dei Monti non fu possibile celebrare i riti della settimana santa. I pellegrinaggi si susseguivano e cresceva il numero dei miracoli. Al 30 luglio ne erano stati accertati 136. Il cardinale De Bernis, chiuso nel suo studio, continuava a dettare le sue note per il conte di Vergennes: «Non c’è più dubbio» scriveva il 4 giugno «che il partito dei Gesuiti a Roma sia il motivo dello scalpore che qui continuano a fare gli innumerevoli miracoli che vengono attribuiti al mendicante Benoît-Joseph Labre della diocesi di Boulogne-sur-Mer». Quando l’entusiasmo, dopo tre mesi, inizia a scemare, il De Bernis ha pronta una nuova interpretazione: «Questo sospetto di giansenismo» scriveva il 29 luglio «comincia a raffreddare molto l’entusiasmo del partito gesuitico fautore ed ammiratore della santità e dei pretesi miracoli di questo mendicante francese, la folla alla sua tomba diminuisce ogni giorno. Senza dubbio si lascerà che questo resto di fanatismo si spenga da sé per non essere obbligati a confessare di essersi grossolanamente ingannati. […] Questa storia finirà, verosimilmente, come avevo previsto, e cioè con un gran ridicolo, aumentato forse poi dal fatto che il partito giansenista potrebbe rivendicare i miracoli di uno dei suoi proseliti subito dopo che il partito gesuitico lo avrà totalmente abbandonato. Niente è impossibile in materia di fanatismo, ma la religione soffre e diventa spregevole agli occhi degli eretici e degli increduli». Ma intanto, la fama di Benedetto superava le Alpi per giungere fin nel villaggio di Amettes, nell’Artois, da cui era partito quattordici anni prima per non tornarvi più.

«Seguite le ispirazioni della grazia»
Benoît-Joseph Labre era nato laggiù, nella Francia degli anni precedenti la Rivoluzione, il 26 marzo 1748. Dopo i primi anni trascorsi in famiglia, si era trasferito presso uno zio sacerdote, parroco del piccolo borgo di Erin, vicino al paese natale. Presso di lui iniziò una formazione che, nelle intenzioni della famiglia, lo avrebbe dovuto condurre tra le file del clero secolare. A quegli anni risalgono lo studio del latino e delle Scritture, le letture nella biblioteca dello zio che lo porteranno a maturare una vocazione monastica mai realizzata. Tra di esse i sermoni del padre Le Jeune detto il Cieco, un oratoriano del secolo precedente, austero fino ai limiti della durezza. Benedetto ne aveva ricavato un’impressione fortissima, che lo spinse a cercare una forma di vita religiosa il più possibile lontana dal mondo. E aveva sognato di entrare nella Trappa, nonostante le perplessità dello zio e lo sconcerto della famiglia, che cercavano di dissuaderlo. Ma il vecchio parroco di Erin era venuto a mancare nell’agosto del 1766, vittima della carità che lo portò a prodigarsi per alleviare le pene dei parrocchiani, investiti da un’epidemia di tifo. Benedetto si sentì allora libero di tentare la via di quella che credeva essere la sua vocazione. Ma da quel momento una serie di insuccessi frustreranno le speranze dell’aspirante monaco. I suoi tentativi di essere accettato nei monasteri della regione vanno a vuoto. Troppo giovane, troppo scrupoloso, ripetono gli abati. Finché, il 12 agosto 1769 parte per la Certosa di Montreuil-sur-Mer dove questa volta è ammesso senza difficoltà. Ma in capo a un mese questo nuovo assaggio di vita monastica è ancora uno scacco. Il priore sentenzia senza mezzi termini: «Via, la Provvidenza non vi chiama nel nostro istituto, seguite le ispirazioni della grazia».
Scrisse ai suoi parenti il giorno stesso della partenza dal monastero, 2 ottobre 1769: «Mio carissimo padre e mia carissima madre. Vi informo che non avendomi i Certosini giudicato adatto alla loro condizione, io ne sono uscito il due di ottobre; io considero la cosa come un ordine della Divina Provvidenza che mi chiama ad uno stato più perfetto, essi stessi hanno detto che era la mano di Dio che mi ritirava da loro. Dunque, mi incammino verso la Trappa, questo luogo che desidero tanto, e da tanto tempo. Vi domando perdono di tutte le disobbedienze e di tutte le pene che vi ho causato. Vi prego caldamente l’uno e l’altra di darmi la vostra benedizione affinché il Signore mi accompagni. Io pregherò il buon Dio per voi, tutti i giorni della mia vita, soprattutto non vi preoccupate per me. Anche se avessi voluto restarvi, non mi avrebbero ricevuto, per questo mi rallegro molto, perché vedo che l’Onnipotente mi guida. Non affliggetevi perché sono uscito dai Certosini, non vi è permesso di resistere alla volontà di Dio che così ha disposto per il mio più gran bene e per la mia salvezza. Vi prego di fare i miei auguri ai miei fratelli e sorelle. Accordatemi la vostra benedizione, non vi darò più alcuna pena, il buon Dio che ho ricevuto prima di uscire mi assisterà e mi condurrà nell’impresa che Lui stesso mi ha ispirata. Io avrò sempre il suo timore davanti agli occhi e il suo amore nel cuore. Spero molto di esser ricevuto alla Trappa; in ogni caso mi assicurano che l’ordine di Sept-Fonts non è tanto duro e si è ricevuti anche se molto giovani. Ho l’onore di essere, con profondo rispetto, vostro umilissimo servitore. Montreuil, 2 ottobre 1769. Benoît-Joseph Labre».
Qui sopra la Basilica di San Giovanni in Laterano e sotto la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme: stampe del Piranesi

Qui sopra la Basilica di San Giovanni in Laterano e sotto la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme: stampe del Piranesi

Benedetto parte dunque alla volta della Trappa di Sept-Fonts. Vi giunge dopo 800 chilometri di cammino il 30 ottobre 1769. L’11 novembre prende l’abito di novizio con il nome di frate Urbano.
Otto mesi più tardi è obbligato a uscirne. Un soggiorno in infermeria, poi all’ospedale esterno, dopo di che il padre abate gli comunica: «Voi non siete fatto per noi, Dio vi attende altrove».

«Bisogna andare a servire»
Benedetto uscirà così per sempre dal monastero, incerto e confuso. Si ricordò allora di un’espressione ricorrente nel linguaggio del popolo dell’Artois, la sua terra natale: «Bisogna andare a servire», cioè bisogna intraprendere un pellegrinaggio. Se la terra non produceva frutti, i contadini del suo paese “andavano a servire” Nostra Signora Dispensiera di pane, nel santuario del borgo di Aire, dove un tempo la Vergine aveva miracolosamente nutrito il popolo in tempo di fame. E se qualcuno soffriva di febbre si “andava a servire” santa Isberga, sorella di Carlo Magno, nel santuario eretto in suo onore. Così Benedetto, per fare luce sulla strada che Dio aveva in serbo per lui, prese una risoluzione: «Bisogna andare a servire a Roma, alla tomba degli apostoli». E prese la via dell’Italia. In capo a tre giorni la febbre scomparve. Ancora non sapeva che Dio aveva in serbo per lui proprio la strada, per fare di lui il pellegrino, l’homo viator per eccellenza. Dal Piemonte scrisse la sua ultima lettera ai genitori, datata 31 agosto 1770: «Mio carissimo padre, mia carissima madre. Voi avete saputo che sono uscito dall’abbazia di Sept-Fonts e senza dubbio siete in pena di sapere quale strada io ho preso da allora, e quale stato di vita io desidero abbracciare. È per fare il mio dovere e togliervi dall’inquietudine che vi scrivo la presente, dunque vi dirò che sono uscito da Sept-Fonts il 2 di luglio; avevo ancora la febbre quando sono partito, e la febbre mi ha lasciato al quarto giorno di cammino, e ho preso la via di Roma. Adesso sono quasi a mezza strada. […] Non vi preoccupate per me, io non mancherò di mandarvi mie notizie, vorrei molto averne di vostre e dei miei fratelli e sorelle, ma questo non è possibile adesso perché non sto fisso in un luogo. Non mancherò di pregare Dio per voi ogni giorno, vi chiedo perdono di tutte le pene che posso avervi procurato e vi prego di accordarmi le vostre benedizioni affinché Dio benedica i miei progetti. È per ordine della Provvidenza che ho intrapreso questo viaggio…».
Benoît-Joseph Labre si trovò da allora a viaggiare continuamente, per fermarsi, negli ultimi anni, a Roma. Timido, senza possedere nulla, immerso nella preghiera, nella assoluta solitudine, tranne che per la compagnia dei santi che visitava nei santuari, e per l’adorazione dell’Eucaristia presente nelle chiese, iniziò una vita di pellegrino che lo porterà in giro per l’Europa, facendogli percorrere in 14 anni più di 30mila chilometri. Giunse a Roma il 3 dicembre del 1770, passando per Loreto e Assisi. Saranno i santuari che visiterà più di frequente. Da allora li raggiungerà almeno una volta all’anno, fino al 1777, quando si stabilì definitivamente a Roma. Nel 1771 Benedetto partì da Loreto e lungo la costa adriatica giunse fino al monte Gargano per visitare il santuario di San Michele, così caro alla memoria di san Francesco; di lì scese a Bari per venerare la spoglie di san Nicola. Quando aveva pregato davanti al sepolcro di un santo, raccoglieva un po’ di polvere e la poneva in un sacchetto. Non si può dire che fosse un barbone o un vagabondo, né che fosse un mendicante, benché ne avesse tutto l’aspetto; non chiedeva mai l’elemosina tranne una volta, a Bari, per soccorrere dei detenuti che morivano di fame dietro le sbarre. «Allora, per amor loro, lui che fuggiva la folla, lasciò che un circolo di curiosi si formasse intorno a lui come un saltimbanco; erano paesani carichi di olive appena raccolte, donne che tenevano in equilibrio sulla testa un cesto di biancheria, marinai pesciaioli, venditori ambulanti di tipo orientale» (De La Gorce, op. cit., p. 114). Benedetto posò a terra il cappello, mise sul bordo il crocifisso, si inginocchiò e si mise a cantare con la sua bella voce le litanie della Santa Vergine che sapeva a memoria. Passò poi tra le file dei curiosi con il cappello in mano e andò a consegnare il ricavato della questua ai carcerati.

Benedetto Giuseppe Labre in preghiera nel Colosseo, dipinto di autore anonimo del XIX secolo conservato nella cappella di via dei Serpenti

Benedetto Giuseppe Labre in preghiera nel Colosseo, dipinto di autore anonimo del XIX secolo conservato nella cappella di via dei Serpenti

«Questi possedeva un’altra bellezza»
Benedetto portava qualcosa che andava al di là del suo misero aspetto e della durezza con cui trattava il suo corpo. Così che i sacerdoti che lo vedevano inginocchiato in fondo alla chiesa sentivano un inspiegabile fervore nel celebrare la messa. E un connazionale, André Bley, pittore di soggetti sacri, lo incontrò un giorno per le vie di Roma e lo supplicò a lungo di posare per lui. Aveva bisogno di un modello per il volto di Cristo. «Questi non era affatto dotato della bellezza suggerita dalle leggi dell’Accademia, ma ne possedeva un’altra» (De La Gorce, op. cit., p. 114).
Roma, le memorie degli apostoli e dei martiri, Loreto, la Santa Casa. Questi saranno i due fuochi attorno ai quali ruoterà la vita di Benedetto. Se ne allontanerà solo per compiere, tra il 1773 e il 1774, il cammino di Compostela e venerare la tomba di san Giacomo, passando per Manresa alla grotta di sant’Ignazio e per Saragozza a rendere omaggio alla Vergine del Pilar. Ovunque sono testimoniate tracce e memorie del suo passaggio, è ricordata la sua carità e gli sono attribuiti miracoli. È di nuovo a Roma il 3 aprile del 1774, qualche mese prima dell’apertura del Giubileo. Clemente XIV muore pochi giorni dopo aver firmato il decreto che scioglie l’ordine dei Gesuiti. Benedetto si reca a San Paolo fuori le Mura a pregare per la Chiesa. Lo ricorda una donna, che aveva intuito la sua santità e lo cercava ogni tanto: «Si chiamava Domenica Bravi e conosceva bene l’uomo che compiangeva. Quando lui alloggiava sotto gli archi del Colosseo, gli portava delle uova fresche e degli aranci. […] Domenica Bravi aveva detto una volta a Benedetto: “Com’è bello conoscere Dio con la fede e amarlo con la carità!”. Quelle parole avevano riempito di gioia il povero. […] La grande campana del Campidoglio aveva annunciato la morte di papa Clemente XIV» (De La Gorce, op. cit., p. 198-199).

«Pregate per la Chiesa, la Chiesa di Cristo»
«Si era aperto il conclave per eleggere il successore. Difficile, interminabile, il conclave era durato più di quattro mesi: come sempre la rete di intrighi avviluppava i cardinali rinchiusi in Vaticano, le pasquinate circolavano. Mentre una Roma curiosa e vana si perdeva in congetture, eccitata da questa corsa alla tiara, Benedetto peregrinava di chiesa in chiesa, e Domenica lo incontrava presso San Paolo fuori le Mura. “Benedetto” gli diceva “è un momento grave quello in cui si sceglie un papa. Pregate per la Chiesa, la Chiesa di Cristo”. A queste parole “la Chiesa, la Chiesa di Cristo”, il povero si era trasfigurato. Immobile e triste come un mendicante di pietra, egli raggiungeva l’apice della sua orazione. E Domenica aveva compreso allora – al suo modo di plebea incolta – che tra i grandi personaggi che deliberavano in Vaticano e lo straniero di cui ignorava perfino il cognome, esisteva un legame essenziale, indistruttibile. La Chiesa, la Chiesa di Cristo, riposava su questo anacoreta» (De La Gorce, op. cit., p. 198-199).
Benedetto aveva scelto il Colosseo come dimora, dormendo sotto il 43° arco, alla V stazione della Via Crucis: forse non a caso, quella in cui Simone di Cirene aiuta Gesù a portare la croce. La giornata era scandita dai gesti della preghiera e dalle strade di Roma, che lo portavano giorno dopo giorno a scegliere i luoghi più cari alla fede del popolo. Come testimoniò un sacerdote che lo conosceva bene, padre Francesco Fraja: «Ordinariamente lo vedevo andare alla Chiesa dei Santi Apostoli il lunedì, dove vi si dava la benedizione del Santissimo Sacramento; il martedì mattina a quella di San Cosma e San Damiano, la sera alla Madonna di Loreto ai Fori Romani; il mercoledì pomeriggio andava a quella del Santissimo Nome di Maria, presso la colonna Traiana; il giovedì e il sabato sera, alla Madonna dei Monti; il venerdì a volte a Sant’Agata di Monti; e la domenica a Santa Maria in Campo Carleo». Una volta, l’anziano gesuita gli si era inginocchiato davanti, e quando vide che Benedetto tremava di sconcerto e di confusione, gli aveva detto che venerava Cristo nella persona del povero.
L’icona della Madonna della Salute all'interno della Basilica dei Santi Cosma e Damiano

L’icona della Madonna della Salute all'interno della Basilica dei Santi Cosma e Damiano

Accanto a questo amore per l’Eucaristia, tanto che fu definito “il povero delle Quarantore”, trovava spazio la devozione alla Vergine Maria. Nel suo peregrinare raggiunge molti santuari mariani; a Roma si ferma volentieri nelle chiese dedicate alla Madonna e il suo confessore, padre Marconi, dice che prediligeva la chiesa di Santa Maria Maggiore e quella di Santa Maria ai Monti. «A qual grado salisse questa tenerissima filiale devozione verso la Vergine nel nostro Benedetto Giuseppe non è facile a ridirsi… Bastava vederlo genuflesso avanti ai suoi altari per vederne gli interni trasporti di tenerezza verso di Lei, scorgendosi dagli occhi, che di tanto in tanto alcun poco apriva, gli interni sentimenti del suo spirito, come io stesso con mia grande edificazione ho osservato, e come è noto ad una grande moltitudine di testimoni, che lo hanno veduto nelle chiese dedicate a Maria Santissima e specialmente in quelle ove si venerano le sue immagini più insigni» (P. Marconi, Ragguaglio della vita del Servo di Dio Benedetto Giuseppe Labre, pp. 226-227).
Gli ultimi giorni della sua vita furono proprio quelli della settimana santa. Domenica Bravi lo incontrò la domenica delle Palme, mentre si trascinava a stento sulla spianata deserta che da San Giovanni in Laterano portava verso Santa Croce, per venerare le reliquie della Passione. Era l’ultima volta che lo vedeva.
La sera del mercoledì santo «a Loreto, Gaudenzio e Barbara Sori» che spesso avevano alloggiato Benedetto nei suoi pellegrinaggi «spiavano l’arrivo del pellegrino. Non era quella la stagione dei suoi viaggi? Ma il loro piccolo Giuseppe, disse: “Benedetto non verrà più, sta morendo”. Né Gaudenzio né Barbara dettero importanza a questo divagare infantile. I loro sguardi scrutavano la strada caduta nell’ombra. “Benedetto muore, è morto” ripeteva il bambino. Questa volta il piccolo Giuseppe si prese un rabbuffo. Tuttavia quando, divenuto improvvisamente più grave per la sua età, aggiunse: “Benedetto è entrato in paradiso, il cuore me lo dice”, Gaudenzio e Barbara non lo rimproverarono più, ma rifletterono e piansero» (De La Gorce, op. cit., p. 208).

«…il puro effetto della grazia»
Qualche mese dopo la sua morte, tutta l’Europa cristiana sapeva già che Benedetto Labre era un santo. Fu beatificato il 20 maggio 1860 da Pio IX e canonizzato l’8 dicembre 1881 da Leone XIII.
I suoi genitori furono chiamati a testimoniare al processo di beatificazione, apertosi a solo un anno dalla morte. Intanto ad Amettes continuavano a giungere pellegrini. Da uno di questi la mamma di Benedetto, Anne-Barbe, seppe che a Loreto la famiglia Sori aveva spesso alloggiato suo figlio sfinito e tremante di freddo. Ed inviò una lettera di ringraziamento: «Signora, non dimenticheremo mai tutto quello che avete fatto per il nostro caro figlio Benoît-Joseph al momento dei suoi pellegrinaggi a Loreto. Voi mi dite che per me è consolante di aver dato la vita a questo figlio e ne convengo con voi, signora, ma ho motivo di inorgoglirmene? Affatto. Io riconosco umilmente che un padre e una madre non sono che i vili strumenti di cui Dio si serve per dare la vita fisica ai loro figli. Per questo se Benoît-Joseph, il nostro caro figlio, si è santificato sulla terra con la pratica dell’umiltà e di altre virtù cristiane, io confesso candidamente che la condotta o piuttosto la vita edificante ch’egli ha condotto fin dall’infanzia era il puro effetto della grazia e per conseguenza, solo il lavoro dello Spirito Santo: perciò ogni giorno ne benedico il Signore e lo prego costantemente di volervi concedere con abbondanza gli stessi aiuti per arrivare un giorno allo stesso fine».


Paul Verlaine e la canonizzazione di Labre

L’8 dicembre 1881, giorno della canonizzazione di Benedetto Giuseppe Labre,
il poeta francese Paul Verlaine, che si era recato in pellegrinaggio ad Amettes nel 1877, compose questo sonetto
in onore del nuovo santo. Il componimento fu poi pubblicato nella raccolta Amour del 1888.

Qui sopra: Santa Maria in Carleo in una stampa di Giuseppe Vasi (XVIII secolo) e sotto: San Paolo fuori le Mura in una stampa di Giovanni Battista Piranesi

Qui sopra: Santa Maria in Carleo in una stampa di Giuseppe Vasi (XVIII secolo) e sotto: San Paolo fuori le Mura in una stampa di Giovanni Battista Piranesi

Saint Benoît-Joseph Labre
(Jour de la canonisation)

Comme l’Église est bonne en ce siècle de haine,
D’orgueil et d’avarice et de tous les péchés,
D’exalter aujourd’hui le caché des cachés,
Le doux entre les doux à l’ignorance humaine

Et le mortifié sans paix que la Foi mène,
Saignant de pénitence et blanc d’extase, chez
Les peuples et les saints, qui, tous sens détachés,
Fit de la Pauvreté son épouse et sa reine,

Comme un autre Alexis, comme un autre François,
Et fut le Pauvre affreux, angélique, à la fois
Pratiquant la douceur, l’horreur de l’Évangile!

Et pour montrer ainsi au monde
qu’il a tort
Et que les pieds crus d’or
et d’argent sont d’argile,
Comme l’Église est tendre
et que Jésus est fort !


San Benedetto Giuseppe Labre
(Giorno della canonizzazione)

Come è buona la Chiesa in questo secolo di odio,
d’orgoglio e d’avarizia e di tutti i peccati,
a esaltare oggi il nascosto fra i nascosti,
il dolce fra i dolci dinanzi all’ignoranza umana

e il mortificato senza requie che la Fede conduce,
livido di penitenza e bianco d’estasi,
fra i popoli e i santi, che, libero dai sensi,
fece di Povertà la sua sposa e la sua regina

come un altro Alessio, come un altro Francesco,
e fu il Povero obbrobrioso e angelico, che del Vangelo
praticò insieme la dolcezza e lo scandalo!

E per mostrare così al mondo
che esso ha torto
e che i piedi, creduti d’oro e
d’argento, sono d’argilla1,
come è piena di tenerezza la
Chiesa, e quanto Gesù è forte!


1Si accenna qui al sogno di Nabucodonosor, narrato nel libro del profeta Daniele (Dn 2, 31-45).
In esso, una enorme satua d’oro e d’argento, ma dai piedi di argilla, che crolla, colpita da una pietra, rappresenta la debolezza dei regni di questo mondo di fronte al regno messianico annunciato dal profeta.


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