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SECONDA GUERRA MONDIALE
tratto dal n. 04 - 1998

«Leggete il libro di padre Blet su Pio XII»


Così ha detto Giovanni Paolo II ai giornalisti per difendere il suo predecessore dalle accuse di non aver parlato contro l’Olocausto. 30Giorni ha incontrato il gesuita francese. Intervista


Intervista con Pierre Blet di Stefano Maria Paci


Il recente documento vaticano sulla Shoah ha sollevato reazioni scomposte. Sotto accusa è la parte dedicata a Pio XII, che non avrebbe messo in rilievo il colpevole silenzio del Papa di fronte a tale orrore. Ma che fondamento c’è in questa “leggenda nera” che viene ripetuta da anni? Giovanni Paolo II, ai giornalisti che sul volo papale diretto in Africa gli chiedevano un commento alle accuse, ha risposto, semplicemente: «Leggete il libro di padre Blet su Pio XII».
Padre Pierre Blet è un gesuita francese, professore emerito di Storia moderna alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e di Storia diplomatica alla Pontificia Accademia Ecclesiastica. Su richiesta di papa Paolo VI ha lavorato per 16 anni, assieme a tre colleghi gesuiti ormai scomparsi, negli Archivi segreti vaticani per pubblicare i dodici volumi di Actes et Documents du Saint-Siège relatifs à la Seconde Guerre mondiale. In essi compaiono, in lingua originale, tutti i documenti conservati in Vaticano (quelli del Papa e dei suoi più stretti collaboratori, le relazioni di ambasciatori e nunzi ecc.) relativi all’ultima guerra. Adesso padre Blet ha pubblicato, presso l’editore francese Perrin, un’affascinante e documentatissima sintesi di quel gigantesco lavoro: Pie XII et la Seconde Guerre mondiale d’après les archives du Vatican. Un libro che ha avuto nel Papa uno sponsor d’eccezione.

Padre Blet, perché queste reazioni al documento vaticano?
PIERRE BLET: Ad una radio francofona, il giorno precedente la pubblicazione, ho sentito dire: «I vescovi francesi hanno già chiesto perdono per i loro predecessori, adesso il Papa chiederà perdono per le colpe di Pio XII». Credo che il Vaticano avesse previsto questo modo di presentare la cosa: per questo nel suo documento ha espressamente scritto che Pio XII ha salvato molti ebrei. Era necessario parlare così, altrimenti ci sarebbe stata un’altra accusa contro la Chiesa, il che è ingiusto. Perché durante il nazismo la Chiesa ha fatto più del necessario, anche se alcuni cristiani potevano certamente fare di più. C’era già il brutto precedente del documento dei vescovi francesi, per fortuna non se ne è aggiunto un altro.
Cosa intende dire?
BLET: Il documento dei vescovi francesi è una condanna pronunciata da un tribunale incompetente giuridicamente e scientificamente: giuridicamente, perché i vescovi attuali non hanno giurisdizione sui loro predecessori; scientificamente, perché si tratta di cose molto delicate da giudicare. Questo è lavoro che devono lasciare agli storici. Questa condanna, tra l’altro, non è stata fatta dalla Conferenza episcopale francese, anche se così ha creduto l’opinione pubblica, ma solo da alcuni vescovi: 30 su un totale di 120. E senza parlarne con i loro confratelli. I vescovi francesi sono riusciti dove aveva fallito il governo di De Gaulle, che esigeva le dimissioni di decine di vescovi. Papa Pio XII rispose: «Non si deve nemmeno discutere. Hanno seguito la loro coscienza». Lui all’epoca non li ha condannati: i loro successori, senza averne l’autorità, sì.
Questo documento vaticano sulla Shoah, invece, è stato diverso...
BLET: Sì, certo, ma confesso che da parte mia avrei preferito non fosse pubblicato. Facendolo, il Vaticano era obbligato a dare un giudizio su fatti di storia. Io, come storico, ritengo che sia un’usurpazione del nostro lavoro. Non si può parlare delle relazioni tra ebrei e cattolici in dieci paginette... ci vorrebbero dieci volumi.
D’accordo, vediamo allora cosa risulta dai documenti storici. Lei ha avuto modo di lavorare negli Archivi segreti vaticani.
BLET: Innanzitutto, dai documenti emerge il grande tentativo di Pio XII di scongiurare la guerra. Fa di tutto per impedirla: passi segreti della diplomazia, discorsi solenni e appelli ai popoli e ai governi. Pochi mesi dopo la sua elezione, nel maggio ’39, lancia l’idea di una conferenza internazionale a cinque tra i governi di Roma, Parigi, Londra, Berlino e Varsavia. Rimane inascoltato. Quando esplode la guerra, tenta, d’accordo con il presidente americano Franklin Delano Roosevelt, di impedire che l’Italia entri nel conflitto. Trasgredendo al protocollo, si reca lui stesso al Quirinale, dal re, congratulandosi per «la pace salvaguardata grazie alla saggezza dei suoi governanti».
Ma, nonostante i suoi sforzi, la guerra scoppia. Che atteggiamento assunse Pio XII di fronte alle parti in lotta?
BLET: Lo espresse all’arcivescovo di Monaco: non la neutralità, che avrebbe potuto essere interpretata come una indifferenza passiva, ma l’imparzialità, che giudica le cose secondo verità e giustizia. E non esita a rischiare in prima persona. Pio XII venne a conoscenza di informazioni di importanza capitale per il conflitto: ho scoperto, nell’archivio dell’ambasciata francese a Roma, un documento che dimostra che Pio XII aveva saputo il luogo e la data dell’offensiva tedesca contro il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo. Non esitò, correndo immaginabili rischi, a comunicarli segretamente a Parigi e Londra nel maggio del 1940, ma non venne creduto. Il Papa era stato contattato, all’inizio del 1940, da generali tedeschi che volevano liberarsi di Hitler. Gli avevano detto di questa offensiva, aggiungendo che la si sarebbe potuta impedire se fossero state assicurate onorevoli condizioni di pace alla Germania qualora si fosse liberata del Führer. Anche questa informazione, che il Papa si affrettò a comunicare (varie relazioni dell’ambasciatore inglese lo confermano) non venne sfruttata a dovere. Gli inglesi non si fidarono, e la proposta cadde nel vuoto.
Azioni decisamente rischiose, per un Papa i cui fedeli vivevano in entrambi i blocchi contendenti...
BLET: Molto rischiose. Se Hitler ne fosse venuto a conoscenza, avrebbe certamente scatenato una campagna contro i cattolici, dimostrando che il Papa era alleato con i traditori della patria. Il Papa sapeva quel che rischiava: il cardinal Nasalli Rocca, che all’epoca era nell’Anticamera del Papa, mi ha raccontato che Pio XII un giorno gli disse: «Se i nazisti vogliono rapirmi, dovranno trascinarmi via con la forza. Perché io rimango qui», e dicendo questo afferrò con decisione i braccioli della sua poltrona. Una delle preoccupazioni che guidavano Pio XII nella sua azione, era la sorte dei cattolici in Germania e nei Paesi del Reich. Il 28 agosto ’39 all’ambasciatore di Francia che gli chiedeva un intervento forte e pubblico in favore della Polonia, dove veniva esercitata una persecuzione impietosa contro la Chiesa e il popolo, rispose: «Non si può dimenticare che nel Reich ci sono quaranta milioni di cattolici. A cosa sarebbero esposti dopo un simile atto della Santa Sede? Il Papa ha già parlato, e chiaramente». Un appello diretto contro la Germania, tra l’altro, sarebbe stato immediatamente sfruttato da Goebbels per creare una Chiesa nazionale, staccata da Roma. E se il Papa si rifiutava di stigmatizzare la situazione con parole di fuoco, era per timore di rendere peggiore la sorte delle vittime. Ma quello che non poteva BLET: È vero, si lamentavano del silenzio del Papa. Gli inviarono un documento drammatico: «Le chiese sono profanate e chiuse, la religione desolata, il culto cessa, i vescovi cacciati, centinaia di sacerdoti sono uccisi e inviati in prigione... Perché il Papa tace, come se non avesse cura delle sue pecorelle?». Ma loro erano a Londra: i vescovi che erano rimasti in Polonia confermavano Pio XII sulla via di un sano realismo. Anche il vescovo di Cracovia, monsignor Adam Stefan Sapieha, il 3 novembre del 1941 aveva chiesto al Papa una parola di condanna esplicita. Ma ben presto si accorse che sarebbe stato un errore. Il 28 febbraio 1942 scrisse una lunga e dettagliata descrizione di tutti gli orrori dell’occupazione nazista. Aveva affidato questa lettera a un sacerdote italiano, Pirro Scavizzi, che avrebbe dovuto consegnarla a Pio XII. Ma poi monsignor Sapieha ebbe paura e gli inviò un messaggio per chiedergli di bruciarla «per timore che cada nelle mani dei tedeschi, che avrebbero fucilato tutti i vescovi e forse anche altri». Il sacerdote obbedì, ma solo dopo averla ricopiata e avervi aggiunto la sua propria testimonianza. E più tardi, in una lettera a Pio XII datata 28 ottobre, monsignor Sapieha scrive: «Ci dispiace molto di non poter comunicare ai nostri fedeli le lettere di Vostra Santità, ma questo fornirebbe pretesto a nuove persecuzioni e noi abbiamo già vittime che sono sospettate di comunicare segretamente con la Santa Sede». Quando la lettera ricopiata da padre Scavizzi arrivò in Vaticano, produsse forte impressione. Si cercò di individuare le misure adatte a tali circostanze. Una nota di monsignor Domenico Tardini, della Segreteria di Stato, spiega bene l’atteggiamento scelto dal Papa: «Nelle circostanze attuali» dice «una condanna pubblica della Santa Sede sarebbe largamente sfruttata a fini politici da una delle parti in conflitto. Inoltre, il governo tedesco, sentendosi attaccato, farebbe senza dubbio due cose: esaspererebbe ancor di più la persecuzione contro il cattolicesimo in Polonia, e impedirebbe in ogni modo che la Santa Sede abbia contatti con l’episcopato polacco e possa esercitare la sua opera di carità che, per il momento può ancora, in forma ridotta, svolgere. In definitiva una dichiarazione pubblica della Santa Sede sarebbe snaturata e essa stessa sfruttata a fini politici». Si optò per una pesante, e lungamente elaborata, nota diplomatica.
La seconda guerra mondiale fu il conflitto più spaventoso della storia. Morirono ben quaranta milioni di persone. E sei milioni di esse erano ebree, immolate per un orrendo progetto razziale che tentò di sterminare un intero popolo. Come si comportò Pio XII di fronte alla Shoah?
BLET: Innanzitutto, va detto che del progetto di sterminio totale degli ebrei né Pio XII né le organizzazioni ebraiche né gli Alleati erano a conoscenza. La drammatica estensione di quel progetto si seppe solo dopo la fine della guerra. Durante, non se ne parlò mai. Nemmeno Radio Londra, che incitava le popolazioni sottomesse al nazismo a insorgere, fece mai accenno a questi campi della morte. Si sapeva delle deportazioni, di gruppi di ebrei massacrati, ma non di questo sterminio su scala industriale, l’orrenda “soluzione finale”. Poi iniziarono ad arrivare racconti che però sembravano cose dell’altro mondo. Due ragazzi sfuggiti da Auschwitz nella primavera del 1944 fecero un rapporto su quanto accadeva lì, il cosiddetto Protocollo di Auschwitz. Ma non vennero creduti sul momento. Erano solo due persone a raccontarlo. Gli stessi ebrei furono i primi a dirgli: «Siete pazzi, state screditando tutto con queste esagerazioni». Le organizzazioni ebraiche dubitavano delle voci che si sentivano. Perché bisogna distinguere tra le voci e i rapporti sicuri. Il presidente Roosevelt aveva come rappresentante in Vaticano un amico carissimo, Myron Taylor. Un giorno questi trasmise alla Segreteria di Stato una domanda delle associazioni ebraiche: «Avete conferme di quello che si dice... che lo sterminio degli ebrei è in corso?». Il segretario di Stato, cardinale Luigi Maglione, rispose: «Non abbiamo nulla per confermarlo, se non qualche voce contraddittoria». Ancora il 30 agosto del ’43 il segretario di Stato americano comunicava: «Non ci sono prove sufficienti per giustificare una dichiarazione riguardo l’esecuzione in camere a gas». L’incertezza era grande. Del resto, l’assoluta segretezza con cui venne condotta l’operazione è stata confermata recentemente.
Da chi?
BLET: È una testimonianza che si può leggere in un libro apparso in Svizzera, Drei Jahren in der Nachrichtenzentrale des Fürerhauptquartiers. L’autore è Alfons Schulz, all’epoca un giovane soldato che lavorava al servizio di trasmissione nel quartier generale di Hitler. Una notte un suo commilitone terminò il servizio notturno pallidissimo, quasi fuori di sé, e per tre giorni non parlò con nessuno. Alla fine, raccontò loro cosa aveva sentito. Heinrich Himmler, il capo delle SS, aveva telefonato a Martin Bormann, che era il successore previsto di Hitler, e gli aveva detto: «Ah, una buona notizia per il Führer. Abbiamo eliminato 20mila ebrei ad Auschwitz». E Bormann aveva risposto, arrabbiatissimo: «Non sa che queste cose non si comunicano per telefono? Queste cose devono essere comunicate a me unicamente in buste sigillate, e io le trasmetterò a Hitler». In tutti gli anni della guerra, non si sentì nessun altro accenno alla cosa nelle comunicazioni dei vertici nazisti ad Hitler.
Eppure, anche se non si sapeva della “soluzione finale”, le persecuzioni erano ben note. Perché Pio XII non le condannò pubblicamente?
BLET: Lo fece. Basti pensare al messaggio natalizio del 1942, nel quale denuncia «le centinaia di migliaia di persone che, senza alcuna colpa personale, talvolta soltanto a causa della loro nazionalità e razza, sono mandate a morte o alla progressiva estinzione»; o a quello di fronte ai cardinali del 2 giugno ’43, in cui torna ancora su coloro che, a causa della loro razza, «sono destinati a violenze sterminatrici». Ma, è vero, non fece mai un discorso di condanna con forza dirompente. I motivi sono gli stessi che lo trattennero di fronte alle persecuzioni dei cattolici in Polonia e altrove. Nel discorso ai cardinali del giugno ’43, spiegò che ogni sua dichiarazione pubblica «doveva essere considerata e pesata con una serietà profonda nell’interesse stesso di coloro che soffrono». Pio XII aveva pensato di poter fare una dichiarazione vigorosa. E non è senza pena che aveva optato per un’azione discreta e silenziosa. Scrisse, il 20 febbraio 1940: «Là dove il Papa vorrebbe gridare alto e forte, è purtroppo l’attesa e il silenzio che gli sono spesso imposti; là dove vorrebbe agire e aiutare, è la pazienza e l’attesa (che si impongono)». E il 3 marzo 1944 ripeterà: «Frequentemente, è doloroso e difficile decidere cosa impone la situazione: una riserva e un silenzio prudente, o al contrario una parola franca e una azione vigorosa».
A confermare la giustezza della scelta di Pio XII fu lo stesso delegato degli Stati Uniti al processo di Norimberga, Robert Kempner. «Ogni tentativo di propaganda della Chiesa cattolica contro il Reich di Hitler» disse «non sarebbe stato soltanto un suicidio provocato, come ha dichiarato adesso Rosemberg, ma avrebbe provocato l’esecuzione di un maggior numero di ebrei e di sacerdoti». Del resto Pio XII non si faceva illusioni sul regime di Hitler. Il 2 giugno 1945 disse che la persecuzione nazista contro la Chiesa cattolica era stata continua ed era durata fino agli ultimi mesi, «quando i suoi aderenti si vantavano ancora di potere, una volta ottenuta la vittoria militare, farla finita per sempre con la Chiesa. Testimonianze autorizzate e incontestabili Ci tenevano informati di questo disegno».
Insomma, Pio XII era un realista: non volle pagare con il sangue degli altri una bella parola che, in fondo, non gli sarebbe costata molto...
BLET: È proprio così. Dopo la sua condanna pubblica del Reich, sarebbe semplicemente stato portato in qualche castello della Baviera ad aspettare di essere liberato dagli americani. Preferì invece adoperarsi fino allo spasimo perché la Chiesa alleviasse le sofferenze della guerra. Mentre il Papa sembrava in pubblico silenzioso, la sua Segreteria di Stato mobilitava nunzi e delegati apostolici in Slovacchia, in Croazia, in Romania, in Ungheria, indicando di intervenire presso i governi e gli episcopati per svolgere azione di soccorso. L’efficacia di questa azione è ben nota agli storici, e ha ottenuto a più riprese il ringraziamento delle organizzazioni ebraiche: un illustre storico ebreo, Pinchas Lapide, ha stimato in 860mila gli ebrei salvati grazie alle iniziative volute da Pio XII.
Ricordo di aver letto, in una raccolta di scritti di Albert Einstein, che era ebreo, una sua dichiarazione: «La Chiesa cattolica è stata la sola ad alzare la voce contro l’assalto condotto da Hitler contro la libertà. Fino a quell’epoca, la Chiesa non aveva mai attirato la mia attenzione, ma oggi esprimo la mia grande ammirazione e il mio profondo attaccamento verso questa Chiesa che, sola, ha avuto l’incrollabile coraggio di lottare per le libertà morali e spirituali». Ma allora, come è potuta nascere questa “leggenda nera” attorno a Pio XII?
BLET: Nessuno ha mai parlato contro il silenzio di Pio XII finché non è apparsa un’opera teatrale, Il vicario, scritta da Rolf Hochhuth e rappresentata per la prima volta a Berlino nel 1963. Era un romanzetto grottesco che diceva che il Papa avrebbe taciuto per ragioni economiche e per debolezza. Che questa ridicola accusa si sia diffusa così è sorprendente. Hochhut scrisse anche un altro dramma, questa volta su Churchill. Raccontava che Churchill aveva fatto uccidere, sabotando il suo aereo con la complicità del pilota, il comandante polacco delle truppe di volontari alleate agli inglesi. Il pilota era poi stato liquidato dai servizi segreti inglesi. Un giornalista, entusiasta di questo dramma, ha fatto un’inchiesta. E con sua sorpresa, ha scoperto che era tutto falso. Ha anche rintracciato il pilota, che viveva tranquillamente nella sua casa in California. Sia il governo inglese che il pilota hanno fatto causa ad Hochhuth, che è stato condannato a pagare somme altissime. Non ha più messo piede in Inghilterra per evitare il carcere. Forse, per capire l’origine di tutto questo, bisogna ricorrere alla vecchia domanda: «Cui prodest?». Hochhuth non ha mai fatto un dramma su Stalin. Viene da pensare che la “leggenda nera” su Pio XII sia stata orchestrata all’Est. Per molti anni l’insistenza sui campi di concentramento di Hitler ha coperto l’esistenza dei Gulag dell’Est. Non a caso il documento vaticano sulla Shoah dedica un paragrafo anche ad essi. Ma credo che oggi ci sia malafede in chi porta avanti le accuse contro Pio XII. E che sa ben manovrare l’opinione pubblica.
Secondo lei, cosa potrebbe fare la Chiesa per correggere questa immagine distorta di Pio XII?
BLET: Dovrebbe finalmente beatificare Pio XII, la cui causa procede a rilento per motivi “diplomatici”.


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