Home > Archivio > 01 - 2003 > L’operare della grazia
PÉGUY
tratto dal n. 01 - 2003

L’operare della grazia


Nel settembre del 1908, Péguy era a letto ammalato e il suo amico Lotte lo va a visitare. Hanno parlato di tante cose, ... Ad un certo momento si alzò sul gomito, gli occhi pieni di lacrime: “Non ti ho detto tutto... ho ritrovato la fede... sono cattolico”»


a cura di Paolo Mattei


Immagni tratte dal film Pinocchio, di Roberto Benigni. La fatina bacia Pinocchio

Immagni tratte dal film Pinocchio, di Roberto Benigni. La fatina bacia Pinocchio

Si legge in un salmo: «Sono diventato estraneo ai miei fratelli». Péguy ha vissuto questa estraneità, questa estraneità alla cristianità del suo tempo e alla cristianità di oggi. Estraneità è la parola che il cardinale Danneels, presentando il volume Ciò che conta è lo stupore. Articoli e interviste su Charles Péguy, in una sala di Montecitorio, ha usato per suggerire chi è Péguy rispetto alla cristianità di inizio Novecento e alla cristianità di oggi. Péguy era e rimane estraneo fondamentalmente perché tutta la sua vita e la sua opera si potrebbero riassumere in una frase di don Giussani in un’intervista che L’Avvenire gli ha fatto alla vigilia dei suoi ottant’anni: «Tutto per me si è svolto nella più assoluta normalità e solo le cose che accadevano, mentre accadevano, suscitavano stupore, tanto era Dio a operarle facendo di esse la trama di una storia che mi accadeva – e mi accade – davanti agli occhi». Questo è il cuore di Péguy. Chi vive così non ha patria. Estraneo alla cristianità dell’inizio del secolo passato, e più estraneo ancora alla cristianità di oggi. Solo le cose che accadevano, mentre accadevano... Tanto è vero che Péguy definisce se stesso come un semplice cronachista, uno che fa la cronaca dell’accadere della grazia.
I primi suggerimenti per aiutare a leggere Véronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale sono dati dalla Presentazione di Antonio Debenedetti, redattore delle pagine culturali del Corriere della Sera, un laico non credente, profondo conoscitore della letteratura francese. Nella Presentazione di Debenedetti, due cose fondamentalmente colpiscono, in quanto colgono aspetti essenziali della vita e dell’opera di Péguy.
La prima è a pagina 5-6. Per spiegare l’eccezione che Péguy rappresenta rispetto al mondo cattolico (prima abbiamo parlato di estraneità), scrive: «Basti che a convertirlo, a dispetto della sua stessa vocazione analitica e del suo spirito inquieto, è stata la fede stessa e non la parola del clero». Che un non credente abbia intuito questo, è una cosa che desta meraviglia. È stata la fede stessa a convertire Péguy, è stato l’avvenimento stesso della fede, non la parola del clero. Non è stata la cultura cristiana a convertire Péguy, ma la fede stessa. Poi Debenedetti aggiunge una frase che non è vera, ma d’altra parte non si può chiedere a uno che non ha l’esperienza della fede di dire che cosa sia la fede stessa. Aggiunge: «Quella fede che non ha dimostrazioni migliori da offrire che il suo non aver dimostrazioni, che non ha argomenti più validi della sua assenza di argomenti!». Non è così. Proprio la fede stessa è la cosa più ragionevole, la fede stessa è la cosa che corrisponde al cuore. Tutte le dimostrazioni, tutti gli argomenti non conducono di per sé alla fede. Questo per Péguy era evidente. Ma la fede stessa quando accade, mentre accade, è la cosa più ragionevole. La fede stessa quando accade, mentre accade, illumina anche gli argomenti, rende evidenti anche le dimostrazioni. Non si diventa cristiani per gli argomenti, non si diventa cristiani per la cultura cristiana, si diventa cristiani per la fede stessa. Gratia facit fidem scrive san Tommaso D’Aquino: si diventa cristiani perché si è attratti dalla fede stessa. Non si diventa cristiani per un discorso, non si diventa cristiani per la teologia, non si diventa cristiani nemmeno perché si legge la Bibbia. Sono tutte occasioni per diventare cristiani. Come, per esempio, occasione umanissima per diventare cristiani può essere data dal fatto che uno si innamora di una ragazza cristiana, un’occasione molto più semplice e molto più vera delle altre. Soprattutto così il cristianesimo si è diffuso. E la fede stessa è la cosa più ragionevole di questo mondo e illumina di evidenza anche gli argomenti razionali che di per sé non destano il miracolo dell’adesione. Così sant’Agostino, seguendo umilmente l’apostolo Paolo, può dire che tutta la legge e la dottrina cristiana, senza la delectatio e la dilectio della grazia, senza l’attrattiva e l’affezione della grazia, è lettera che uccide.
La seconda cosa che Debenedetti evidenzia di Péguy è la sua sanità contrapposta a quello che Debenedetti chiama il masochismo della cultura imperante. Scrive: «Péguy è sano come un bicchiere di latte. Da troppe stagioni invece la cultura ci vizia, facendoci sentire il solletico del masochismo» (p. 14). E ancora: «Proprio questo è il punto. Péguy, che dice di essere e probabilmente è un peccatore, ha goduto troppo della salute che nasce dalla vicinanza con Dio. Ed è proprio quanto l’oggi non può perdonargli e, di fatto, non gli perdona» (p. 13). Perché è sano Péguy? Perché, quindi, è estraneo alla cultura egemone masochista? Perché Péguy testimonia (e sono le uniche frasi che Debenedetti cita di Péguy) che la fede è semplice, la cosa più semplice di questo mondo. Perché Péguy dice che la carità è la cosa che più corrisponde al cuore. Perché Péguy ripete che per sperare bisogna essere tanto contenti, bisogna aver ricevuto una grazia grande. «Ecco il punto. Il nostro tempo non è più attrezzato a intendere parole come queste di Péguy: “Per sperare bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia”» (p. 14). E ancora: «Per non amare il prossimo, bisognerebbe farsi violenza, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi... La carità è tutta naturale [naturale vuol dire che corrisponde al cuore], tutta zampillante, tutta semplice, tutta buona. È il primo movimento del cuore» (p. 8). E di nuovo: «La fede va da sé. La fede cammina da sola. Per credere c’è solo da lasciarsi andare, c’è solo da guardare. Per non credere bisogna farsi violenza, torturarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Prendersi al rovescio, mettersi al rovescio, riprendersi. La fede è tutta naturale, tutta alla buona, tutta semplice...» (p. 13). Perché la fede è tutta semplice? Perché è la Sua presenza che gratuitamente si fa riconoscere. Gratia facit fidem. E questo riconoscimento, essendo frutto di attrattiva, quando accade, è la cosa più naturale di questo mondo. L’attrattiva Gesù. Quando Giovanni e Andrea, i primi due, lo hanno incontrato, quel pomeriggio, il riconoscere l’eccezionalità di quella presenza, l’umanità di quella presenza, è stata la cosa più semplice, più naturale di questo mondo. Péguy è sano come un bicchiere di latte, e proprio per questo estraneo alla cultura anche cattolica, perché dice che il cristianesimo è una cosa semplice. Facile. Questa parola scandalizzava i chierici dell’inizio del secolo scorso e scandalizza soprattutto i chierici di oggi. Il cristianesimo, essendo frutto di grazia, quando accade, non può che essere facile. Omnia fiunt facilia caritati. Così sant’Agostino. La Sua presenza e la Sua attrattiva rendono tutto facile. Così Agostino può dire che questa è la prima differenza tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Agostino constata che nel passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento sono mutati i segni della presenza del Signore. Facta sunt faciliora. Sono diventati più facili. Questa è la prima caratteristica del cristianesimo. Poi aggiunge pauciora, più pochi. E conclude feliciora, più felici. Così che, come accenna san Cirillo di Gerusalemme, la fede è raccolta tutta nelle poche espressioni del Credo. Infatti nel Credo è raccolta tutta la dottrina dell’Antico e Nuovo Testamento. Come per Péguy. Tutta la sua fede è raccolta «nel catechismo della parrocchia natale, quello dei bambini piccoli». Non solo facili e poche le cose da riconoscere, ma pochissimi e facilissimi i sacramenti che comunicano la grazia. E la Sua grazia rende possibile, leggera e soave anche la pratica dei comandamenti abbracciando e sostenendo la nostra libertà. «A Te si stringe l’anima mia e la forza della tua destra mi sostiene». Ancora Agostino, in una lettera di risposta ad alcune domande che gli vengono poste circa la celebrazione della liturgia e la pratica del digiuno, dice che innanzitutto bisogna tenere per fede, come criterio del vivere cristiano, che nostro Signore Gesù Cristo ha detto: «Il mio giogo è leggero e il mio carico è soave».
Geppetto e Pinocchio

Geppetto e Pinocchio

Per questo l’esperienza di Péguy, povero peccatore, ma con i tesori della grazia di Dio, come lui stesso dice di sé, è estranea, o meglio imparagonabile, rispetto alla cultura imperante. Perché, essendo imperante la gnosi nelle sue perversioni, la cultura quanto più promette, a livello pubblicitario, felicità e paradisi sulla terra, tanto più diabolicamente predica che è difficile proprio quella grazia, l’attrattiva Gesù, che fa meritare il paradiso nell’aldilà e ne dona già nell’aldiquà esperienza di stupore, precario sì, ma reale. Le circostanze della vita possono essere e tante volte sono difficili. Gementi e piangenti in questa valle di lacrime. Ogni giorno ripetiamo queste parole. È la Sua presenza, la Sua attrattiva che fa passare le lacrime provocate dal dolore in lacrime di gratitudine. Anche perché, se non si trasfigurano in lacrime di gratitudine, come capita ai bambini, il volto e il cuore si irrigidiscono quasi subito in una maschera.
Una sanità umana quella di Péguy per cui l’ideale è la facilità, la semplicità, l’ideale è la felicità, ciò che allieta il cuore. Non il masochismo. Questa cosa rende Péguy così estraneo soprattutto alla cristianità di oggi.
Proprio per questa sanità umana, affermare che il cristianesimo di Péguy è un cristianesimo spesso urlato (p. 7), non sembra cogliere la dinamica stessa del suo ritrovarsi cattolico. Nel settembre del 1908, Péguy era a letto ammalato e il suo amico Lotte lo va a visitare. Hanno parlato di tante cose, soprattutto di quella rivista che Péguy da più di un decennio editava. «Mi ha parlato del suo sconforto, della sua fame di riposo; una classe piccola dove insegnare filosofia, in qualche liceo lontano, vicino a me, in provincia: avrebbe potuto esprimere tutto quello che aveva dentro senza scontri, senza traversie, senza angosce... Ad un certo momento si alzò sul gomito, gli occhi pieni di lacrime: “Non ti ho detto tutto... ho ritrovato la fede... sono cattolico”». Una cosa meno urlata di questa, più umana di questa, è come impossibile: «... gli occhi pieni di lacrime: “Non ti ho detto tutto... ho ritrovato la fede... sono cattolico”».
Ora accenniamo ai tre contenuti propri di Véronique. Dialogo della storia e dell’anima carnale.
«Tutto ciò che sta al centro è questo. Il coinvolgimento del temporale nell’eterno e dell’eterno nel temporale. Tolto questo coinvolgimento non c’è più niente. Non c’è più un mondo da salvare. Non ci sono più anime da salvare. Non c’è più alcun cristianesimo. Resta spostato anche lui, smontato dalla sua stessa tecnica, da tutto quello che costituisce la sua tecnica propria. Non c’è più né tentazione, né salvezza, né prova, né passaggio, né tempo, né niente...
1. La prima cosa che Péguy descrive è ciò che chiama la novità in qualche modo imparagonabile a ogni altro fenomeno accaduto nella storia: «...un mondo prospero, senza Gesù, tutta una società prospera, senza Gesù, tutta una società, e una società prospera, senza Gesù; un mondo, una società prosperi, incristiani dopo Gesù. Ecco, mio povero piccolo, cosa bisogna guardare. Ecco cosa bisogna riconoscere...» (p. 158). Un mondo prospero. Non disperato. Prospero. Senza Gesù. Questo è il mondo moderno: un mondo prospero. Una società prospera. Che sta bene. Senza Gesù, dopo Gesù. Non era mai successo. Vi era stata evidentemente una società, un mondo senza Gesù, prima di Gesù. Ora invece si tratta di una società prospera, un mondo prospero senza Gesù, dopo Gesù. Prospero. Questo è l’aggettivo che usa Péguy quando parla del mondo moderno. Proprio perché non porta rancore contro il mondo. I chierici, dice, portano rancore. Péguy non ha rancore. Guarda le cose così come sono. «Ecco cosa bisogna riconoscere. Ecco cosa basta leggere, ciò che solo bisogna leggere sul libro dei fatti. Ecco allora cosa non vedranno i preti, quello che si rifiuteranno di vedere; ecco cosa non diranno i preti; ecco cosa negheranno, che i chierici negheranno ostinatamente; ecco cosa disconosceranno tanti cattolici con loro, quel che tutti i cattolici, con loro, dopo di loro, negheranno e disconosceranno. Ostinatamente, non meno ostinatamente di loro» (p. 148). Ciò che più si avvicina a questa descrizione di Péguy («C’è che il mondo moderno è un mondo incristiano e che è perfettamente riuscito a fare meno del cristianesimo», p. 179) è una frase di Ratzinger quando afferma che l’uomo di oggi è uno per cui il cristianesimo è un passato che non lo riguarda. Non un passato da rinnegare, non un passato da contestare. Un passato che non lo riguarda. Né da criticare, né da odiare. Non lo riguarda. «Ma quando si parla di (della) scristianizzazione, quando si dice che c’è un mondo moderno e che è perfettamente scristianizzato, totalmente incristiano, si vuol dire esattamente che ha rinunciato a tutto il sistema, nel suo insieme, che si muove interamente fuori dal sistema: la rinuncia di tutti a tutto il cristianesimo. E la costituzione di un altro sistema tutto diverso, infinitamente diverso, nuovo, libero, interamente, assolutamente indipendente» (p. 148). «Quando i cattolici saranno disposti a vederlo, a misurarlo, solo ad accorgersene, quando saranno disposti a riconoscerlo, e ad accorgersi da dove viene, quando avranno, loro, rinunciato a quella viltà di diagnosi, allora, ma solo allora potranno forse fare qualcosa di utile, allora, ma solo allora non saranno più inerti, e fuori centro anche loro; e ne parleranno, forse, se ne potrà parlare» (p. 148). Questa viltà di diagnosi provoca quello che don Giussani chiama «l’errore fondamentale» della tentata risposta cattolica al mondo moderno e cioè quello di pretendere di vincere la cultura del mondo con la cultura cristiana. Un’assenza di relazioni può essere vinta solo da qualcosa che viene prima di ogni cultura.
Péguy più volte ripete che lo scomunicato, invece, ha relazione con il cristianesimo, che il peccatore e il santo fanno parte dello stesso sistema. E persino che la perdizione eterna ha un posto nel sistema cristiano. E dispiace che Von Balthasar, così preoccupato di affermare che il problema fondamentale di Péguy è l’inferno, non l’abbia evidenziato. Ci sono pagine di Véronique in cui Péguy dice che nel sistema cristiano anche la perdizione eterna ha il suo posto. La perdizione di un solo uomo, che un solo uomo si perda, è «un problema di angoscia infinita», eppure nel cristianesimo, «nel popolo cristiano», la perdizione stessa «sappiamo dove collocare» (pp. 164-166).
Pinocchio si imbatte negli assassini

Pinocchio si imbatte negli assassini

2. Come è sorto questo mondo senza Gesù, dopo Gesù? Péguy non accusa il mondo. Anzi dice che il disastro viene tutto e solo dai chierici (p. 96). Ma perché è sorto questo mondo che non ha relazioni col cristianesimo? «Per un errore di mistica. Infinitamente grave. Vicinissimo al cuore, il più vicino possibile al cuore del cristianesimo» (p. 162). E come per Giovanni, il discepolo prediletto, l’anticristo è colui che nega che Gesù è venuto nella carne, identicamente, per Péguy «la più grande eresia» è negare «quell’incontro meraviglioso, unico, del temporale nell’eterno, e reciprocamente dell’eterno nel temporale, del divino nell’umano e mutuamente dell’umano nel divino» (p. 127). Proprio «ciò che sta al cuore stesso del cristianesimo, quell’incastro tutto speciale di un pezzo nell’altro, così incredibile, se non si sapesse, quel singolare, quell’inverosimile incastro, quell’incastro rigoroso, esatto [esatto è uno dei termini più cari a Péguy. Esatto lo potremmo tradurre con “pienamente ragionevole”, “pienamente corrispondente alle esigenze del cuore dell’uomo”], straordinario di un pezzo nell’altro. Disfatto l’incastro, o dato per presupposto, tutto cade» (p. 126). «Hanno negato proprio quello che è davvero al cuore, quello che è proprio del cristianesimo» (p. 126). «Tutto ciò che sta al centro è questo. Il coinvolgimento del temporale nell’eterno e dell’eterno nel temporale. Tolto questo coinvolgimento non c’è più niente. Non c’è più un mondo da salvare. Non ci sono più anime da salvare. Non c’è più alcun cristianesimo. Resta spostato anche lui, smontato dalla sua stessa tecnica, da tutto quello che costituisce la sua tecnica propria: Non c’è più né tentazione, né salvezza, né prova, né passaggio, né tempo, né niente. Non c’è più né redenzione, né incarnazione, e neanche creazione. Non ci sono più né Ebrei né Cristiani. Non ci sono più le promesse, né mantenere le promesse, compiere le promesse, le promesse mantenute. Non c’è più né cristianesimo, non c’è più niente. Non ci sono più antecedenze né fatti, i compimenti e i coronamenti. Non c’è più l’operare della grazia. [L’operare della grazia: l’operare della grazia nel tempo, l’operare della grazia nella carne, così che il suo effetto è visibile nell’umano]. Non ci sono più le promesse e i compimenti, il lento disporsi lungo il tempo, lungo la storia, l’incamminarsi e il raggiungere, l’ottenere. Le antecedenze, le precedenze e l’accompagnare. La lunga stirpe, la stirpe lineare dei profeti, la lunga linea delle profezie, stirpe temporale, stirpe di un popolo, stirpe spirituale. E la linea comune, la linea plurale dei santi, di Gesù primo dei santi, di Gesù e degli altri santi. Cade tutto, non c’è più né cristianesimo né niente. Non c’è più quella storia meravigliosa, unica, straordinaria, inverosimile [quella storia particolare dentro la storia del mondo], eterna temporale eterna, divina umana divina, quel punto di intersezione, quell’incontro meraviglioso, unico, del temporale nell’eterno, e reciprocamente dell’eterno nel temporale, del divino nell’umano e mutuamente dell’umano nel divino. Non c’è più il cristianesimo, non c’è più quella meravigliosa concatenazione, unica (al mondo). Non c’è più la caduta e la redenzione [Con un’idea teologica, hanno tolto di mezzo il peccato originale. È un incontro reale nel tempo che redime dal peccato originale, non un’idea a priori, l’idea Christi]. Non c’è più la caduta e la redenzione, quei due pezzi speciali incastrati così perfettamente l’uno all’altro in tutto l’incastro totale».
...Non c’è più né redenzione, né incarnazione, e neanche creazione. Non ci sono più né Ebrei né Cristiani. Non ci sono più le promesse, né mantenere le promesse, compiere le promesse, le promesse mantenute. Non c’è più né cristianesimo, non c’è più niente. Non ci sono più antecedenze né fatti, i compimenti e i coronamenti. Non c’è più l’operare della grazia»
3. Che cosa rimane? Se il mondo moderno non ha rapporti reali col cristianesimo, perché è stato commesso questo errore di mistica, perché cioè non si riconosce l’operare della grazia, l’operare della grazia nella carne, l’operare della grazia nel tempo, l’eterno che si riflette nella carne, l’eterno che si riflette nel tempo, che cosa rimane? Qui Péguy è veramente geniale e possiamo dire profetico. Rimane una mistica. Una mistica contro la mistica cristiana. Come alternativa non rimane l’ateismo, non rimane l’edonismo. Queste non sono cose particolarmente pericolose. Rimane una mistica. Una mistica contro la mistica cristiana. Questa è l’intuizione più attuale di Péguy. Non rimane come pericolo un naturalismo. Rimane il soprannaturalismo. Il primo nega; il secondo snatura dall’interno. «E poi noi ci muoviamo continuamente tra due bande di preti: i preti laici e i preti ecclesiastici, i preti clericali anticlericali e i preti clericali clericali. I preti laici che negano l’eterno del temporale, che vogliono disfare, smontare l’eterno del temporale, quello che sta dentro il temporale; e i preti ecclesiastici che negano il temporale dell’eterno, che vogliono disfare, smontare il temporale dell’eterno, quello che sta dentro l’eterno, e gli uni e gli altri non sono affatto cristiani, perché la tecnica del cristianesimo, la tecnica e il meccanismo della sua mistica, della mistica cristiana è questa...» (p. 120). Il proprio del cristianesimo è questo: l’Eterno, rimanendo eterno, ha iniziato a esistere nel tempo. Ante tempora manens esse coepit ex tempore. Così san Leone Magno, il papa del quarto Concilio ecumenico della Chiesa, quello di Calcedonia nel 451.
Pinocchio e Lucignolo

Pinocchio e Lucignolo

L’idealismo usa le stesse parole cristiane, ma non sono l’indicazione di avvenimenti reali. L’idealismo può dire anche Verbum caro, ma non riconosce Verbum caro factum est. Il Verbo si è fatto carne. È accaduto. Un avvenimento nel tempo. Anche il grande vate polacco Adam Mickiewicz parla di «Dio carne, Vergine madre». È che è accaduto, è accaduto in un preciso momento di tempo che Dio si è fatto carne nel ventre di una donna di nome Maria. Se si toglie l’accadimento nel tempo, in un preciso momento del tempo, Gesù Cristo non sarebbe vero uomo. Sarebbe il “Dio carne” dall’eternità, «il Verbo ab initio incarnato» della grande eresia gnostica. Per l’idealismo, il dualismo spirito e carne è nell’Infinito dall’eternità, dall’eternità nell’Infinito è il dualismo bene e male, secondo l’espressione sintetica di Hegel quando scrive «dell’origine del male in Dio e da Dio».
Continua Péguy: «Perché la mistica stessa del cristianesimo è questa: è il coinvolgimento di un pezzo di meccanismo nell’altro, è un incastro di due pezzi, quel coinvolgimento speciale, unico, reciproco, indefettibile, non smontabile; dell’uno nell’altro e dell’altro nell’uno; del temporale nell’eterno, e (ma soprattutto, cosa più spesso negata), (cosa che è in effetti la più meravigliosa) dell’eterno nel temporale, nel tempo» (p. 120). E aggiunge: «Chi nega l’eterno può solo cadere in una specie di materialismo. Non è un grandissimo pericolo. È inoffensivo per la sua rozzezza» (cfr. pp. 120-121). «Completamente diversa è invece la mistica contraria. La mistica, quella che nega, quella che nega il temporale dell’eterno, quella che vuole disfare, togliere, smontare il temporale dall’eterno, è come più specificatamente anticristiana, cade dentro o sale verso, sale dentro, poco importa, giunge a, giunge dentro, è lo stesso, è una mistica per così dire più specificatamente anticristiana. Proprio ciò che sta al cuore del cristianesimo, della fondazione, dell’istituzione cristiana, proprio ciò che è il fondamento, il meccanismo, la tecnica centrale del cristianesimo, proprio ciò che è solo del cristianesimo» (p. 121). Questa mistica seduce «gli animi insomma propriamente mistici» (p. 123). «Così si giunge a quei vani spiritualismi, idealismi, immaterialismi, religiosismi, panteismi, filosofismi, così pericolosi perché non sono rozzi... si cade dentro quelle vaghe mistiche spiritualiste, idealiste, immaterialiste, religiosiste, filosofiste, così seducenti. Là, allora, c’è concorrenza. E c’è peccato e dispersione» (p. 122). Questi non negano. Snaturano. Questa è stata la grande intuizione di papa Pio XII nell’enciclica Humani generis quando accenna a «coloro che snaturano il concetto di gratuità dell’ordine soprannaturale». Non si nega l’incarnazione. Se ne snatura il concetto. Non se ne rispetta umilmente il mistero.



Español English Français Deutsch Português