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STORIA
tratto dal n. 02/03 - 2008

LUDWIG KAAS E LA SALITA AL POTERE DI HITLER

Al centro del tragico errore


La salita al potere di Hitler in Germania, nel marzo di settantacinque anni fa, segnò anche il fallimento del progetto di Ludwig Kaas, sacerdote e segretario del Zentrum, il partito dei cattolici tedeschi. Ecco come si scivolò verso la dittatura nazista


di Pierluca Azzaro


Manifesti elettorali di Hitler e Hindenburg per le strade di Berlino nel marzo 1933

Manifesti elettorali di Hitler e Hindenburg per le strade di Berlino nel marzo 1933

Destino paradossale quello di Ludwig Kaas: segretario del Zentrum, il Partito dei cattolici tedeschi dal 1928 al 1933 – dunque negli anni cruciali della storia europea del XX secolo, quelli dell’ascesa al potere di Adolf Hitler –, su Kaas politico, soprattutto all’indomani della sua morte, il 15 aprile 1952, è calato un imbarazzato silenzio; che risulta oggi tanto più assordante se si considera che il suo primo (e ultimo) biografo, Georg May1, dà grande significato e importanza all’azione di don Ludwig a favore di un’Europa unita, pacifica e solidale; e tuttavia il suo nome non compare nei tanti albi d’onore dei pionieri dell’idea d’Europa nel XX secolo stilati anche di recente, per esempio in occasione della commemorazione, l’anno passato, dei cinquant’anni dalla firma dei Trattati di Roma del 1957.
Si è insomma di fronte a una sorta di damnatio memoriae e la ragione sta evidentemente nel severo giudizio che diedero di lui in parte i suoi contemporanei – più i compagni di Partito che non gli avversari politici – e in parte quella prima generazione di storici e politologi che si occupò delle ragioni che portarono al crollo della Repubblica di Weimar: «Fu senza dubbio un errore eleggerlo segretario del Zentrum» si legge in questo senso nell’autorevole dizionario biografico della Repubblica di Weimar2. La ragione che sta alla base di un giudizio tanto lapidario non è meno dura: Kaas non avrebbe immediatamente riconosciuto la natura sovversiva del nazismo. Pertanto, i suoi tentativi di giungere a una intesa parlamentare con il Partito di Hitler avrebbero contribuito allo slittamento del sistema di Weimar. L’apice della errata strategia, l’ultimo segretario del Zentrum l’avrebbe raggiunto il 23 marzo del 1933, quando votò e fece votare ai parlamentari del suo gruppo la cosiddetta “Ermächtigungsgesetz” – quella legge voluta dal cancelliere Hitler grazie alla quale, seppure per un tempo limitato, il governo otteneva potere legislativo quasi illimitato. Contribuendo così a dare “carta bianca” a Hitler, Kaas sarebbe corresponsabile del «giorno più buio della storia del Parlamento»; e dunque, seppure in buona fede certo, dell’avvento della dittatura, come ha fatto intendere il quotidiano cattolico Tagespost, in occasione del settantesimo anniversario del 23 marzo 19333.
Il “portabandiera” – come don Ludwig ebbe a definirsi appena eletto segretario politico l’8 dicembre 1928 – fu dunque niente più che un autorevole rappresentante di quelli che, nella Germania a cavallo tra il Venti e il Trenta, auspicarono un’alleanza tra croce e croce uncinata in chiave anticomunista? Stando così le cose, sarebbe già lecito chiudere come segue: la tragedia di Kaas consistette nel concentrare l’attenzione sul pericolo più vicino, non riconoscendo in tempo la minaccia più velata ma non meno pericolosa.
In attesa che – con l’accesso degli studiosi all’archivio Kaas (tutt’ora sub sigillo presso l’Archivio segreto vaticano) – don Ludwig possa prendere un’ultima volta la parola per fornire una sua più completa versione dei fatti che ad oggi manca, ora è già possibile delineare quali furono – e quali no – le insegne della “bandiera” che Kaas portò, sin dall’inizio della sua carriera politica e fino alla mattina del 7 aprile del 1933, quando partì per Roma, da dove non sarebbe più tornato in Germania.

Per la distinzione tra Stato e Chiesa
L’inizio fu nel gennaio del 1919 quando, dopo la specializzazione in Diritto canonico alla Gregoriana di Roma e una breve esperienza di parroco a Treviri, il giovane don Ludwig fu eletto deputato all’Assemblea costituente della nuova Repubblica di Weimar. Oltretutto, Kaas non si presentava certo come un eletto del Zentrum “qualsiasi”. Esperto di Diritto canonico, “uomo di fiducia” del nunzio apostolico Eugenio Pacelli dal 1917, nel 1919 i notabili della città avevano scelto di candidare proprio il giovane don Ludwig nella speranza che, grazie alla sua solida mentalità giuridica e all’ottima conoscenza dell’inglese, il giovane sacerdote-giurista avrebbe potuto al meglio difendere loro e la Germania da quel “guai ai vinti” che si respirava nell’aria (non a caso don Ludwig fece parte della delegazione che, nel 1919, firmò a Versailles il Trattato di pace). In effetti, Kaas, benché giovane, era già ben noto ai suoi concittadini per la forza, la solidità e la persuasività del suo argomentare, non meno che per quella capacità di sintesi delle posizioni più distanti che, ancora tanti decenni dopo, nel corso di una riunione politica a Roma, fece dire a uno degli astanti: «Ascoltiamo Kaas; si sa: nei momenti difficili riesce sempre a trovare una formula che soddisfa tutti»4. In effetti, era proprio questa la qualità che stava alla base della massa di voti che la candidatura del giovane sacerdote era riuscita a convogliare su di sé: più del 60 per cento dei voti del suo collegio, vale a dire un consenso che andava ben al di là del tradizionale bacino di voti cattolico; fatto, questo, tanto più sorprendente se si pensa che, in cima ai pensieri del sacerdote-politico – e dunque all’inizio di ogni comizio elettorale –, stava notoriamente la salvaguardia dei diritti della Chiesa cattolica. Ma in che modo?
Kaas non si presentava certo come un eletto del Zentrum “qualsiasi”. Esperto di Diritto canonico, “uomo di fiducia” del nunzio apostolico Eugenio Pacelli dal 1917, nel 1919 i notabili della città avevano scelto di candidare proprio il giovane don Ludwig nella speranza che, grazie alla sua solida mentalità giuridica e all’ottima conoscenza dell’inglese, il giovane sacerdote-giurista avrebbe potuto al meglio difendere loro e la Germania da quel “guai ai vinti” che si respirava nell’aria
Kaas, nel frattempo eletto deputato, lo chiarì ancora una volta nel suo primo intervento pubblico su “Il nostro punto di vista riguardo ai rapporti tra Stato e Chiesa”, al congresso del Zentrum, il 22 gennaio 1920 a Berlino: «Come nei primi secoli, la Chiesa è sempre più affidata unicamente alle proprie forze, che sgorgano da fonti interne e soprannaturali. Abbandonata, o addirittura perseguitata dai poteri del mondo, in futuro l’unica difesa della Chiesa sarà la libertà… quella libertà che la nuova costituzione del Reich le garantisce ampiamente»5. Il lungo silenzio carico di stupore con il quale, quella mattina, i più anziani tra i delegati del Partito e molti di quelli che lo avevano voluto prima a Weimar e poi a Berlino reagirono al discorso dell’enfant prodige del cattolicesimo politico tedesco era obiettivamente giustificato: tutto, infatti, ci si sarebbe potuto aspettare dal giovane sacerdote cattolico – e giurista per di più! – tranne che un’appassionata difesa della netta distinzione tra Chiesa e Stato, un argomento che, sino ad allora, era stato un cavallo di battaglia del Partito socialista e che, pochi anni prima, in una lettera pastorale vergata in occasione della festa di Ognissanti del 1917, i vescovi tedeschi avevano giudicato molto negativamente. Kaas, invece, difendeva una Costituzione che vietava esplicitamente qualsiasi «Chiesa di Stato» per garantire a ogni singolo «piena libertà religiosa e di coscienza», e che stabiliva per le «associazioni religiose» un quadro generale di diritti e di doveri da specificarsi con relativi accordi.
E tuttavia, come don Ludwig a partire da quel discorso si sforzò sempre di spiegare, i diritti e le prerogative dei cattolici tedeschi si sarebbero difese al meglio solo se la Chiesa non fosse caduta nella tentazione dell’alleanza con il potere al fine di imporre la fede con mezzi temporali – il tragico errore del «protestantesimo morale» tedesco (Thomas Nipperdey6) dell’anteguerra che poi era sprofondato insieme a quel «Reich evangelico» di Guglielmo II del quale aveva preteso essere il fondamento morale. Al contrario, la Chiesa doveva guardarsi proprio dal pericolo di venire utilizzata da un potere teso unicamente ad aumentare il proprio peso e la propria influenza. Contro la pericolosa tentazione della reciproca strumentalizzazione, si trattava, in altri termini, di sostenere la necessità di una nuova formula di armonia-distinzione dei poteri attraverso la quale Chiesa e Stato si valorizzassero a vicenda. È ciò che, qualche mese dopo il discorso di Kaas, scrisse il nunzio in Germania, Eugenio Pacelli, al nuovo presidente della Repubblica, il socialista Friedrich Ebert: posto che, in Germania, «non esiste Chiesa di Stato» – come Pacelli, con soddisfazione, aveva sottolineato anche graficamente già nell’aprile del 1919 in un rapporto inviato dalla Germania alla Segreteria di Stato7 – bisognava operare insieme per quella «concordia tra i due poteri, quello ecclesiastico e quello civile…, sola capace di salvaguardare gli interessi religiosi della popolazione cattolica e, insieme, di favorire e rafforzare il benessere dello Stato»8.
gresso dei cattolici tedeschi – doveva essere quella «di contribuire a ristabilire la pace […], della quale mai come oggi il mondo ha bisogno […], quella sociale, tra ceti e classi all’interno […], contro la dottrina disumana, falsa e anticristiana, della lotta di classe che crea ulteriori rovine e non aiuta a ricostruire […], [e] una autentica pace fra i popoli all’esterno […] in uno spirito di comprensione e perdono che superi le barriere politiche […]», grazie al quale «i governanti, al posto del dominio della forza, favoriscano il dominio del diritto e dell’amore cristiano»9.
Il nunzio apostolico additava dunque ai cattolici tedeschi in politica un compito che, proprio il sacerdote-politico Kaas, durante la campagna elettorale del gennaio 1919, aveva sintetizzato forse al meglio, parlando di «Pax: intra et extra moenia», di pace e pacificazione all’interno e tra i popoli europei quale fine della sua azione politica. Fu questa la seconda insegna della bandiera di Kaas, a partire dalla quale si possono intendere le scelte di fondo che scandiscono la sua attività parlamentare, sino all’elezione a segretario di Partito. A titolo esemplificativo, se ne evidenziano due.
La prima, in ordine alla pacificazione interna, è il significativo “sì” da parte del sacerdote-politico a un governo di coalizione con i socialdemocratici e il Partito democratico tedesco (Ddp). La «coalizione di Weimar» del febbraio del 1919 era una scelta che andava ben al di là della speciale attenzione del Zentrum al problema operaio e alle opere di carità: dopo appena due anni dalla presa del potere comunista in Russia, un governo a partecipazione socialista era un rischio, senza dubbio; ma allo stesso tempo la garanzia che, sin tanto che fosse stato Partito di governo, quello socialista non avrebbe seguito i comunisti nel rifiuto della democrazia e, per contro, nella teoria e nella prassi rivoluzionaria. Poco più di un mese prima c’era stato il tentativo di rivoluzione bolscevica in Germania, ed era fallito solo dopo duri scontri nel centro di Berlino tra reparti militari e “spartachisti”.
Per il Zentrum, d’altronde, centrosinistra significava anche l’affermazione che la «via democratica» e la «sovranità popolare» non erano ideali di esclusivo appannaggio della Sinistra; e, d’altra parte, proprio con la presenza del Centro nella maggioranza, la garanzia che non venissero proposte – o approvate – leggi che tendessero a ridurre o a eliminare la presenza della Chiesa nei legittimi campi della sua azione, come ad esempio quello dell’educazione e della formazione giovanile: «Bisognerà riconoscere che il Centro colla sua tattica almeno abbia prevenuto molti mali», si legge in un “promemoria” sulla situazione politica in Germania preparato il 10 maggio 1925 da un nobile tedesco, il conte Praschmo – peraltro, da cristiano, molto critico verso il centrosinistra tedesco –, su richiesta del segretario di Stato, cardinal Gasparri, che lo aveva ricevuto poco tempo prima: «La socialdemocrazia, in quel tempo unita ai democratici di sinistra, aveva la maggioranza in tutti i parlamenti in Germania, sicché e le leggi e la Costituzione sarebbero riuscite assai diverse da quel che sono, se non fosse stato indispensabile avere riguardi per il Centro rappresentato nel governo»10.
La seconda scelta di fondo era in ordine alla pacificazione esterna. Con il passaggio dall’Impero di Guglielmo II alla Repubblica, il luogo dell’elaborazione delle linee-guida di politica estera si era – anche simbolicamente – spostato dai saloni della residenza dell’imperatore all’aula della Commissione Esteri del Parlamento, nella quale – per quel «primato della politica estera», che valeva tanto più per la Germania – i partiti mandavano i loro uomini migliori: e il Zentrum aveva mandato Kaas.
Kaas disse che, in fin dei conti, alla fine della strada che si sarebbe scelto di imboccare stava o la pacifica costruzione di un comune ordinamento di diritto europeo, oppure un cimitero di enormi proporzioni. Fin tanto che Germania e Francia si fossero parlate con il linguaggio dell’egoismo sarebbe stato nient’altro che un dialogo tra sordi
La terza grande passione di don Ludwig fu proprio la politica estera, ovvero la «politica della comprensione reciproca» (Verständigungspolitik), come usava chiamarla lui. Uno dei suoi frutti migliori fu il Trattato di Locarno dell’ottobre del 1925, con il quale si stabiliva la reciproca garanzia delle frontiere tedesco-francesi e tedesco-belghe. Contro le riserve di troppo accesi nazionalisti e internazionalisti Kaas si battè per la ratifica del Trattato. E questo perché per lui era del tutto chiaro che nessuna pace in Europa, di più, nessuna Europa comune sarebbe stata possibile senza appianare il micidiale contrasto franco-tedesco. E lo disse chiaramente nel discorso che, a nome del suo Partito, pronunciò il 22 luglio 1925, in occasione del dibattito parlamentare sulla ratifica dell’accordo. Ricorda un compagno di Partito: «Disse che, in fin dei conti, alla fine della strada che si sarebbe scelto di imboccare stava o la pacifica costruzione di un comune ordinamento di diritto europeo, oppure un cimitero di enormi proporzioni. Fin tanto che Germania e Francia si fossero parlate con il linguaggio dell’egoismo sarebbe stato nient’altro che un dialogo tra sordi. Ma il giorno in cui avessero iniziato a parlarsi con la lingua dell’Europa, allora si sarebbero capite e si sarebbero meravigliate nel comprendere quanto pochi erano gli elementi che le dividevano, rispetto ai tanti interessi comuni, da difendere insieme»11. Le organizzazioni che in quel periodo di particolare fervore europeista Kaas contribuì a fondare – alla “Associazione per la comprensione reciproca in Europa” (Verband für europäische Verständigung) aderì subito Konrad Adenauer – miravano a diffondere un’idea d’Europa unita, economicamente e politicamente; un’Europa che realisticamente – e questo è veramente sorprendente per il sacerdote-politico – non si doveva né si poteva pretendere cristiana. Scrive in questo senso May: «Certo, Kaas avrebbe visto volentieri una Europa unita sotto il segno della croce, e tuttavia non chiudeva gli occhi di fronte a un doppio dato di fatto: la cristianità era divisa e un numero considerevole di cristiani battezzati aveva smarrito la fede. Se dunque si doveva costruire un’Europa unita, avrebbero dovuto collaborare all’impresa cattolici, protestanti e non credenti. Kaas era ben conscio di questa necessità. Quando il 2 novembre 1926 fece appello a uno sforzo comune per la pace in Europa, chiese con forza un’armoniosa collaborazione di credenti e non credenti»12.
La politica della «comprensione reciproca», anche a livello extraeuropeo, raggiunse il suo apogeo nel 1928, con la firma del patto Briand-Kellogg «di rinuncia generale alla guerra» per la soluzione delle controversie internazionali, firmato, il 27 agosto, a Parigi, oltre che dal ministro degli Esteri francese e dal segretario di Stato americano, dai rappresentanti di altre tredici potenze. A esso aderirono in seguito cinquantasette Stati, compresa l’Unione Sovietica. Nell’appunto autografo che redasse per questa occasione, Kaas, nel sintetizzare le linee-guida della “sua” politica estera, implicitamente ne sottolinea le differenze con quella nazionalsocialista: «La politica estera dell’anno 1928 è stata caratterizzata dalla circostanza significativa che, con la firma del patto Kellogg, gli Stati Uniti si sono messi alla testa degli sforzi internazionali per evitare la guerra e per garantire la pace […], l’America sta in prima fila nel lavoro per la pace. E tuttavia non illudiamoci. Il patto Kellogg è una promessa, non un compimento; una promessa che, in Germania e in Europa, è stata salutata con una gioia piena di gratitudine; una promessa che deve essere compiuta, non tradita. Sulla strada che porta alla realizzazione del pensiero della pace, al popolo tedesco, nel Reich e in Austria, spetta un compito particolare: scacciare la paura dall’animo delle potenze vincitrici, il sospetto che la volontà di Germania e Austria di unirsi fraternamente celi delle tendenze aggressive. Ciò che ci porta gli uni verso gli altri è l’ispirazione del cuore, la voce del sangue, non il desiderio di una rivincita e un predomino di tipo imperialistico. Noi vogliamo servire l’Europa, non dominarla. Ma vogliamo servirla da liberi, ed eguali agli altri nei diritti»13.
Siamo alla vigilia della festa dell’Immacolata del 1928, giorno dell’elezione di Kaas a segretario, a conclusione di uno dei congressi più difficili della storia del Partito: nelle elezioni del maggio precedente il Centro aveva perso 400mila voti e ora i conflitti e le divisioni interne che stavano alla base della pesante sconfitta si presentavano ingigantite ed esasperate: i capi dei sindacati dei lavoratori cattolici contro quelli delle unioni del ceto impiegatizio; di qua i fautori di un nuovo centrodestra, di là i seguaci del vecchio centrosinistra. D’altro canto però, la batosta elettorale un effetto salutare lo aveva avuto: come chi ritorna in sé dopo una solenne sbornia, la gran parte dei delegati aveva capito che «ogni regno diviso contro sé stesso va in rovina, e casa crolla su casa»; c’era voglia di unità, e quello di cui si sentiva l’esigenza, per ripartire, era proprio il potersi stringere attorno a chi fosse stato in grado di trovare la sintesi tra le diverse posizioni; a chi, sopra gli interessi dei vari gruppi e gli antagonismi dei singoli, «incarnasse “le ragioni ideali” per le quali […] un tempo il Partito del centro era stato fondato»14: era nient’altro che l’identikit di Ludwig Kaas, che si impose sui candidati di “destra” e di “sinistra” doppiandoli nei consensi: «Il portabandiera è niente, la bandiera è tutto!»: così, tra gli applausi scroscianti dei delegati, il nuovo segretario presentava sé stesso. Tenere alta la bandiera significava innanzitutto riaffermare che, in Germania, in quel momento storico, c’era un solo partito che legittimamente rappresentava gli interessi e le aspirazioni dei cattolici tedeschi: il Zentrum. La questione tuttavia era molto più facile a dirsi che a farsi perché ora si dovevano fare i conti con un concorrente molto agguerrito: il nazionalsocialismo.

Il leader nazionalsocialista Adolf Hitler  esce dalla sede centrale del Partito,  Monaco di Baviera, 5 dicembre 1931

Il leader nazionalsocialista Adolf Hitler esce dalla sede centrale del Partito, Monaco di Baviera, 5 dicembre 1931

Di fronte al nazismo
Un episodio rende bene la portata dello scontro. È il 23 ottobre del 1930. Qualche settimana prima, il voto delle politiche ha scaraventato sui banchi del “Reichstag” più di cento deputati nazionalsocialisti, facendo di quello nazista un partito di massa. Ora si vota per le regionali nel Baden, e proprio da Karlsruhe, città di quel Land, giunge una lettera sulla scrivania del segretario di Stato, Eugenio Pacelli. «Eminenza reverendissima, la prego con tutto il cuore di voler dire una parola autorevole e definitiva a difesa della causa cattolica che rischia di subire gravissimi danni […]». A scrivere è tale Josef Schlierf, presidente dell’Associazione Sant’Agostino per la cura della stampa cattolica. Esasperato dai continui attacchi che l’organo nazista locale – Der Führer – sferra contro il Centro, che definisce «anticristiano», «nemico del Papa», e addirittura «l’anticristo», ha deciso di chiedere aiuto al segretario di Stato in persona; che risponde subito: sul numero del 3-4 novembre L’Osservatore Romano pubblica con particolare rilievo un articolo non firmato dal titolo Attacchi ingiusti contro il Centro tedesco che risponde direttamente agli attacchi del Der Führer. Contro gli “inganni” di quel giornale ma anche di altri quotidiani nazisti, L’Osservatore Romano ricordava come nelle battaglie combattute e vinte a favore della libertà della Chiesa cattolica in Germania «non ci ricordiamo di aver visto nessun partito, come tale, appoggiare, almeno con eguale risolutezza, le tesi del Centro, escluso, s’intende, il Partito popolare bavarese». Da qui una conclusione inequivocabile: il Centro non era «incensurabile» o «infallibile», ma comunque meritava «la fiducia e la riconoscenza dei cattolici, nonché il rispetto degli avversari onesti»15.
L’appello della Segreteria di Stato non sortì l’effetto desiderato, al contrario: gli attacchi degli organi di stampa nazisti contro il «Zentrum anticattolico» e «nemico del Papa» furono ripresi con maggiore vigore a livello nazionale dal Völkischer Beobachter; e nemmeno fu in grado di ricompattare tutte le file del voto cattolico intorno al Zentrum. Non che, ad esempio, il tema dell’equiparazione della scuola confessionale alla scuola pubblica non fosse particolarmente sentito dai cattolici tedeschi (e il Centro aveva continuato a battersi per questo). Ma, all’indomani della grande crisi economica dell’ottobre 1929 e delle sue conseguenze, altri erano i temi che agitavano la stragrande maggioranza degli animi, altre le speranze e le aspirazioni che, comunque, il Centro da sempre aveva fatto sue, e tanto più riproponeva in quel momento: «Abbiamo un’unica volontà: giustizia e pane per tutti nello Stato nazionale» era scritto, ad esempio, su un manifesto elettorale del Zentrum del luglio 1932. E avrebbe conquistato il cuore (e il voto) di quelle centinaia di migliaia di padri di famiglia e giovani che, sin dall’alba, vagabondavano per le grandi città con dei cartelli al collo – «vi prego, fatemi lavorare!» – chi fosse riuscito a spiegare «di chi è la colpa» della crisi in modo semplice e avvincente, e in pari tempo avesse indicato in modo verosimile la via d’uscita più veloce da quell’incubo. Su questo piano, tra Centro e nazisti non c’era confronto: qui un Partito che aveva partecipato a tutti i governi della Repubblica, il Partito «a difesa della Costituzione» per eccellenza, un Partito che ora, con parole di Kaas, esortava ad avere comprensione e fiducia in una «politica della pazienza, dell’accortezza e del realismo»16; la quale tuttavia, praticando misure deflazionistiche e di risparmio, non faceva altro che acuire gli effetti della crisi; lì un movimento d’opposizione per il quale “il sistema di Weimar” come tale era la causa della “palude” nella quale si stava tutti affogando: perché i partiti, in realtà, così si affermava, non servivano il popolo, ma gli interessi di pochi mercanteggiati in Parlamento. E l’esempio della vicina Italia non stava forse lì a dimostrarlo? Era o non era vero che il “Duce” e il regime autoritario da lui creato, spazzando via partiti e Parlamento, aveva “salvato” l’Italia, insieme dal comunismo e dalla crisi, come riconoscevano ammirati non solo i nazisti, ma anche, ad esempio, i sindacati americani e poi leader democratici come l’americano Herbert Hoover, o Winston Churchill? La sintesi di tutto questo argomentare era una frase a effetto, lo slogan elettorale nazista delle elezioni del luglio ’32: «La nostra ultima speranza: Hitler».
«Con il popolo, contro i partiti» era un motto comune a nazisti e comunisti, ideologicamente lontani ma uniti nel voler buttare giù la Repubblica per poi affrontarsi in una sorta di “battaglia finale”: non a caso, quella dell’estate del 1932 fu la campagna elettorale più violenta e sanguinosa della storia della Repubblica: «Una notte di san Bartolomeo permanente, giorno dopo giorno, domenica dopo domenica», come annotava un contemporaneo17. In effetti gli scontri tra gli eserciti di partito che si erano confrontati al grido di «Hitler o Lenin?» – solo dalla metà di giugno al 20 luglio 1932 e unicamente in Prussia – avevano provocato cento morti e 1.125 feriti gravi. Dalla battaglia elettorale in senso stretto era uscito trionfatore Hitler, con il 37,3%, ma nondimeno i comunisti erano balzati al 14,2%. Il Centro aveva tenuto bene con il 12,4% – percentuale alla quale si aggiungeva il 3,2% del Partito popolare bavarese –, i tedesco-nazionali (Dnvp) avevano ottenuto il 5,9%, i socialdemocratici si erano fermati al 21,6%. Il dato politico che emergeva dai numeri era questo: i due Partiti dichiaratamente antidemocratici, il nazionalsocialista e il comunista, insieme detenevano la maggioranza assoluta; che infatti utilizzarono per votare insieme una mozione di sfiducia al governo, approvata nel momento stesso in cui, in aula, giungeva il decreto presidenziale di scioglimento del Parlamento. Seguirono nuove elezioni, nell’ottobre del ’32.
L’appello con il quale Kaas aprì, a Münster, quella campagna elettorale era del tutto insolito, perché non si trattava del classico grido di battaglia rivolto ai suoi prima dello scontro, ma di un appello all’unità rivolto agli altri per il dopo: «In un’ora drammatica come questa, adempirà al meglio la propria missione non quel partito che penserà ai propri interessi, ma a quelli dello Stato e dell’intera comunità popolare»; e continuò: «Se solo tre, quattro, cinque capi di partito avessero il coraggio di ammettere l’estrema gravità di quest’ora e se su questa base decidessero di gettare sul piatto della bilancia tutta la loro autorità e autorevolezza per impegnare il proprio seguito alla formazione di una comunità di popolo tedesca maggioritaria e di emergenza; se questo accadesse, vorrebbe dire che è scoccata l’ora della ragionevolezza, vorrebbe dire che veramente i tedeschi prendono per mano il loro destino»18. Cosa significasse quell’appello in termini politici, Kaas lo spiegò al presidente della Repubblica, Paul von Hindenburg, un mese dopo, la mattina del 18 novembre del 1932, nel primo giro di consultazioni per la formazione del governo: «Eccellenza, siamo di fronte a un brutto inverno: da una parte ci sono dodici milioni di tedeschi raccolti nell’opposizione di destra, dall’altra tredici milioni e mezzo nell’opposizione di sinistra. Pertanto, l’obbiettivo di una concentrazione nazionale che comprenda i nazionalsocialisti diventa una necessità»19. Kaas proponeva un governo sorretto da un’ampia maggioranza parlamentare, nazionalsocialisti compresi e, se necessario, guidato dallo stesso Hitler. La proposta di Kaas era tanto più sorprendente in quanto sembrava voler sorvolare su due ostacoli giganteschi che si frapponevano a quella possibile alleanza: l’ideologia nazista e l’attività terroristica delle SA e delle SS. A partire dal 1930 erano andate via via aumentando le prese di posizione di vescovi cattolici tedeschi circa l’incompatibilità tra dottrina cristiana e nazismo, definito una “eresia”, in quanto nel programma di quel Partito si parlava di voler permeare Stato e società di un “cristianesimo positivo”, vale a dire «armonizzato al sentire e alla moralità della razza germanica»20. Quasi non bastasse la distanza ideologica, all’indomani della mancata nomina di Hitler a cancelliere dopo il suo trionfo elettorale del luglio di quell’anno, le “camicie brune” avevano inteso sfogare tutta la loro delusione nella violenza, tanto bestiale quanto indistinta, che colpì non solo operai e militanti del Partito comunista, ma anche quelli del Zentrum. In certo senso dunque, con quella sua proposta, Kaas si metteva contro i vescovi e contro la base. E tuttavia, sin dall’inizio, Ludwig Kaas aveva posto alla base della sua azione politica non solo il raggiungimento della parità di diritti per i cattolici, ma anche altri due obiettivi che andavano al di là delle esigenze confessionali in senso stretto: la pacificazione interna e la difesa della Costituzione. E in quel momento storico, erano proprio la democrazia e la pace interna a essere agonizzanti. Da questa prospettiva, la proposta Kaas non risultava più dettata dall’emozione del momento o dall’opportunismo, ma assumeva i contorni di un ragionamento politico, forse non vantaggioso per la propria immagine e per gli interessi immediati del Partito, ma sicuramente, così pensava lui, per quelli del suo Paese: per Kaas, solo coinvolgendo il primo partito tedesco nell’azione di governo lo si sarebbe potuto allontanare dalla via rivoluzionaria al potere assoluto, esattamente com’era successo coi socialisti nel 1919; solo stando in un governo coi nazisti si sarebbe potuto controllarne l’azione, solo coinvolgendo i deputati dell’Nsdap nella maggioranza parlamentare si sarebbe rotto il fronte antiparlamentare e ridato ossigeno alla democrazia; e poi, da ultimo ma non per ultimo, solo così sarebbe cessata la violenza continua, che da anni toglieva la pace e la tranquillità.
A far saltare la proposta di Kaas fu soprattutto il veto posto dal capo dei nazionalisti, Alfred Hugenberg, alleato storico di Hitler. E così, una settimana dopo il primo colloquio col presidente della Repubblica, Kaas dovette tornare da lui per ammettere di non aver trovato la maggioranza parlamentare necessaria a sostenere il suo progetto. Così al governo del dimissionario Franz von Papen – “Franceschino”, come lo chiamava l’anziano presidente Hindenburg da quando il transfuga del Centro era entrato a far parte della ristretta cerchia intorno a lui – seguì quello del «mio giovane caro amico», ovvero il generale Kurt von Schleicher, anch’egli, come il primo, non leader di partito ma intimo del presidente; e, non diversamente da Franz von Papen, a capo di un “gabinetto presidenziale”, vale a dire privo del sostegno di una maggioranza parlamentare e che, in base all’articolo 48 della Costituzione, governava a colpi di ordinanze d’emergenza con valore di legge controfirmate dal presidente della Repubblica; in attesa che una maggioranza parlamentare “negativa”, per così dire ad hoc per far cascare il governo, le revocasse e il presidente sciogliesse il Parlamento.
Nell’“illusione” di poter trattare con il Führer, Kaas perseverò anche dopo aver lasciato la Germania. Come testimonia il fittissimo carteggio con il vicecancelliere von Papen relativo al Concordato tra Reich germanico e Santa Sede, firmato in Vaticano il 20 luglio 1933, quell’accordo è per la gran parte opera sua. Ma questa volta la sua decisione fu premiata: anche grazie a quel Concordato, e nonostante tutte le violazioni inflittele dal regime nazista, la Chiesa cattolica tedesca, come affermarono gli stessi servizi di sicurezza del Reich, si rivelò il nemico più ostinato e mai domo che quel regime avesse dovuto affrontare all’interno
Paradossalmente la nomina di Adolf Hitler a cancelliere il 30 gennaio 1933 – caldeggiata da von Papen contro il suo mentore di un tempo, il generale von Schleicher – sembrava ristabilire un certo equilibrio a favore del Parlamento; in quanto, perlomeno, era stato nominato cancelliere il capo del più grande partito tedesco. Ma il governo di nazisti e nazionalisti era privo di maggioranza parlamentare e questa circostanza spinse ancora una volta Kaas a un incontro con Hilter. L’obiettivo di don Ludwig era sempre lo stesso: mantenere la pace interna, garantire il rispetto della Costituzione, fissare un programma di governo e in base a quello decidere della partecipazione del Centro all’esecutivo: «Signor presidente», esordì Kaas, «non siamo venuti perché lei ascolti noi, ma per ricevere da lei le necessarie delucidazioni sul suo programma di governo». Hitler, «eccitato» ma serio, aveva parlato della «distruzione del comunismo, quel corpo estraneo nel popolo tedesco», come «l’obiettivo immutabile della mia azione che perseguirò sino all’ultimo». Ma evidentemente la solenne dichiarazione di anticomunismo militante non aveva soddisfatto Kaas: subito dopo, infatti, don Ludwig aveva risposto negativamente alla richiesta del Führer del suo appoggio per sospendere per un anno il Parlamento e governare con pieni poteri. Kaas, invece, aveva fatto notare al cancelliere che il suo governo aveva «un carattere reazionario» perché «singoli membri di governo minacciano la tradizionale politica sociale tedesca». E quando Hitler aveva ribattuto chiedendogli se in futuro il Centro sarebbe stato disposto a far parte dell’esecutivo o almeno a tollerarlo, Kaas aveva risposto secco che «non si tratta di chi tollera chi ma di chi tollera che cosa. Dobbiamo conoscere il che cosa»; e ancora: «Non importa chi governa, ma che cosa un governo voglia e faccia»21. Ma su questo il Führer non aveva dato alcuna risposta e così il segretario gli aveva preannunciato l’invio di una serie di domande scritte, la prima delle quali, a proposito di poteri speciali invocati da Hitler, suonava così: «Quali garanzie dà il governo perché le misure da esso assunte si tengano nel quadro della Costituzione? Quali garanzie dà che, in virtù del cosiddetto stato d’emergenza, non vengano invece assunte misure incostituzionali?»22. A quelle domande Hitler non aveva risposto. Aveva invece chiesto e ottenuto dal presidente Hindenburg lo scioglimento del Parlamento. Il voto aveva sancito una maggioranza parlamentare di nazionalisti e nazionalsocialisti; che tuttavia non bastava per approvare quella legge sulla acquisizione dei pieni poteri da parte del governo che Hitler avrebbe presentato non appena il Parlamento si fosse insediato, il 23 marzo 1933. Per approvare quella legge serviva la maggioranza dei due terzi, servivano i voti del Zentrum. Si trattava di approvare o meno una vera e propria «procura generale a favore del governo», come disse Kaas23: la legge infatti concedeva al governo potere legislativo quasi illimitato, perché le leggi approvate dall’esecutivo potevano finanche introdurre modifiche costituzionali. Kaas sapeva bene qual era la posta in gioco: «Ci attende una decisione più difficile dell’approvazione del Trattato di Versailles»24, disse in una riunione di gruppo due giorni prima della inaugurazione del nuovo Parlamento. Quel 23 marzo 1933 non era iniziato sotto i migliori auspici: Hitler e Goebbels, in polemica con l’episcopato cattolico tedesco – così affermavano –, non avevano partecipato alla tradizionale messa dei deputati cattolici per l’apertura dei lavori parlamentari; salvo tuttavia, alla fine della celebrazione liturgica, mettersi alla testa dei deputati del Zentrum diretti in Parlamento che la mattina, compatti, si erano recati alla funzione; e questo non senza difficoltà perché molti di questi, durante il tragitto, erano stati perquisiti dalla polizia criminale – quasi si trattasse di sovversivi (almeno in pectore, vale a dire sin tanto che non avessero approvato la legge, si commentò)25. Solo l’intervento diretto di Kaas presso Hermann Göring – ministro nazionalsocialista degli Interni della Prussia – aveva fatto cessare quell’azione. Poi, nel primo pomeriggio, Hitler aveva tenuto il suo discorso programmatico: «Il governo nazionale vede nelle due confessioni cristiane i fattori più importanti per il mantenimento dell’essenza della nostra identità di popolo [...] la lotta contro la visione materialistica della vita e per la costituzione di una vera comunità di popolo è tanto nell’interesse della nazione tedesca quanto nel bene della fede cristiana […] Il governo del Reich vede nel cristianesimo le indistruttibili fondamenta dell’integrità morale del popolo […] poniamo il più grande valore nelle relazioni amichevoli con la Santa Sede...»26. Solo qualche settimana prima, Ludwig Kaas aveva chiuso il suo ultimo comizio, nella piazza del mercato della sua Treviri, con un presagio inquietante: «Ne dovrete vedere ancora di tutti i colori!»; ma anche con una parola di speranza: «Non sono un profeta, ma di una cosa sono certo: la croce uncinata passerà, la croce di Cristo resterà [indicando la croce al centro della Marktplatz, molto amata e venerata dagli abitanti della città]»27. Da questo punto di vista, è lecito supporre che le parole del Führer non avessero conquistato il segretario del Zentrum; anche perché, a pensarci bene, quella specie di cristianesimo ufficiale o di Stato che Hitler auspicava, non corrispondeva a quello che don Ludwig chiedeva ai cattolici impegnati in politica: di «pace fuori e dentro le mura», Hitler non aveva parlato; semmai i suoi avevano minacciato il contrario, stando alle memorie di una parlamentare del Zentrum: «Dopo il discorso [di Hitler], due ore e mezzo di riunione per decidere il da farsi […] era l’ora più difficile che il gruppo avesse mai vissuto […] intorno a me discorsi concitati di un’imminente guerra civile, sarebbero scesi in strada se non avessimo votato a favore […]. L’ex cancelliere Wirth parlava della costituzione di Weimar, che per lui era garanzia di tranquillità e ordine […] iniziò a piangere […] poi si alzò di scatto e uscì dalla stanza […] lo riportai dentro, dicendogli che proprio lui, lui che aveva contribuito così tanto a salvare la patria nel 1918 non poteva abbandonarla adesso […]. Poi prese la parola padre Kaas […] disse che nessuno di noi avrebbe potuto assumersi la responsabilità di una decisione individuale, la responsabilità era troppo grande […] solo un voto all’unanimità avrebbe spersonalizzato quella decisione […] Ersing [segretario del sindacato cattolico e vicesegretario, ndr] disse che [se non si fosse accettata la legge] i sindacati correvano il pericolo di essere distrutti, si rischiava l’eliminazione immediata dei diritti fondamentali, politici e sociali […] poi uscì perché, disse, avrebbe dovuto incontrare i capi dei sindacati e i rappresentanti del settore agricolo […] quando tornò affermò che aveva parlato coi rappresentanti dei lavoratori […] lo incaricavano, nonostante tutto, per amore del popolo, di approvare la legge. Il vecchio Wirth disse che “se gli operai si sacrificano così, mi sacrifico anch’io”; l’ex cancelliere Brünig assicurò: “in aula ci sarò”; e la sua decisione era anche la mia; Kaas si commosse e ringraziò tutti per l’unanimità […]. La legge passò […] dopo il voto […] durante il percorso fuori dall’aula, Wirth mi disse che gli avevano ritirato il passaporto diplomatico; sarebbe partito quella sera stessa»28.
Kaas, invece, lasciò la Germania qualche settimana dopo: partì per Roma il 7 aprile 1933, e fu da lì che poté osservare come l’approvazione della legge sui pieni poteri non contribuì, come molti deputati insieme a lui avevano creduto, né alla pacificazione interna, né a evitare una moderazione nell’esercizio dei pieni poteri – come pure Hitler aveva assicurato – e nemmeno a favorire quella sua idea, nata all’inizio degli anni Trenta, di un governo di «concentrazione di forze» sorretto dai maggiori partiti del centro e della destra: nell’estate del ’33 fu vietato il Partito socialista (che aveva votato contro la legge), poco dopo gli altri si sciolsero “volontariamente”. Si sarebbero ricostituiti solo dopo il crollo della dittatura nazista, nel maggio del 1945.
La firma del Reichskonkordat in Vaticano, il 20 luglio 1933. Alla destra del cardinale Eugenio Pacelli, monsignor Giuseppe Pizzardo, il vicecancelliere del Reich tedesco Franz von Papen e monsignor Ludwig Kaas; alla sua sinistra, monsignor 
Alfredo Ottaviani, Rudolf Buttmann 
e monsignor Giovanni Battista Montini

La firma del Reichskonkordat in Vaticano, il 20 luglio 1933. Alla destra del cardinale Eugenio Pacelli, monsignor Giuseppe Pizzardo, il vicecancelliere del Reich tedesco Franz von Papen e monsignor Ludwig Kaas; alla sua sinistra, monsignor Alfredo Ottaviani, Rudolf Buttmann e monsignor Giovanni Battista Montini

Alla luce di questo epilogo si comprendono i giudizi concordanti su Kaas da parte dei maggiori studiosi del cattolicesimo politico in Germania: Rudolf Morsey vede il suo grande limite nel «non aver riconosciuto il carattere totalitario del “movimento” di Hitler»29. In altri termini, secondo Heinz Hürten, Kaas andrebbe annoverato tra quegli “illusi” che credettero di poter addomesticare il nazismo coinvolgendolo nell’azione di governo30. Questi e giudizi simili sono difficilmente confutabili ma, per completezza, necessitano di essere integrati da due brevi considerazione finali.
1. C’è un punto sul quale concorda l’intera storiografia sulla Repubblica di Weimar. Alla sua fine contribuirono una serie di fattori, quale che sia il peso che si attribuisce all’uno o all’altro: la sottovalutazione di Adolf Hitler, senza dubbio, ma anche il peso del diktat di Versailles e la crisi economica del 1929; il fascino delle ideologie moderne e la guerra civile; lo spettro di Mosca e il sostegno che un certo mondo capitalista iniziò a dare a Hitler; e non da ultimo le colpe dei partiti: non di uno, ma di tutti e di tutti insieme, perché all’inizio della fine non sta l’approvazione della legge sui pieni poteri ma il degrado del sistema al quale contribuì in misura rilevante l’irresponsabilità di quei partiti che si riconoscevano nella Costituzione. Dello slittamento della democrazia quei partiti non si accorsero. In questo contesto, assurge a paradigma la vicenda della “grande coalizione” dell’estate del 1928. In sé, si trattava proprio del governo di cui in quel momento storico la Repubblica aveva più bisogno, perché l’incipiente crisi e la questione della disoccupazione, quella delle riparazioni e la stabilizzazione dei rapporti internazionali erano tutti problemi che solo un governo “forte” – in quanto sorretto da un’ampia maggioranza parlamentare – avrebbe potuto affrontare; senza contare che, nell’opinione pubblica, la sfiducia verso “i politici” e “i partiti” era già iniziata a montare. Eppure i partiti sembrarono non rendersene conto. Il Centro, infatti, era tutto preso a sostenere la richiesta di due Ministeri in più di quelli ottenuti; per i socialisti, invece, la questione di importanza cruciale in quel momento era bloccare la costruzione dell’incrociatore H: tanto decisiva che il vertice del Partito socialista impose ai propri ministri di lasciare i banchi del governo per votare contro un provvedimento da loro stessi voluto come membri del governo. La grande coalizione cadde quando il Partito popolare di Germania (Dvp) e i socialisti non riuscirono ad accordarsi sulla percentuale contributiva relativa all’assicurazione per i disoccupati: i primi propendevano per il 3,5%, i secondi per il 4%, e ambedue rifiutarono il compromesso del 3,75%. Così, per dirla con un deputato socialista di allora, certo, il Partito poteva di nuovo «veleggiare nelle chiare, confortevoli acque della vecchia, cara, splendida opposizione»; mentre, tuttavia, la democrazia nel suo insieme stava andando a frantumarsi sugli scogli della dittatura: perché ai “gabinetti presidenziali” o alle “dittature d’emergenza” (Ernst Nolte31) che da allora in poi si alternarono al governo era comune la convinzione, più o meno dichiarata, più o meno forte, che per “fare sul serio” bisognava governare senza Parlamento, senza partiti.
2. Più in generale, per un parte della storiografia, la lezione da trarre dalla fine della Repubblica di Weimar è questa: trattare con forze sovversive ed antidemocratiche è sempre una “illusione”, un “cedimento”, quasi una “defezione morale”. È invece necessario eliminarle subito, se necessario “preventivamente”. Ora, alla luce dei fatti e a ben guardare, nemmeno il caso di Ludwig Kaas consente d giungere a simile conclusione. Infatti, nell’“illusione” di poter trattare con il “Führer", Kaas perseverò anche dopo aver lasciato la Germania. Come testimonia il fittissimo carteggio con il vicecancelliere von Papen relativo al Concordato tra Reich germanico e Santa Sede, firmato in Vaticano il 20 luglio 1933, quell’accordo è per gran parte opera sua. Ma questa volta la sua decisione fu premiata: anche grazie a quel Concordato, e nonostante tutte le violazioni inflittele dal regime nazista, la Chiesa cattolica tedesca, come affermarono gli stessi servizi di sicurezza del Reich, si rivelò il nemico più ostinato e mai domo che quel regime avesse dovuto affrontare all’interno.


Note
1 G. May, Ludwig Kaas. Der Priester, der Politiker und der Gelehrte aus der Schule von Ulrich Stutz, 3 voll, Amsterdam 1981.
2 Karl Otmar Frhr. V. Aretin, Ludwig Kaas, in: Biographisches Lexikon zur Weimarer Republik/ hrsg. von Wolfgang Benz u. Hermann Graml, München 1988, p. 714.
3 T. Emons, Freibrief für Hitler:Vor siebzig Jahren wurde im Berliner Reichstag das Ermächtigungsgesetz verabschiedet, in DieTagespost, Katholische Zeitung für Politik del 26 marzo 2003.
4 A. Wynen, Ludwig Kaas: aus seinem Leben und Wirken, Trier 1953, p. 57.
5 Ibid., p. 26.
6 T. Nipperdey, Religion im Umbruch: Deutschland 1870-1918, Beck, München 1988.
7 Il Rapporto fra lo Stato e la Chiesa nella Commissione costituzionale dell’Assemblea nazionale germanica del 10.IV.1919, Archivio segreto vaticano, Archivio della Nunziatura apostolica di Monaco di Baviera, Busta 395, Fasc. 4, Pos. XIV, Germania, Questioni Politiche II, Erzberger.
8 Cfr. E. Pacelli, Staat und Kirche, Der Papst an die Deutschen. Pius XII als Apostolischer Nuntius und als Papst in seinem deutschsprachigen Reden und Sendeschreiben von 1917 bis 1956. Nach den vatikanischen Archiven herausgegeben von Bruno Wuestenberg und Joseph Zabkar, Frankfurt am Main 1956, p. 23.
9 E. Pacelli, “Deutschland vor neuen Aufgaben”, Rede von Eugenio Pacelli am Katholikentag in Frankfurt, 28 August 1921, in Staat und Kirche (1956), pp. 24-25.
10 Archivio segreto vaticano, Sacra Congregazione degli Affari ecclesiastici straordinari, Germania, 1922-1933, quarto periodo, Pos. 523 P.O., Fasc. 33., lo Zentrum. Il conte riassume in modo paradigmatico la critica principale di quel tempo al “centrosinistra” quando scrive: «Ma succede così ovunque: l’alleanza col socialismo, in origine veramente tattica, produce l’effetto, che il Partito, nato nella lotta per la Chiesa cattolica, cresciuto e rinvigorito grazie a quella lotta, viene indotto a sempre più risparmiare il socialismo quale compagno d’armi e a dipingerlo come amico. Questo però alla fine acquisterà la supremazia e si farà padrone della Germania, e il suo successore sarà il bolscevismo, nell’una e nell’altra forma. Appare come dovere religioso del vero cattolico l’opporsi con tutte le forze a una simile evoluzione […]».
11 A. Wynen, op. cit., p. 28. Cfr. G. May, op. cit., vol. I, pp. 472-473. Per la versione integrale del discorso di Kaas cfr. Verhandlungen des Reichstages, Bd. 387, Stenographische Berichte (von der 98, Sitzung am 21 Juli 1925 bis zur 120 Sitzung am 12. August 1925), Berlin 1925, pp. 3406-3407.
12 G. May, op. cit, p. 474.
13 Bundesarchiv Koblenz, Kleine Erwerbung Ludwig Kaas KlErw 190, KlErw 190/1: Niederschrift zur Außenpolitik 1928.
14 H. Hürten, Deutsche Katholiken 1918-1945, Paderborn, 1992, pp. 96-97.
15 La lettera e l’accluso l’articolo de L’Osservatore Romano si trovano nell’Archivio segreto vaticano, Affari ecclesiastici straordinari, Germania 4° periodo, POS. 523


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