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ELEZIONI DEL 18 APRILE 1948
tratto dal n. 03 - 1998

Per una Roma aperta


«Se, quale prolungamento del muro di Berlino, non abbiamo avuto il muro di Roma, fu anche perché la Chiesa di Pio XII esercitò il suo diritto-dovere di difendere la libertà». L’allora assistente centrale dell’Unione uomini di Azione cattolica racconta cosa accadde nella Città eterna


del cardinale Fiorenzo Angelini


La “memoria storica” è giustamente considerata decisiva per capire il presente. Essa, tuttavia, è sovente discrezionale e selettiva, soprattutto quando rovescia il proprio criterio interpretativo, presumendo non già di leggere il presente attraverso il passato, ma il passato attraverso il presente. E ciò si verifica soprattutto quando ad essere sottoposti ad analisi sono “passaggi” della storia che, soltanto a decenni di distanza si viene a sapere, con prove incontrovertibili, “di che lacrime grondano e di che sangue”.

La parola liberazione ha la medesima radice della parola libertà, e non spiacerà al lettore conoscere i particolari di un impegno che fu insieme civile e sacerdotale, poiché se il sacerdote è al servizio della verità, soltanto la verità può renderci liberi. E se, quale prolungamento del “muro” di Berlino non abbiamo avuto il “muro” di Roma, fu anche perché la Chiesa, guidata da Pio XII, non soltanto esercitò il diritto a difendere la sua e la nostra libertà, ma sentì questo impegno come un dovere primario e irrinunciabile.
Il gesuita e grande biblista Augustinus Bea, confessore e consigliere di Pio XII, poi creato cardinale da Giovanni XXIII, ha lasciato scritto: «Forse ci vorranno decenni, probabilmente secoli, per misurare la gigantesca opera di Pio XII e il suo influsso sulla Chiesa e, diciamolo pure, sulla storia dell’umanità». Decenni, o forse secoli, non di silenzio, ma di seria riflessione, possibile soltanto attraverso una esauriente ricostruzione dei fatti.
Sui banchi di scuola ci insegnavano che la storia oggettiva può essere scritta soltanto a cinquant’anni dagli eventi accaduti. A parte questo, tuttavia, occorre innanzitutto guardarsi dall’isolare gli eventi dal loro contesto, rischiando, per dirla con il Manzoni, di «non badare ai fatti».
Il 18 aprile 1948, per coloro che, come chi scrive, ne furono protagonisti attivi, fu al centro di questi “fatti”. Più che un punto di partenza, esso fu innanzitutto il punto di arrivo di un cammino iniziato nel cuore della guerra e, a Roma, subito continuato dopo l’arrivo degli Alleati.
Non avevo ancora 27 anni quando, viceparroco alla Natività di via Gallia, a Roma, fui accanto a Pio XII, il 23 agosto 1943, quando il Papa, prima del cessato allarme, raggiunse i luoghi colpiti dal secondo bombardamento aereo sulla capitale.
I miei primi anni di ministero sacerdotale erano “tra la gente” che, povera o ricca, semplice o colta, giovane o anziana, non aveva che un desiderio, alimentato dalla sua fede cristiana: la libertà.
In parrocchia mi ero affrettato a dare vita ad una fiorente associazione maschile che chiamai “Mater mea, fiducia mea”. E fu in occasione dell’inaugurazione di questa associazione che incontrai per la prima volta il professore Luigi Gedda, allora presidente nazionale della Gioventù italiana di Azione cattolica. Ma guardavo anche a coloro che volevo considerare “sempre giovani” e, pressoché contestualmente, divenni assistente della locale Associazione degli uomini cattolici.
In nome della libertà e sostenuto da parrocchiani coraggiosi e generosi, non si era mai chiusa la porta a nessuno che fosse nel bisogno. Nascondemmo, con il rischio della vita, persone ricercate dai nazisti; creai una Cucina economica che arrivò a distribuire fino a duemila minestre al giorno; poi, l’indomani della “liberazione” di Roma, fondai, con il compianto sindacalista Enrico Frascatani, il primo Segretariato del popolo per l’assistenza gratuita, ventiquattro ore su ventiquattro, a cittadini di qualsiasi condizione sociale e per qualsiasi motivo: assistenza medica, legale, finanziaria e collocamento al lavoro. Gli assistiti assommarono a migliaia. Nella filodrammatica parrocchiale recitavano attori come Carlo Campanini, Nico Pepe e, tra i miei giovani, Nino Manfredi, prima ancora che frequentasse l’Accademia. Furono organizzate una mostra del libro cattolico e una della stampa cattolica; nacque la rivista Orizzonti, sulla quale scrivevano Giuseppe Mira, Igino Giordani e il giovane Ugo Zatterin. Misi insieme anche una squadra di calcio il cui nome Florentia mutuai dal mio nome di battesimo. Gli incontri avvenivano ai campi del Gelsomino, sulla via Aurelia. Tutte queste iniziative non miravano ad un presenzialismo di facciata, ma muovevano dalla convinzione che i cattolici, in quanto cittadini, sono in primo luogo chiamati ad un impegno concreto da esprimere nella promozione e nella difesa della libertà.
Se dietro il termine e il concetto di “Resistenza” stanno termine e concetto di libertà, nella sua più compiuta accezione, la nostra fu reale e costruttiva partecipazione alla Resistenza.
A 29 anni lasciavo la parrocchia per essere stato nominato vice-assistente centrale dell’Unione uomini di Azione cattolica, della quale, nell’ottobre 1946 il professore Gedda era divenuto presidente. Nel gennaio 1947 ero nominato assistente centrale dell’Unione uomini di Azione cattolica. Era l’anno del XXV di fondazione dell’Unione. Si pensò subito ad una iniziativa che, nel clima già predominante di una lettura parziale della Resistenza e della Liberazione, ricordasse che in Italia, gli “uomini” che avevano contribuito in maniera decisiva alla “liberazione” e che intendevano partecipare decisamente alla salvaguardia della libertà appartenevano in gran numero alle file dell’Azione cattolica.
Con rispettoso anticipo fu manifestata al santo padre Pio XII l’intenzione di organizzare, per il settembre 1947 a Roma, un raduno degli Uomini di Azione cattolica. Il Santo Padre, attraverso una lettera del sostituto della Segretaria di Stato monsignor Domenico Tardini del 22 aprile 1947, confermò il suo compiacimento per l’iniziativa e, nel corso di un’udienza privata, assicurò che, per l’occasione, avrebbe lasciato Castel Gandolfo per essere presente alla manifestazione.
Il 7 settembre giunsero a Roma, con trenta treni speciali e migliaia di automezzi, 70mila Uomini di Azione cattolica e la cifra arrivò a 100mila con quelli di Roma e immediati dintorni. Furono tre giorni indimenticabili e Roma assistette sbigottita a quello che L’Osservatore Romano, con titolo a nove colonne in prima pagina, definì «il più grande raduno che la storia moderna ricordi».
La messa notturna alle Terme di Caracalla, presenti il presidente del Consiglio onorevole Alcide De Gasperi e molti ministri del governo; la grande adunata sul Palatino; l’ordinatissimo e interminabile corteo che attraversò la capitale; i tre “arcobaleni” che la sera della domenica 7 settembre, al termine del discorso del Papa in piazza San Pietro solcarono il cielo di Roma, parvero disegnare una realtà che, soltanto alcuni mesi prima, sarebbe parsa un sogno. L’onorevole Giuseppe Saragat, in pieno Parlamento, rispondendo ad insinuazioni tendenziose dei socialcomunisti che pretendevano attribuirsi il monopolio dei lavoratori, disse: «Fui presente, confuso tra la folla degli Uomini di Azione cattolica in piazza San Pietro e constatai che tra essi la maggioranza erano degli autentici lavoratori».
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Il raduno di Roma segnò un salto di qualità. Si avvicinava il giorno della pubblicazione della Costituzione italiana, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ma sarebbero state imminenti anche le elezioni politiche italiane che, a causa della creazione del Fronte democratico popolare, avrebbero potuto consegnare l’Italia al comunismo che cresceva all’ombra dell’ombrello sovietico che stava coprendo, da Oriente, l’Europa.
Usciva in Italia, per le edizioni Longanesi, il libro dell’alto funzionario sovietico Victor A. Kravchenko Ho scelto la libertà che, con riferimento all’anno 1944, e quindi in piena guerra, metteva in luce i crimini consumati dal comunismo sovietico. La pubblicazione, però, parve sommersa, in Italia, dallo scandalo Cippico, manipolato con ostinata virulenza per gettare ombre sulla Chiesa.
Non si rimase inerti. La consegna pontificia di passare all’azione fu presa doverosamente alla lettera. L’8 febbraio 1948, a meno di tre mesi dalle elezioni, nasceva ufficialmente il Comitato civico, con un compito immediato ed uno in prospettiva. Compito immediato quello di mobilitare gli italiani per vincere le imminenti elezioni politiche; compito in prospettiva adoperarsi per la soluzione dei gravissimi problemi di ordine economico (due milioni di disoccupati, crisi dell’agricoltura e dell’industria, dipendenza economica dell’Italia dall’estero), politico (insensibilità della maggioranza della popolazione di fronte alla rigorosa organizzazione dei partiti di ispirazione marxista) e morale (crisi dei valori tradizionali della famiglia, della scuola, della sanità ecc.) che affliggevano l’Italia.
Con straordinaria rapidità, dovuta particolarmente all’impegno degli Uomini di Azione cattolica, dal Comitato civico centrale scaturirono i Comitati civici zonali e, in quasi tutte le parrocchie, i Comitati civici locali che, da Roma, venivano guidati da direttive chiare e sicure, dotati di propaganda varia, preparata con riconosciuta professionalità in ordine alla sua capacità persuasiva. Chi, oggi, sorride su alcuni inevitabili eccessi di propaganda verbale o scritta, farebbe bene a dare un’occhiata alla propaganda avversa. Una cosa era chiara, comunque, che ad essere in gioco era la libertà. Guardare al 1948 soltanto nell’ottica del logo “Lepanto ’48” o della Madonna Pellegrina, che fu peraltro occasione di una popolarissima manifestazione di fede, è semplificazione, oltre che ingiuriosa, anche scarsamente intelligente a fronte della necessità e dell’urgenza di salvaguardare la libertà.
Il messaggio pasquale di Pio XII al popolo di Roma, venti giorni prima delle elezioni (28 marzo 1948) – subito tacciato come interferenza indebita dagli ambienti comunisti e anticlericali – non nascondeva, di fatto, una seria preoccupazione del Pontefice per l’esito della consultazione elettorale italiana. L’insistenza del Papa sul ricupero della “coscienza cristiana” era nella linea della vicenda elettorale che i Comitati civici stavano conducendo senza risparmio di forze. E a rileggere oggi quel messaggio, stupisce anche il realismo con cui il Pontefice, parlando della Chiesa, riconosce «le colpe di qualche suo membro degenere, che essa per prima deplora, riprova e severamente punisce».
L’esito delle elezioni fu quello noto e nessuno poté misconoscere – come si legge su La Civiltà Cattolica del 1° maggio 1948 – l’apporto decisivo dell’azione condotta dai Comitati civici nella schiacciante vittoria elettorale della Democrazia cristiana.
Conservo ancora come un grato ricordo l’orologio che, in segno di riconoscenza, l’onorevole Alcide De Gasperi volle inviare a me, come pure al professore Luigi Gedda. Sul retro l’orologio reca l’incisione: “18 aprile 1948”. Il dono era accompagnato da una importante lettera – 20 aprile 1948 – dell’onorevole Giulio Andreotti, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri.
Due giorni dopo il 18 aprile, Pio XII, ricevendo i rappresentanti di tre grandi agenzie di stampa, ebbe a dire senza mezzi termini parole che, lette a cinquanta anni di distanza, hanno un inconfondibile sapore profetico: «Voi» disse il Papa «avete testé assistito ad un avvenimento che resterà memorando negli annali della storia italiana. Un popolo intero ha dato prova del suo profondo senso di dovere civico, ed i cieli d’Italia sono più luminosi per la speranza di quella tranquillità dell’ordine, che renderà possibile e potrà affrettare la ricostruzione materiale e morale del Paese, così necessaria se la giustizia dev’essere fatta a tutti, specialmente ai lavoratori e ai disoccupati. Ma questo avvenimento ha altresì accresciuto la fiducia di tutta l’Europa, anzi, di tutto il mondo. Messaggi a Noi inviati da tutti i continenti Ci dicono come i nostri figli, concordemente e spontaneamente hanno rivolto in quest’ora decisiva una preghiera a Dio infinito, Reggitore di tutte le nazioni, per implorare il suo aiuto nella difesa della causa contro l’errore e l’ingiustizia. Similmente a Lui si volge il nostro cuore paterno, afflitto dalla vista di tanti che nel loro egoismo o nella loro cecità ostinatamente seguono quel sentiero che può condurre soltanto al disastro spirituale e materiale. Voglia Iddio, nella sua misericordia e nella sua carità, illuminare le loro menti, sì che possano vedere il loro errore. Voglia togliere dalla faccia della terra lo spettro della sfiducia o, ciò che è peggio, di un conflitto. Voglia Iddio – e riconoscessero umilmente gli uomini il suo desiderio di venir loro in aiuto! – voglia Iddio concedere che una generosa e fraterna cooperazione tra tutte le nazioni porti una vera pace e la faccia sicura e durevole».
Vi sono, dietro queste parole, le realtà tragiche della persecuzione contro la Chiesa nei Paesi orientali, la fine della libertà in Cecoslovacchia, l’intuizione anticipata delle reazioni addirittura scomposte di molti alti esponenti comunisti italiani subito dopo il risultato delle elezioni. Reazioni che misero in luce quale sarebbe stato il loro atteggiamento nei confronti della libertà religiosa se il risultato elettorale fosse riuscito a loro favore. Senza dire delle conseguenze sul piano politico nazionale e internazionale.
Chi, tuttavia, pensi all’impegno dei Comitati civici come ad una sorta di crociata cattolica impegnata in un muro contro muro, sbaglia, perché dimentica che le iniziative coraggiose incontrano difficoltà anche negli stessi ambienti in seno ai quali nascono e si sviluppano.
In realtà, non mancò, persino negli ambienti ecclesiastici, qualche paura e diffidenza e fu pure suggerito che, a elezioni concluse, i Comitati civici venissero sciolti. Si temeva che la loro attività contrastasse con la natura e i fini dell’Azione cattolica. Enfatizzando l’aggettivo “cattolica”, si tendeva a lasciare in ombra il sostantivo “azione”, che, a ben riflettere, è invece l’anima dell’apostolato dei laici.
Viene da pensare al rilievo che molti anni più tardi avrebbe fatto Giovanni Paolo II, scrivendo nell’enciclica Evangelium vitae che «troppo spesso i credenti, persino quando partecipano attivamente alla vita ecclesiale, cadono in una sorta di dissociazione tra la fede cristiana e le sue esigenze etiche... giungendo così al soggettivismo morale e a taluni comportamenti inaccettabili».
Il problema, comunque, non era quello della sopravvivenza o meno dei Comitati civici, quanto piuttosto quello del dovere di un serio e coraggioso impegno politico dei cattolici.
Lo comprese Pio XII che in un suo discorso del 3 maggio 1951, dopo aver affermato che «l’Azione cattolica non è chiamata ad essere una forza nel campo della politica di partito», aggiunse che «i cittadini cattolici, in quanto tali, possono ben unirsi in una associazione di attività politica»: associazione che, tuttavia, né poteva né doveva incrinare l’unità politica dei cattolici né cedere alla tentazione di un antagonismo concorrenziale nei confronti della Democrazia cristiana. E la prova dell’importanza di siffatto impegno si ebbe quando, alle elezioni amministrative di Roma del 1956, fu ancora una volta decisivo il contributo dell’associazionismo cattolico ad impedire che al Campidoglio si insediassero le sinistre.
Come lo stesso Pio XII aveva ricordato, era sua motivata e fermissima convinzione che la “missione di Roma” fosse, in senso spirituale e morale, quella definita da Tito Livio di “caput orbis terrarum” e non quella lamentata da Tacito come di “discarica di ogni iniquità”. La posta in giuoco di fondo restava la medesima: quella della difesa della libertà. E lo compresero, divenendone protagonisti intelligenti e coraggiosi, uomini politici cattolici, dei quali sarebbe lungo fare l’elenco completo, anche se, per la consuetudine tra noi intercorsa, ritengo doveroso ricordare protagonisti come Alcide De Gasperi e Giulio Andreotti, Guido Gonella e Aldo Moro, Attilio Piccioni e Amintore Fanfani, Giorgio La Pira e Giuseppe Dossetti e i sindacalisti Achille Grandi e Giulio Pastore: uomini che dell’azione politica fecero un autentico apostolato, ereditando direttive e indirizzi trasmessi dall’appartenenza all’Azione cattolica, alla Fuci, al Movimento laureati cattolici e alle Associazioni dei lavoratori cristiani.
La Provvidenza ha voluto che, nel mio ministero di sacerdote e di vescovo, sia stato vicino sia a Pio XII sia a Giovanni Paolo II. Guardando ai cinquanta anni che ci separano dal 18 aprile 1948, trovo una incredibile affinità tra i due Papi nella loro lotta contro il materialismo comunista come anche contro il capitalismo selvaggio e nel loro eroico impegno per la difesa e la promozione dei diritti umani fondamentali e, particolarmente, della libertà. Chi legga il discorso che Pio XII tenne il 13 giugno 1943, festa di Pentecoste, agli oltre 20mila operai convenuti da ogni parte d’Italia nel cortile del Belvedere per rendergli omaggio alla chiusura del suo giubileo, vi scopre una sensibilità preveggente che spiega perché egli sia, in assoluto, il più citato dai testi del Concilio Vaticano II e come il suo magistero abbia anticipato con inattesa chiarezza tutti i documenti pontifici successivi dedicati alla questione sociale.
Il 18 aprile 1948 fu soltanto una pagina dell’impegno di Pio XII e della Chiesa nel suo irrinunciabile dovere di difendere la libertà. Farne l’unica chiave di lettura è riduttivo, nel senso che quell’episodio, se così vogliamo chiamarlo, si iscrive nella globalità e integrità della missione perenne della Chiesa.
Gli Uomini di Azione cattolica, dopo aver assolto con generosità e coraggio questa missione il 18 aprile 1948, continuarono a battersi per la difesa della libertà, nella giustizia, offrendone un’ulteriore conferma, con l’iniziativa, attuata durante l’Anno Santo 1950, del pellegrinaggio a Roma di 30mila tra sindaci, assessori e consiglieri comunali provenienti da tutta Italia e due anni dopo, quando, per il trentennio della loro Unione, offrirono a Pio XII, vescovo di Roma, la chiesa di San Leone Magno, costruita in soli dieci mesi nel popolare quartiere Prenestino. Una chiesa e parrocchia dedicata al Papa che aveva fermato Eutiche, Attila e Genserico e che Pio XII volle personalmente inaugurare, consapevole della singolare affinità che lo associava al suo coraggioso predecessore. La prima pietra di quella chiesa era stata ricavata dalla roccia della Cima Grappa, simbolo del patrimonio civile e religioso della nostra patria e sollecitazione a mai dimenticare che la difesa della libertà non è soltanto un diritto della Chiesa, ma un suo irrinunciabile dovere.


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