Home > Archivio > 02/03 - 2008 > La Chiesa ai tempi di Raúl
REPORTAGE DA CUBA
tratto dal n. 02/03 - 2008

La Chiesa ai tempi di Raúl


Dal 24 febbraio Raúl Castro è il nuovo presidente di Cuba. Per l’isola si apre una stagione nuova. Anche per la Chiesa


di Davide Malacaria


Fidel Castro con il fratello Raúl

Fidel Castro con il fratello Raúl

E così, un mondo finisce. Dopo quasi cinquant’anni, Fidel Castro ha lasciato. Lo ha fatto a modo suo, attraverso una lettera affidata a Granma, il giornale del Partito. Una missiva che chiude un’epoca e apre nuove prospettive per questa isola caraibica, tanto piccola geograficamente quanto importante nella geopolitica mondiale. Al suo posto, il 24 febbraio, è stato eletto il fratello Raúl, cui fin dal 2006, data in cui la salute di Fidel ha iniziato a essere compromessa, erano state affidate le sorti del Paese. Più giovane del fratello, Raúl ha fatto più volte intendere di voler dare corso a una stagione di riforme. Nel suo ultimo discorso della precedente legislatura (28 dicembre) aveva affermato: «Siamo d’accordo con quanti ci hanno messo in guardia circa l’eccesso di divieti e di misure legali, che causano più danni che benefici. Possiamo dire che la maggior parte di questi furono corretti e giusti nel momento in cui furono decisi, però molti sono stati superati dalla vita e dietro ogni divieto sbagliato si celano un buon numero di illegalità». Una frase riecheggiata nel suo primo discorso da presidente. Né, in questi anni, il nuovo presidente ha fatto mancare aperture al mondo occidentale, compresi gli Stati Uniti, nemici storici della piccola isola. La Chiesa cubana si trova così ad affrontare una stagione nuova, improntata, presumibilmente, a un socialismo riformista le cui caratteristiche sono ancora ignote agli stessi dirigenti del Partito, stante che qualsiasi modello verrà adottato dovrà fare i conti con una realtà, nazionale e internazionale, complessa.
«Non sappiamo come evolveranno le cose», dice monsignor Carlos Manuel de Céspedes, vicario generale dell’Avana e profondo conoscitore delle cose cubane. «Nel ’60, con la rivoluzione, l’isola ha già conosciuto un profondo cambiamento... La mia speranza è che in questo ulteriore cambiamento non ci sia spazio per la violenza. Raúl è una persona molto pragmatica e di buona volontà. Ho una simpatia personale per lui. Lo affiancano uomini che, pur avendo fatto parte del regime, hanno un altro atteggiamento e un’altra visione delle cose. Credo che sotto la loro guida la situazione di Cuba potrà migliorare sia dal punto di vista economico sia da quello politico. Ma questo rinnovamento avverrà gradualmente, senza strappi. Tra queste novità credo che ci sia spazio per una presenza più positiva della Chiesa, affinché possa vivere e agire come un lievito in mezzo alla società e al popolo cubano». Ma, raccomanda monsignor de Céspedes, non si deve urgere, pretendere che tutto cambi subito, pena il disastro.
«Il presidente Raúl Castro ha detto più volte che si possono avanzare osservazioni critiche: un’affermazione che consideriamo molto positiva», dice monsignor Juan García Rodríguez, arcivescovo di Camagüey e presidente della Conferenza episcopale cubana: «L’unico modo per correggere le situazioni è sapere cosa va male. Come Chiesa, quel che chiediamo al governo è maggior spazio nei mezzi di comunicazione. Oggi la televisione diffonde la Via Crucis del Papa, e altri eventi legati alla figura del Pontefice, ma non offre che spazi limitati alla Chiesa locale. Ogni vescovo ha la possibilità di intervenire sui mass media in occasione di festività importanti, ma è auspicabile un accesso più facile. Inoltre la Chiesa lamenta la mancanza di edifici di culto nelle zone periferiche e di nuova costruzione, perché non è stata finora concessa l’autorizzazione a costruire. Un’altra questione sulla quale bisogna fare passi in avanti è la pastorale carceraria. Dagli anni Novanta è stato concesso ai sacerdoti di visitare i carcerati, previa richiesta di questi ultimi. Ma ci auguriamo che si possano svolgere celebrazioni comunitarie, almeno in occasione di festività importanti. Al momento in alcune diocesi, e in alcune carceri, questo è consentito, in altre no...». In realtà, quel che le parole del presule sottendono, ci spiega padre Noël, sacerdote che si occupa della pastorale dei carcerati, è che tutto passa attraverso i rapporti personali, e che, spesso, questi sono più importanti delle pastoie burocratiche. Resta che la possibilità di visitare i carcerati, introdotta agli inizi degli anni Novanta, è stato uno degli indicatori che qualcosa, nei rapporti tra regime e Chiesa, stava cambiando. Padre Noël ci conduce alla Virgen de la Mercedes, forse il santuario più caro ai fedeli della capitale, situato nel cuore dell’Avana vecchia. Qui una grande sala è stata destinata ai poveri, in particolare gli anziani, ai quali viene dato da mangiare. Vi entriamo che dei volontari stanno ripulendo, mentre altri si affaccendano nelle contigue cucine da cui provengono aromi invitanti. Ci dettagliano quel poco che possono fare per far fronte ai tanti derelitti che affollano questo angolo di città. Poco, certo, ma la carità ha misure che non corrispondono alle nostre...
Anche monsignor Juan de Dios Hernández Ruiz, vescovo ausiliare e vicario generale dell’Avana, oltre che segretario della Conferenza episcopale cubana, racconta delle speranze e dei cambiamenti in corso sull’isola. Ma, avverte, il Vangelo è e resterà sempre pietra di scandalo, qui come nel resto del mondo: «Il mistero della Chiesa si rivela solo attraverso la fede. Ma questo mistero noi lo rendiamo visibile attraverso le opere, in particolare quelle che danno un contribuito alla dignità dell’uomo. Per questo la Chiesa deve avere lo spazio necessario perché la sua missione evangelizzatrice arrivi a tutta la società». Nello specifico, anche lui sottolinea l’urgenza di poter edificare chiese. Ma questo, aggiunge, è oggetto di una trattativa già intrapresa con il regime. Trattativa che concerne, del resto, anche altre richieste della Chiesa cattolica. «Credo che, alla fine, tanti problemi potranno essere superati», afferma, «anche perché, allo stato attuale, non ci sono grandi limitazioni all’azione della Chiesa, quanto piuttosto difficoltà che nascono da atteggiamenti e posizioni che sono il retaggio di un passato difficile. Saranno i fatti, più delle parole, che lentamente renderanno più facili i rapporti».
Già, un passato difficile quello dei rapporti tra Chiesa e regime. Fatto di restrizioni e asperità.

Una storia complessa
«La Chiesa cubana non nasce in contrapposizione alla modernità, anzi», spiega Carlos Manuel de Céspedes, che è anche membro del Pontificio Consiglio della Cultura. «L’Illuminismo arrivò sull’isola tramite la Spagna, dove il maggior esponente di questa corrente di pensiero fu un sacerdote, padre Benito Jerónimo Feijoo. E questo a fronte di uno Stato spagnolo che, all’inverso, appariva conservatore. Lo stesso padre Félix Varela, considerato il padre della patria cubana, era un illuminista. Per questo i moti d’indipendenza cubana, di cui furono protagonisti gruppi formatisi nell’Illuminismo umanista, non erano affatto avversi alla Chiesa». L’indipendenza, conquistata dopo l’intervento degli Stati Uniti e la cosiddetta guerra ispano-americana (1898), pose il Paese nell’orbita statunitense, aggiunge monsignor de Céspedes, che rivela un particolare poco noto: l’unico Stato a chiedere, invano, che i cubani fossero invitati alle trattative di pace dalle quali erano stati esclusi fu la Santa Sede. Gli indipendentisti cubani, dal canto loro, festeggiarono la vittoria presso il santuario della Virgen de la Caridad del Cobre, patrona di Cuba... «La Costituzione della nuova nazione, di stampo liberale, anche se non dichiaratamente anticattolica, era sicuramente poco favorevole alla Chiesa. Fu un periodo difficile», continua il monsignore. Poi, spiega, con il passare degli anni, i rapporti tra Stato e Chiesa andarono ad appianarsi. Ma non durò molto.
È il 1959 quando la rivoluzione dei barbudos ha inizio. «In un primo momento la Chiesa guardò con simpatia al movimento rivoluzionario», spiega monsignor Hernández Ruiz: «Molti cattolici presero parte al conflitto e diversi sacerdoti accompagnarono i guerriglieri. D’altronde il regime di Fulgencio Batista era davvero inaccettabile... Anche la riforma agraria, uno dei primi provvedimenti del nuovo regime, fu vista con estremo favore. Poi le cose cambiarono». i 131 sacerdoti. Sull’isola ne rimasero solo duecento. Stessa sorte toccò ai religiosi e alle religiose. Dei tanti Ordini presenti a Cuba non ne rimasero che poche decine. La rivoluzione era giovane e anche Fidel lo era, spiega monsignor Hernández Ruiz: «E questo ha avuto un costo». Anni difficili per la Chiesa. Ma non sanguinari. Alcuni sacerdoti conobbero le fatiche dei campi di rieducazione, previsti per i reati minori, mentre al carcere vero e proprio fu destinato un solo religioso, il frate francescano Miguel Angel Loredo. In generale, però, venivano contestati loro reati comuni, non la confessione religiosa. Padre Loredo, in particolare, fu condannato perché accusato di aver protetto un profugo. «Lo ricordo bene», rammenta monsignor de Céspedes, «eravamo amici. Fu vittima di una macchinazione. Un caso doloroso... È vero anche, purtroppo, d’altra parte, che alcuni cattolici, nel tentativo di ribellarsi al regime, usarono in modo arbitrario del cristianesimo. Comunque, nonostante le difficoltà, le cose andarono avanti. Quando cadde l’Impero romano c’era chi pensava che fosse finito tutto. Sant’Agostino non lo pensava affatto, anzi spiegava che le cose del mondo avrebbero continuato il loro corso... Non si trattava di cercare un confronto con il regime, ché quella via avrebbe comportato solo disastri, ma vie di dialogo. E questo non poteva passare che attraverso i rapporti personali. D’altronde con molti di quelli che erano al governo si era studiato insieme da giovani. C’era un legame che esulava dai ruoli. Ricordo una discussione accesa tra me e uno di questi che era venuto a trovarmi, di sera. A un certo punto gli dissi: “Aspetta, forse è il caso di fermarci, andare di là e prendere un bicchiere di vino...”. Tutto passava attraverso le relazioni personali. È il modo più umano per rapportarsi, l’unico modo umano». Per monsignor Hernández Ruiz, in quegli anni la posizione della Chiesa fu caratterizzata da una chiusura, da una posizione difensiva. «Fu con l’incontro ecclesiale del 1986, risultato di cinque anni di riflessione della Chiesa cubana, che quell’atteggiamento finalmente mutò. Dopo quell’incontro la Chiesa prese coscienza che era chiamata a uscire da quella posizione di chiusura e a riprendere la sua missione evangelizzatrice. E che doveva imparare a convivere con uno Stato socialista. Fu un passo importante, perché anche lo Stato da quel momento iniziò a capire che non doveva aver paura della Chiesa».
«Eppure quegli anni non furono solo buio», rammenta monsignor de Céspedes con una punta di nostalgia: «Ricordo la fedeltà dei cristiani che sono rimasti e che hanno attraversato con la loro fede gioiosa tutte queste esperienze... Negli anni Sessanta ero parroco di tre chiese fuori città. E ricordo bene l’atmosfera di festa, di gioia. Vivevamo nella gioia della fede, senza lamentarci troppo...».

Fidel Castro e papa  Woytjla

Fidel Castro e papa Woytjla

La visita del Papa
Dopo il crollo del Muro di Berlino il regime si ritrova libero dall’abbraccio soffocante di Mosca, ma, allo stesso tempo, vede venir meno il più grande sostegno all’economia nazionale. Inizia una crisi drammatica, cui va a sommarsi l’inasprimento dell’embargo economico da parte degli Stati Uniti (1992, la cosiddetta “Legge Torricelli”). Da Cuba si risponde dando vita al cosiddetto “periodo speciale”: viene instaurato un regime monetario a doppia circolazione (una moneta per i prodotti più essenziali e l’altra per beni meno necessari o provenienti dall’estero), viene valorizzato al massimo il turismo, anche con l’apporto di imprese straniere, sono create delle catene di commercio statali per drenare valuta nelle esauste casse dello Stato e viene concessa ai cittadini la possibilità di creare delle piccole attività private. Novità niente affatto insignificanti per un regime comunista. Ma la povertà dilaga.
È in questa temperie che, nel gennaio del 1998, arriva Giovanni Paolo II. Di quella visita si ricorda la grande processione – laddove le processioni, a Cuba, in precedenza, erano un evento straordinario –, la messa nella piazza della Rivoluzione, i saluti più che cordiali tra Fidel e Wojtyla, il Papa che condanna senza riserve l’embargo... E altro. Monsignor Ramón Suárez Polcari, vicario generale dell’Avana, che ebbe il compito di organizzare quella visita, rammenta: «Fu un momento davvero straordinario. Ma credo vada sottolineato che già la sola organizzazione della visita fu un fatto storico. Per la prima volta la Chiesa cubana e lo Stato cubano dovevano fare una cosa insieme. Non solo: lo Stato si vide costretto a interagire con la stessa Santa Sede. S’instaurò una collaborazione prima impensabile che aprì una nuova stagione per la Chiesa cubana».
Quella visita segna una stagione nuova nei rapporti tra regime e Chiesa cattolica. Alla quale contribuisce anche un nuovo atteggiamento del Líder máximo che, fanno notare in tanti, con l’avanzare dell’età, sembra smussare certe asperità. «In una cena, cui ero stato invitato insieme ad altri vescovi», racconta monsignor de Céspedes, «il presidente raccontò che in vita sua aveva incontrato due santi: papa Giovanni Paolo II e Madre Teresa...». E il presule ci racconta della visita di Madre Teresa a Cuba. Ore e ore a parlare con Fidel in una stanza. Quando uscirono, rammenta, Fidel disse alla sua ospite: «Lei può venire qui anche con mille suore». E l’altra, sorridendo: «Ma mille suore non le ho...». Quando si dice rapporti personali... Come quello preferenziale tra il presidente e suor Tekla Famiglietti, la superiora delle suore Brigidine (ordine del Santissimo Salvatore di Santa Brigida) alle quali è stato donato, ristrutturato, un convento nel pieno centro dell’Avana.

Un nuovo presidente
È un vento di novità che attraversa anche il Partito comunista. Pur se mai vietato esplicitamente, per un membro del Partito professare apertamente la fede cattolica era impossibile. Da qualche anno, invece, non c’è incompatibilità tra le due cose. «So che ci sono persone del Partito che praticano la fede cattolica», afferma monsignor García Rodríguez, «e non solo: ci sono tra di loro anche catechisti e missionari... È una cosa nuova». Come nuova è la forte espansione delle “case di preghiera”, o “case di missione”. Abitazioni private dove i cristiani si riuniscono a pregare. Continua monsignor García Rodríguez: «Sono nate già da molti anni, nei quartieri dove mancano le chiese, in periferia o in zone importanti della città. Qualcuno mette a disposizione la propria casa perché la gente possa ritrovarsi a pregare. I bambini vi fanno catechismo, gli adulti il catecumenato per ricevere i sacramenti. A volte vi si celebra la messa. Un tempo, benché non sia mai stato vietato, c’erano delle difficoltà a riunirsi in casa: controlli continui, lamentele dei funzionari dello Stato. Ora, invece, non c’è alcun problema».
Attorno alla parrocchia de la Medalla Milagrosa, molto attiva nel campo sociale, ce ne sono parecchie di case di preghiera. Carmen, una delle catechiste della parrocchia, ci guida in quella dove oggi sono riunite una quindicina di persone. Stipati nell’ingresso, la Madonnina sul mobile e, vicino, una candela accesa, a uno a uno i convenuti, per lo più donne, pronunciano un’intenzione di preghiera, cui segue un’Ave Maria. Le intenzioni sono sempre le stesse, qualsiasi sia il regime o la latitudine: si prega per i figli, per un’operazione imminente, per la salute del marito ammalato... Tutto avviene a porte aperte, anzi, spalancate. Così, chi vuole, può unirsi. Mentre camminiamo sulla via del ritorno, Carmen indica alcune porte sulle quali sono affissi simboli religiosi, a significare la presenza di una casa di preghiera. Tutto pubblico. Ci racconta di quando il prete va a dire la messa in quelle case, magari per celebrarne l’anniversario o per qualche altra ricorrenza speciale, senza dover chiedere il permesso a nessuno. Rammenta di quando a Natale hanno affisso sulla porta di ogni casa della zona un foglietto raffigurante la Natività. Sono queste piccole cose che fanno intuire, più di mille parole, l’esistenza di un clima un po’ più sereno. Come anche la presenza ostentata, nelle case cubane, di immagini o calendari religiosi. Che fanno bella mostra di sé anche negli appartamenti degli uomini di partito...
Le case di preghiera sono diffuse in tutta l’isola. Anche a Camagüey, la seconda città cubana, ce ne sono parecchie. Alcune sono seguite dalle suore Salesiane. Ci accolgono con cortesia nel loro istituto. Anche loro, come le tante altre comunità religiose presenti nell’isola, fanno apostolato e cercano di assistere come possono i poveri che affollano le case e le strade di questo Paese. Raccontano che vanno a fare catechesi in una zona fuori città, dove i contadini sono talmente poveri che non possono spostarsi. «Senza mezzi, senza scarpe…», dicono le suore: «Lì non c’è nessuna casa che possa ospitarci, quando andiamo a fare catechesi; così usiamo una struttura del Partito». Una tettoia, più o meno, a stare alle loro descrizioni. Pare che un funzionario del Partito si sia scandalizzato della cosa. «Ci ha chiesto perché ci riunivamo lì. Allora gli ho detto che ci aveva autorizzato il suo predecessore, che era una persona buona...». Così, ancora una volta, sono i rapporti umani a far superare ideologie e steccati...
A pochi passi dalle suore Salesiane c’è la chiesa di San Juan de Dios, dove riposano le spoglie del servo di Dio padre José Olallo Valdés, che sacerdote non era ma solo un religioso dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio (Fate Bene Fratelli), il quale tra il 1820 e il 1889 ha rischiarato di carità l’isola. A novembre, se tutto procederà come previsto, la Chiesa lo proclamerà beato. Sarà il primo santo cubano, visto che un altro nativo dell’isola dichiarato martire insieme ai tanti uccisi durante la guerra civile spagnola era vissuto sempre in Spagna. «Una beatificazione che ci riempie di sano orgoglio», accenna lieto monsignor García Rodríguez. «È il santo della carità, del servizio agli ammalati».
Accanto alla chiesa dove il santo riposa, due suoi confratelli, a piccola conferma che la carità non avrà mai fine, mandano avanti un piccolo ospedale. Fratel Ramón, sotto lo sguardo incuriosito dei pazienti, ci guida per la piccola struttura, dettaglia i tanti interventi effettuati, ci indica le apparecchiature mediche di ottima fattura, frutto di donazioni dall’estero, e ci mostra, con una punta di orgoglio, un’ambulanza nuova fiammante. Un ospedale gestito da religiosi in un regime comunista? Sì, spiega, ma tutto in collegamento con le strutture statali.
Il cardinale Tarcisio Bertone in visita a Cuba dal 20 al 26 febbraio 2008

Il cardinale Tarcisio Bertone in visita a Cuba dal 20 al 26 febbraio 2008

Sono tanti gli ordini religiosi che fanno assistenza a Cuba. Anche la Caritas fa la sua parte. Ofelia Riverón, presidente della Caritas dell’Avana, racconta di un’opera che riesce a raggiungere circa trecento bambini, settecento anziani e una cinquantina di malati di Aids. Descrive piani d’intervento, spiega come quel che serve arrivi soprattutto grazie alle donazioni delle comunità locali, da gente che si priva del necessario per far arrivare a qualcuno un farmaco o un pacco di viveri. Racconta dell’assistenza prestata a disabili, a ragazzi portatori della sindrome di Down, a bambini autistici, grazie alla collaborazione con un gruppo di medici non cristiani (e qui gli occhi le brillano più del solito); parla di una povertà diffusa, soprattutto dopo il crollo del Muro di Berlino, e di anziani, che a Cuba sono tanti grazie anche all’efficiente servizio assistenziale, relegati ai margini della vita familiare, tanto da costituire una sorta di emergenza sociale. E delle collaborazioni che la Caritas ha instaurato con vari ordini religiosi sparsi per l’Avana, in particolare per l’assistenza alle ragazze madri. Un fiume di iniziative che a volte trova la collaborazione dello Stato, ma per lo più viaggia autonomamente, grazie agli spazi di libertà che si sono creati nel tempo.
Quello della Caritas è solo uno dei tanti rivoli dell’opera che la Chiesa cubana «svolge a favore dei più bisognosi, con opere concrete di servizio e di attenzione agli uomini e alle donne di qualsiasi condizione»: sono parole del Papa, scritte nella lettera che il segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone, ha portato con sé nella recente visita all’isola caraibica. Una visita di sei giorni (dal 20 al 26 febbraio), in occasione del decennale del viaggio di Giovanni Paolo II. E che è coincisa con il cambiamento del regime cubano. Durante il viaggio, il porporato ha raggiunto tutti i luoghi visitati allora da Giovanni Paolo II per poi, infine, incontrarsi con il nuovo presidente. Ne è tornato portando con sé l’impressione di un cambiamento politico positivo e di una «Chiesa vitale». Affermazione, quest’ultima, suffragata da dati di fatto, se è vero che i battesimi, le cresime e le prime comunioni stanno crescendo ogni anno in maniera vertiginosa.
Ma è ancora presto per sapere che sarà della Chiesa al tempo di Raúl.
Nel suo primo discorso, il nuovo presidente ha ribadito di voler intraprendere una serie di riforme: a livello monetario, economico e politico. Certo è che ciò che avverrà nei prossimi mesi a Cuba sarà vagliato con attenzione dalle cancellerie occidentali. Ma anche da quella monumentale statua di Gesù, che da tempo osserva le vicende di questa piccola isola caraibica. Quella statua che fa bella mostra di sé all’imboccatura del porto dell’Avana. E che in tutti questi anni, più o meno bui, il regime si è guardato bene dal buttare giù.


Español English Français Deutsch Português