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IL CREDO DEL POPOLO DI DIO...
tratto dal n. 06 - 1998

«Offriamo a Pietro e Paolo la dichiarazione di quella fede che abbiamo ricevuto da loro in eredità»


Così Paolo VI nel presentare l’Anno della fede, concluso il 30 giugno 1968 con il Credo del popolo di Dio


di Lorenzo Cappelletti


Il Credo del popolo di Dio, pronunciato da Paolo VI il 30 giugno del 1968, al termine dell’Anno della fede, è stato il più grande atto di difesa della fede battesimale e quindi della libertà di ogni semplice fedele compiuto da un papa negli ultimi decenni. Dopo la definizione dogmatica dell’assunzione corporea della Madonna in cielo, compiuta da Pio XII nel 1950, il Credo del popolo di Dio è il gesto più tradizionale e insieme più profetico del Magistero della Chiesa di questo secolo.
Capita sempre così, nella Chiesa. Quando il Papa si limita a fare il suo lavoro, che è quello di custodire fedelmente il tesoro di un Altro, è allora che più facilmente può diventare capace di un realismo sorprendente, profetico, nell’individuare la condizione in cui la Chiesa versa.

Péguy: «…essi stessi degli spostati»
Già il poeta francese Charles Péguy, all’inizio del secolo, aveva intuito quello che stava succedendo nella fase terminale della modernità. Per la prima volta in duemila anni di cristianesimo non si trattava più soltanto dei peccati, dell’incoerenza morale, della separazione tra la fede e la vita dei cristiani, o della rinuncia a tener conto di alcune conseguenze della fede cristiana. Quello che già Péguy vedeva era «la rinuncia di tutto il mondo a tutto il cristianesimo». Il mondo moderno non era più «un cattivo mondo cristiano, un mondo di cattivo cristianesimo, questo non sarebbe nulla, presumibilmente […] ma un mondo incristiano, scristianizzato, assolutamente, letteralmente, totalmente incristiano». Continua Péguy: «Quando i cattolici avranno acconsentito a vederlo, anche solo a misurarlo, a riconoscerlo, quando avranno acconsentito ad ammetterlo, e da dove proviene, quando essi avranno, essi, rinunciato a quella debolezza di diagnosi, allora, allora soltanto potranno forse lavorare utilmente, allora, allora soltanto non saranno più essi stessi degli spostati». Cioè gente che vive fuori dal mondo reale, chiusa dentro discorsi illusori, dal contenuto religioso, ma che non hanno nessuna corrispondenza con la realtà.
Nell’ultimo ventennio, il rifiuto di guardare la realtà per quello che è si è fatto nella Chiesa ancor più devastante. Negli anni Sessanta e Settanta, gli anni di papa Montini, si potevano incontrare nelle associazioni cattoliche e nelle parrocchie dei giovani che correvano dietro a utopie politiche, che gridavano «viva Ho Chi Minh» o «viva Mao Zedong». Ma era un’utopia che normalmente non intaccava la sanità umana. Se non altro perché facilmente veniva smascherata nel momento dell’impatto con la realtà. Oggi è come se negli ambienti cattolici, nelle parrocchie, nei movimenti, fosse mille volte più facile di vent’anni fa incontrare persone che, per dirla con Péguy, sono degli spostati, persone che vivono in un mondo immaginario, quel mondo che viene rappresentato sul teatro dei mass media.
Paolo VI più volte ha ripetuto nell’Anno della fede che la natura propria della fede cristiana è l’incontro con una testimonianza esterna. La natura della fede cristiana non si può confondere con il senso religioso. La fede cristiana sorge come un impatto, un imbattersi con una testimonianza esterna che uno incontra, che la ragione e la libertà riconoscono. Quindi, l’essere spostati, cioè l’essere fuori dal mondo reale, è una minaccia per la stessa fede, per la dinamica propria della stessa fede.

«Vogliamo pregare tutti di fare memoria dei santi apostoli»
Nell’esortazione apostolica Petrum et Paulum apostolos, pubblicata il 22 febbraio del ’67 per indire l’Anno della fede, Paolo VI scrive così: «Vogliamo, inoltre, chiedere una cosa piccola, ma importante. Vogliamo pregare tutti voi singolarmente, fratelli e figli nostri, di fare memoria dei santi apostoli Pietro e Paolo, che testimoniarono la fede di Cristo con le parole e con il sangue. In modo da professare con verità e sincerità la medesima fede che la Chiesa, fondata e resa splendida da loro stessi, accolse devotamente ed espose con autorità. D’altronde questa professione di fede che, avendo per testimoni i beati apostoli, rendiamo a Dio, conviene certo che sia individuale e pubblica, libera e consapevole, interiore ed esteriore, umile e decisa. Vorremmo, inoltre, che tale professione di fede scaturisse dall’intimo del cuore e riecheggiasse una sola, identica e traboccante d’amore in tutta la Chiesa. Infatti quale più grato servizio di memoria, di onore, di comunione potremmo noi offrire a Pietro e Paolo che la dichiarazione di quella fede che abbiamo ricevuto da loro stessi quasi in eredità?».

«Attestare il nostro incrollabile proposito di fedeltà al deposito della fede»
La proclamazione del Credo del popolo di Dio viene spiegata da Paolo VI con due ragioni principali. Nell’omelia del giorno della proclamazione, papa Montini dichiara: «Questo gesto vuol attestare il nostro incrollabile proposito di fedeltà al deposito della fede». Quindi la prima ragione del Credo del popolo di Dio è un’ubbidienza. È un gesto in cui il Papa afferma il suo proposito di fedeltà a qualcosa che non è suo: il tesoro della fede. Proclamando il Credo Paolo VI si riconosceva umile custode di un tesoro più grande di lui, di cui viveva anche lui. E riconosceva che questo è il compito del papa: custodire questo qualcosa di più grande che lo precede. Come affermava papa Celestino I, il tesoro da custodire è più importante del custode.

«I nostri tempi richiedono questo con forza»
La seconda ragione della proclamazione del Credo, Montini la suggerisce già nella lettera apostolica Petrum et Paulum apostolos. Lì, dopo aver invitato tutti i fedeli a far memoria della testimonianza dei due apostoli professando la fede esposta dalla Chiesa, Paolo VI aggiunge che tale professione non risponde solo a una devozione, ma è l’unico gesto adeguato alla situazione che la Chiesa vive: «Non possiamo minimamente ignorare» scrive Montini «che i nostri tempi richiedono questo con forza». Allora, come oggi, come sempre, che quel tesoro fiorisca in fulgore di fede, speranza e carità non dipende neppure dal papa, dai vescovi, dai sacerdoti. Dipende dalla grazia del Signore. A chi ha un compito nella Chiesa, a chi amministra un tesoro non suo, è chiesto, come dice san Paolo, solo di essere fedeli nel custodire quel deposito. Che quel deposito fiorisca non dipende da loro, non è in potere loro.
«Noi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore delle cose visibili, come questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole, delle cose invisibili quali sono i puri spiriti, chiamati altresì angeli, e creatore in ciascun uomo dell’anima spirituale e immortale».
Il Credo del popolo di Dio inizia così, e già l’inizio contiene un piccolo cenno estetico. L’estetica reale, nell’esperienza cristiana, ma anche nell’esperienza semplicemente umana, è l’inizio di tutto. Un ragazzo, un giovane, un adulto, non possono essere interessati al fatto cristiano se non per l’attrattiva reale di bellezza e di piacere che il fatto cristiano esercita nei loro confronti. Reale, cioè non artificiosamente costruita, come le parodie infami che in questo ventennio talvolta sostituiscono i riti semplici e brevi della liturgia cattolica. Ed è inevitabile, dice sant’Agostino, che l’uomo segua ciò che lo rende più contento. Quindi il fatto cristiano può toccare l’uomo solo in quanto lo attrae, solo per l’attrattiva che contiene. Nel ’68, quando tutta l’ideologia dominante spronava ad ottenere tutto e subito qui sulla terra… il Papa inizia accennando a «questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole».

«È in Se stesso al di sopra di ogni intelligenza creata»
«Egli è Colui che è, come Egli stesso lo ha rivelato a Mosé; ed Egli è Amore, come ce lo insegna l’Apostolo Giovanni: cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa realtà divina di Colui che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che “abitando in una luce inaccessibile” è in Se stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata».
Pur ammettendo che l’uomo con la sua ragione, ferita dal peccato originale (perché il peccato originale ferisce l’uomo nella sua stessa dinamica naturale), può riconoscere l’esistenza di Dio, il Credo riafferma con forza che la ragione non può dire Chi è il Mistero. «Ciò che Egli è ci resta completamente sconosciuto» (Gilson, Lo spirito della filosofia medievale). La realtà del Mistero è al di sopra di ogni intelligenza creata. L’intelligenza dell’uomo, partendo da ciò che vede, partendo dal creato che vede, può riconoscere l’esistenza del Creatore invisibile. Che il creato non si dà da sé è un’evidenza naturale. L’uomo può riconoscere, nell’istante che passa, che non si dà da sé l’essere, che non si dà il respiro, che non si dà la vita e quindi che Qualcuno lo mantiene nell’essere. Ma Chi sia questo Qualcuno è al di sopra di ogni intelligenza. Si comprehendis, non est Deus, dice tutta la Tradizione della Chiesa. Se comprendi, non è Dio, non è Mistero.

«Alcuni snaturano il concetto della gratuità dell’ordine soprannaturale»
«Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di Se stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita noi siamo chiamati per grazia di Lui a partecipare, quaggiù nell’oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l’eterna vita».
In questo passaggio compare per la prima volta la parola grazia. Quando Paolo VI scriveva queste parole, (forse con l’aiuto di monsignor Carlo Colombo che era il teologo personale del Papa) si sarà ricordato dell’affermazione dell’enciclica di Pio XII Humani generis, laddove dice che «alcuni snaturano il concetto della gratuità dell’ordine soprannaturale». Il Credo afferma che la chiamata alla vita eterna di Dio è grazia. Non è iscritta nella natura.

«Il fatto empirico e sensibile delle apparizioni di Gesù risorto»
«Noi crediamo in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio […]. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risorto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Resurrezione alla partecipazione della vita divina, che è la vita della grazia».
Nell’udienza del 30 novembre ’67 Paolo VI aveva detto che ad essere messe in discussione del cristianesimo erano innanzitutto tre cose essenziali: «La risurrezione di Cristo nel Suo vero corpo, la realtà della Sua presenza nell’eucaristia, la verginità corporea di Maria e di conseguenza il mistero augusto dell’incarnazione». A riguardo della risurrezione di Gesù nel Suo vero corpo, in un simposio sulla risurrezione di Gesù dal titolo Resurrexit, tenutosi a Roma nel 1970, Paolo VI parlando a braccio diceva: «È importante sottolineare il fatto empirico e sensibile delle apparizioni pasquali. Se non facciamo questo, noi cristiani corriamo il rischio di trasformare il cristianesimo in una gnosi». Negare la risurrezione di Gesù nel Suo vero corpo significa ridurla a una proiezione immaginaria del sentimento dei discepoli. Non più un fatto reale accaduto a cui i discepoli hanno ragionevolmente aderito. Adesione ragionevole vuol dire che quel fatto ha dato segni sensibili e visibili di sé, altrimenti i discepoli non avrebbero potuto aderirvi ragionevolmente. Questo per la struttura stessa della ragione umana per cui nihil est in intellectu nisi prius fuerit in sensu. Per credere ragionevolmente che Gesù era risorto, hanno dovuto incontrare visibilmente Lui risorto.

«La natura umana ferita nelle sue proprie forze naturali»
Il primo grande sviluppo dottrinale del Credo del popolo di Dio riguarda il peccato originale. Ciò implica anche un giudizio molto preciso sulla condizione della Chiesa, visto che uno dei dogmi fondamentali che allora veniva direttamente negato e che oggi viene svuotato di contenuto storico concreto è il dogma del peccato originale.
«Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all’inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l’uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, “non per imitazione, ma per propagazione”, e che esso pertanto è “proprio a ciascuno”».
Se si tenessero presenti queste parole quante battaglie in meno si farebbero! Come accennava in uno degli Angelus più belli papa Luciani: «Più preghiere e meno battaglie». Invece, in questo ventennio, non si è tenuto presente che l’uomo, avendo una natura ferita dal peccato, non solo alla lunga non può mettere in pratica, senza la grazia di Gesù Cristo, nemmeno la legge naturale; ma non può neppure riconoscere abitualmente, senza fatica, senza mescolanza di errori, la stessa legge naturale. Se si fosse tenuto presente che la natura umana propria di tutti gli uomini è la natura ferita dal peccato, si sarebbero certamente indicati con chiarezza i princìpi naturali, ma con una magnanimità, una misericordia più grande nei confronti degli uomini. E poi si sarebbe tenuto presente ciò di cui per duemila anni la Chiesa ha tenuto conto: che la cosa più importante non è insistere su ciò che è bene o è male fare, ma offrire i mezzi necessari per mettere in pratica ciò che bisogna fare. Battezzare e confessare è molto più importante che insistere su quello che bisogna fare. Insistere su quello che bisogna fare, senza offrire il mezzo per adempiere a questa indicazione, è mancanza di carità. Senza indicare e gratuitamente offrire la grazia che è donata attraverso i sacramenti, insistere su quello che la natura umana può e deve comprendere e fare, è mancanza di carità.

«Un solo Battesimo per la remissione dei peccati»
«Noi crediamo che Nostro Signor Gesù Cristo mediante il Sacrificio della Croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che – secondo la parola dell’Apostolo – “là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia”. Noi crediamo in un solo Battesimo istituito da Nostro Signor Gesù Cristo per la remissione dei peccati».
Senza quest’ultima frase sul battesimo, istituito da Nostro Signore Gesù Cristo per la remissione dei peccati, tutta l’affermazione precedente sul sacrificio della croce che ha ottenuto il riscatto di tutti i peccati non sarebbe ultimamente cattolica, cioè reale. C’è un famoso paragrafo del decreto del Concilio di Trento sulla giustificazione, dal titolo Qui per Christum iustificantur, coloro che sono resi giusti attraverso Cristo, che dice: «Benché Egli sia morto per tutti, tuttavia non tutti ricevono il beneficio della Sua morte ma solo quelli cui viene comunicato il merito della Sua passione». E Pio XII, nell’enciclica Mediator Dei, a commento di questo brano dice: «È assolutamente necessario che ognuno venga a contatto vitale col Sacrificio della Croce, e così i meriti che da esso derivano siano loro trasmessi ed applicati». Non basta dire: «È morto per tutti, quindi tutti sono salvi». Detto così non è reale. Anzi, detto così, è come se uno pretendesse di dettare le vie al Mistero. Invece il Credo del popolo di Dio, quando accenna alla salvezza di coloro che non sono battezzati, afferma che «anche essi, in un numero che Dio solo conosce, possono conseguire la salvezza». La salvezza dei non battezzati è qualcosa che riguarda il mistero della misericordia di Dio. Ma qui sulla terra, per vivere una vita lieta e buona, non basta dire che Gesù è morto per tutti. Bisogna comunicare realmente a questa morte, bisogna entrare in contatto vitale con questa morte. Tutta la poesia moderna, nelle sue espressioni esteticamente più grandi, da Leopardi a Pavese, in qualche modo profeticamente grida questo. È come se dicesse che non serve a nulla affermare un principio vero se non si offre la possibilità di un contatto umano con quella realtà indicata. Che interesse può avere un giovane oggi nel sapere che Gesù è morto per tutti se non ha la possibilità reale di entrare in contatto con la felicità che scaturisce da quell’avvenimento? Continua il Concilio di Trento: «Come infatti tutti gli uomini in concreto se non nascessero dalla discendenza di Adamo non nascerebbero ingiusti, proprio perché con questa propagazione quando vengono concepiti contraggono da lui la propria ingiustizia, così se essi non rinascessero in Cristo non potrebbero mai essere giustificati proprio perché con quella nascita viene donata loro per il merito della sua passione la grazia per cui diventano giusti».
«Il Battesimo deve essere amministrato anche ai bambini che non hanno ancor potuto rendersi colpevoli di alcun peccato personale, affinché essi, nati privi della grazia soprannaturale, rinascano “dall’acqua e dallo Spirito Santo” alla vita divina in Gesù Cristo».
In questi ultimi decenni, quando si battezzano i bambini, si è come nascosto il fatto che anche il battesimo dei bambini è per la remissione dei peccati. Che cioè i bambini nascono privi della grazia. E che, nati infelici, per grazia diventano lieti, come dice una delle preghiere della liturgia. Invece, si è trasformato il battesimo dei bambini in una specie di festa dell’innocenza naturale.

«Nella grazia dello Spirito Santo che dona alla Chiesa vita e azione»
«Nel corso del tempo, il Signore Gesù forma la sua Chiesa mediante i Sacramenti, che emanano dalla sua pienezza. È con essi che la Chiesa rende i propri membri partecipi del Mistero della Morte e della Resurrezione di Cristo, nella grazia dello Spirito Santo, che le dona vita e azione».
Il Signore Gesù forma la sua Chiesa mediante i sacramenti, cioè attraverso suoi gesti. Non la forma mediante la catechesi. La catechesi è l’eco di un avvenimento. Può solo indicare e chiarire con parole avvenimenti reali. Cioè qualcosa che viene prima. Non la forma con i nostri discorsi. San Pio X, contro la peste e il virus del giansenismo, ha fatto due decreti che sono tra i pronunciamenti del Magistero più belli di tutta la storia della Chiesa, certamente tra i più belli di questo secolo. Il primo decreto del 1905, Sacra tridentina synodus, è sulla comunione frequente. In esso san Pio X insiste, contro la prospettiva giansenista, sul fatto che la comunione perdona i peccati veniali e aiuta a evitare i peccati mortali. E quindi insiste sull’importanza della comunione frequente proprio dal punto di vista del peccato: se non si parte dal peccato che è una cosa così concreta e quotidiana, si diventa astratti e nebulosi. Perché è dogma di fede che, anche per uno in grazia di Dio, affinché possa evitare i peccati, si richiede uno speciale aiuto della grazia. Il secondo decreto di san Pio X è il Quam singulari del 1910 sulla prima comunione ai bambini, in cui stabilisce che i bambini possono ricevere la comunione all’età della ragione, che normalmente è sette anni, e anche prima di quell’età. Affinché possano fare la comunione si richiede solo che, a giudizio del padre e del confessore, i bambini sappiano, secondo la loro capacità, quelle verità di fede «necessarie di necessità di mezzo per la salvezza», che praticamente vuol dire: il segno della Croce con le preghiere più semplici, i dieci comandamenti, i sette sacramenti. E queste cose secondo la capacità del bambino: per esempio, per quanto riguarda il sacramento dell’eucaristia, basta che il bambino sappia distinguere il Pane consacrato che riceve nella santa comunione dal pane comune che mangia a casa. Il piccolo Giovanni Bosco ha fatto la prima comunione perché sua mamma Margherita l’ha portato un giorno a confessarsi dal suo confessore. S’è confessata prima lei e poi ha detto al sacerdote: «Guardi, adesso faccio confessare il mio bambino che è la prima volta che si confessa». E poi insieme sono andati a fare la comunione. Adesso ci vogliono due o tre anni di preparazione per fare la prima comunione. Ma non è di per sé il problema degli anni. La cosa più grave è che, allungando il tempo di preparazione, si crede con i discorsi, con la catechesi, di rendere interessante il cristianesimo. È letteralmente il contrario: quanto più si fanno riunioni e discorsi, tanto più nei ragazzi, ancora piccoli, si introduce il sospetto moderno che il cristianesimo sia una cosa non umana, una cosa da matti, da spostati. E la catechesi si trasforma in un ricatto: se non fai due anni di catechismo, non puoi fare la cresima.

«Essa [la Chiesa] è dunque santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia».
Questa è la Chiesa. La Chiesa è la dinamica di stupore e di aggregazione che la grazia genera nel mondo. Nel mondo c’è una dinamica di sorpresa, di stupore e quindi di attrattiva che si chiama grazia. Questa dinamica di stupore, di sorpresa e di attrattiva crea una civitas, dice sant’Agostino. Crea una realtà sociale. Questa realtà si chiama Chiesa. La Chiesa è la dinamica di questa grazia che si diffonde nel mondo. E, continua sant’Agostino, siccome è una vita, la Chiesa non può essere concepita come una città con dei bastioni, un muro contro un altro muro. È una vita. Quindi è una cosa totalmente dinamica. Colui che magari oggi è stupito dalla grazia può perdere la grazia. Non basta infatti essere in grazia per rimanere in grazia. Rimanere in grazia richiede uno speciale auxilium della grazia. Mentre chi può sembrare ed essere nemico, bestemmiatore, colui che ha come orizzonte pratico la lussuria, l’usura e il potere, tentazioni, di fatto, per ogni uomo, è quello che per primo si può stupire di questa grazia. La città di Dio non possiede altra vita che questa grazia che stupisce, raggiunge e aggrega quelli che gratuitamente incontra. E questo incontro è una pura gratuità. Non è detto che rimanga stupito e venga aggregato da questa grazia chi attende questa grazia. Zaccheo, ad esempio, non aveva il problema di attendere la grazia. È salito sull’albero per pura curiosità. E quando Gesù è passato e l’ha guardato, e gli ha detto: «Zaccheo, vengo a casa tua», ecco, in quell’istante si è accorto che non si era mai sentito voluto bene così. L’uomo di oggi, nell’angoscia di oggi, ha ormai il sospetto su tutto; e questo sospetto è alimentato, come dice Montale in una poesia, da quei predicatori che parlano di Dio, di Cristo alla televisione e che se si guardassero allo specchio, vedendo la propria faccia, forse capirebbero i sentimenti che provano quelli che li ascoltano. L’uomo di oggi, nell’angoscia di oggi, ha soltanto l’attesa confusa di incontrare una sorpresa, uno stupore e quindi una possibilità di sguardo come quello rivolto a Zaccheo.

«Accolti da Gesù in Paradiso come Egli fece per il Buon Ladrone»
«Noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel Purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come Egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell’aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della resurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi».
Come Gesù fece con il buon assassino, perché latro in latino vuol dire assassino. E infatti non bastava rubare per essere condannati alla croce: si doveva aver ammazzato qualcuno. Al buon assassino è bastato quello sguardo, quello sguardo al Signore. Come dice sant’Ambrogio, che Montini amava tanto, è bastato «un breve istante di fede», brevi fide, una fede brevissima. Non era una fede di catechismo, non era una fede di lunga tradizione. Domandò con la fede di un istante. E attraverso questa fede di un istante – Ambrogio ha questa bellissima immagine – iustosque previo gradu prevenit in Regnum Dei: ha superato con un piccolo scatto tutti i giusti nel Regno di Dio. Questa dinamica di grazia è una cosa che nessuno può gestire. Mentre la catechesi la possono gestire gli intellettuali o gli ecclesiastici, la grazia non la possono gestire. Oggi sarai con me. Gesù non gli ha detto di aspettare perché doveva prepararsi, doveva fare un corso di catechismo. No. Gli ha detto: Oggi sarai con me in Paradiso.


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