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IL CREDO DEL POPOLO DI DIO...
tratto dal n. 06 - 1998

Il Credo di Paolo VI. Tradizione e profezia


Con la Professione di fede proclamata il 30 giugno 1968 Paolo VI non espose sue idee personali, ma prestò la sua bocca alla grande voce della Chiesa, garantendo così la libertà di tutti i fedeli


del cardinale Godfried Danneels


Il 30 giugno 1968 Paolo VI pubblicava il Credo del popolo di Dio. Fu un gesto tradizionale e allo stesso tempo un gesto profetico.
Tradizionale, perché il Credo del popolo di Dio non è l’opera personale di Paolo VI. Con la sua promulgazione, il Papa agiva in quanto Pietro: non formulò sue idee né pensieri personali, ma prestò la sua bocca alla grande voce della Chiesa universale. Con questo testo, la Chiesa compì un atto di autocoscienza e di vitalità. Allo stesso tempo, essa garantì la libertà dei suoi figli proteggendoli contro ogni condizionamento da parte di altre forze che non fossero quelle dello Spirito di Gesù.
Si trattò allo stesso tempo di un atto profetico. Perché questa promulgazione del Credo del popolo di Dio s’inscriveva perfettamente nelle esigenze derivanti dai segni dei tempi. Perché Paolo VI aveva l’arte di leggere ciò che lo Spirito diceva alle Chiese a quell’epoca, negli anni Sessanta.
La fede cristiana è fondata su degli avvenimenti storici: il mistero pasquale della morte e della risurrezione di Cristo. Essa è solidamente radicata nella terra della storia. Essa si appoggia su dei fatti. Ora la nostra epoca ha facilmente tendenza a ridurre la fede cristiana a un vago sentimento religioso, a una credenza in un Dio impersonale, che si libra al di sopra della storia senza mai entrarvi. Il Credo del popolo di Dio contesta questa riduzione della fede cristiana a un vago sentimento religioso.
La fede cristiana non è nemmeno una religione naturale o cosmica, una sorta di cammino di guarigione per l’uomo bisognoso di terapie psico-culturali. Per la fede cristiana, Dio è una persona che si comunica nella sua creazione, ma soprattutto, alla fine dei tempi, nel suo Figlio unigenito Gesù Cristo. Dio si incarna e si dona nel suo Figlio che ha vissuto i suoi misteri di salvezza in un luogo determinato e in un’epoca determinata. Dio non è una forza cosmica, Egli ha spezzato il ciclo della natura per assumersi il rischio di incarnarsi nel tempo prendendo in anticipo su di sé tutte le servitù di questa incarnazione.
L’atto di fede del cristiano non è nemmeno un salto nel vuoto, cieco e indeterminato. Certo questo atto di fede si fa nella fiducia e nell’abbandono. Ma ha anche un oggetto: il Dio di Gesù Cristo così come si è rivelato nella sua Parola. La fides qua non ci dispensa da una fides quae: noi non crediamo a una cosa qualsiasi. La fede ha un contenuto che si sottrae a ogni soggettivismo. La fede non è un grido.
Infine, la fede cristiana non è un impegno morale, una semplice etica. Essa ha il suo contenuto dottrinale, depositato innanzitutto nella Scrittura, sistematizzato nei primi simboli di fede, esplicitato infine nei catechismi. Perché una morale senza fondamento dottrinale è instabile come le sabbie mobili. E la perversione morale non ha forse la sua radice, secondo le parole di san Paolo nella lettera ai Romani (Rm 1-2), in una perversione del pensiero che la precede? Gli antichi si chiedevano a cosa valgono le leggi senza la morale. Ma che vale una morale senza il suo fondamento dottrinale? Non sarebbe forse come una statua senza piedistallo?
Trenta anni dopo la pubblicazione del Credo del popolo di Dio, non si può che rendere grazie per lo spirito profetico di Paolo VI, che così interpretò i segni dei tempi degli anni Sessanta. Ma questi segni sono poi così cambiati sulla soglia del terzo millennio?


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