Reportage. Preti e poveri a Buenos Aires
Gli amici di padre Bergoglio
Negli anni Sessanta alcuni sacerdoti vanno a vivere nelle baraccopoli degli immigrati della capitale argentina per sostenerli nelle lotte politiche e sociali. E vengono cambiati dalla devozione semplice di quelli che volevano istruire. Storia di un’avventura cristiana che continua. Con l’aiuto della Vergine e dei santi
di Gianni Valente
La processione in onore di san Pantaleo parte dalla parrocchia di Nuestra Señora de Caacupé, a Villa 21
Il poeta Charles Péguy, forse pensando alla parabola del fariseo e del pubblicano, scrive che il ricco quando prega parla, il povero domanda cose che servono alla vita: la pace in famiglia e nel mondo, la guarigione di una persona cara, la salute dell’anima e del corpo. Nelle villas miserias – le favelas argentine, a metà strada tra baraccopoli e quartieri operai – non è difficile ammalarsi. A Villa 21, poi, c’è anche il Riachuelo, il «fiume schifoso, il più inquinato del mondo» – lo dicono loro – che scorre qui a lato appestando l’aria coi suoi miasmi. Una parte della Villa è cresciuta sulle montagne di immondizia delle discariche abusive, Dio solo sa cosa c’è lì sotto. Quando ogni giorno, più volte al giorno, i treni merci tagliano senza chiedere permesso il groviglio di strade di terra, i muri delle casupole tremano come cartone e ogni tanto qualcuno – quasi sempre bambini travolti nei loro giochi di strada – ci rimette le gambe. E poi ci sono le altre malattie, le stesse che assillano gli agglomerati marginali di tante periferie urbane del Sud del mondo: i chicos devastati dal paco, la droga per poveri fatta coi residui di fabbricazione della cocaina; i niños de la calle, gli ubriaconi che picchiano le mogli, le mille storie deragliate, le famiglie spezzate, le vite in bancarotta dei tanti che hanno mollato. Compresi quelli che la crisi economica del 2001 ha buttato per strada, dopo che le banche coi loro tassi d’interesse gli avevano rubato la casa.
Ce n’è tanta, di gente che deve guarire. Ma insieme a tutto questo, c’è anche una corrente di vita buona, una linea di guarigione che col tempo si espande, nei giorni aggrovigliati e affaticati dei villeros.
«È stato padre Pepe», dicono tutti. Dicono per esempio che da quando a Caacupé c’è lui, padre José “Pepe” di Paola, coi suoi amici – padre Facundo, don Charly, il diacono Juan e tutti gli altri – la gente non si ammazza più per strada. I paraguaiani non fanno più a coltellate coi boliviani. Ma se glielo accenni, lui ti dribbla subito con la sua risata fragorosa e contagiosa: «Non ci siamo inventati niente», dice, «ci siamo solo messi dietro ai Guaraní che oggi abitano nella Villa e ai santi che si sono portati dai loro villaggi, quando arrivarono qui in città». Anche da loro Pepe ha imparato che si combina poco, se non si sta in simpatia alla Vergine e ai santi. E prima di lui, l’aveva imparato anche padre Daniel.
Padre Charly e padre Pepe durante la misa de sanación in onore di san Pantaleo medico e martire. Il vescovo Oscar Ojea impartisce l’unzione degli infermi
Le canzoni popolari del barrio lo raccontano come «el angel de la bicicleta», quella su cui all’inizio degli anni Novanta sarebbe morto travolto da un bus. Invece i murales naïf sparsi per la Villa lo ritraggono con le braccia aperte, mentre sbarra la strada ai bulldozer che stanno spianando le baracche dei villeros. Era il 1978, e il regime aveva deciso di ripulire la città, prima che arrivassero i Mondiali di calcio. Lo chiamavano plan de erradicación. Daniel de la Sierra, il prete claretiano che tirò su la chiesa di Nuestra Señora de Caacupé a Villa 21, si metteva in mezzo col suo corpo inerme per la resistenza passiva alla violenza delle topadoras. E come lui facevano gli altri sacerdoti dell’equipo de los curas de la villa. Quelli che già durante il Concilio avevano scelto di istallarsi nelle bidonville bonaerensi che si gonfiavano degli emigranti provenienti per lo più dal Paraguay, dalla Bolivia e dalle provincie povere del nord argentino (Tucumán, Santiago del Estero, Jujuy, Salta, Missiones, Corrientes), per confessare l’amore di Cristo in mezzo a los cabecitas negras, condividendo in tutto la vita di quelli che il resto della città considerava gente mala, vagabondi pericolosi, mezzi furfanti da cui stare alla larga.
I curas villeros erano preti terzomondisti, su questo non ci piove. Andavano alla Villa per testimoniare che Cristo stava coi poveri. Volevano coinvolgersi con piglio generoso nelle lotte popolari di quegli anni. Ma quando arrivavano, e la gente si accorgeva che erano preti, cominciavano le richieste: «Olà padre, tengo due chicos da battezzare»; «quando comincia il catechismo?»; «c’è messa domenica prossima?». «La sorpresa», ha scritto Jorge Vernazza, uno dei pionieri, scomparso nel 1997, nel libro che racconta la loro storia, «era paragonabile solo alla nostra ignoranza circa il sentire reale della gente… Talvolta tra noi si parlava di cercare una “fede autentica”, ma ci si aspettava di più dai “gruppi di riflessione evangelica” che dai tradizionali metodi di diffusione della fede… la realtà della gente delle villas con la quale ci coinvolgevamo con generosità e senza pregiudizi, finì per aprirci gli occhi davanti alla ricchezza della devozione propria del popolo». Così, i curas villeros si misero a costruire cappelle dai nomi inequivocabili (Santa María Madre del Pueblo a Bajo Flores, Cristo Obrero a Villa de Retiro, Cristo Libertador a Villa 30) dove celebrare battesimi, matrimoni e funerali, recitare rosari, organizzare processioni, nello stesso momento in cui ogni giorno lavoravano per sostenere le istanze materiali e politico-sociali dei villeros: commissioni per l’acqua, per le fogne e l’elettricità, per far arrivare anche alle villas un minimo di assistenza sanitaria, resistenza organizzata ai piani di demolizione periodicamente messi in campo dai diversi regimi militari, cooperative edili, mense popolari. Alcuni tra loro non nascondevano il proprio esplicito schieramento politico con la sinistra peronista: nel 1972, sull’aereo che riportava Perón in Argentina per il suo ultimo effimero ritorno al potere, c’era anche padre Vernazza insieme a Carlos Mugica, il sacerdote martire di Villa de Retiro, freddato dai proiettili dei paramilitari l’11 maggio 1974, mentre tornava a casa dopo aver celebrato messa (vedi box). Ma la propria immanenza alla vita reale delle villas li esponeva a incomprensioni di segno opposto. C’era chi li considerava sovversivi in tonaca, preti contaminati dalla propaganda marxista: sull’altro fronte, anche gli intellettuali della sinistra esterofila, compresi quelli di matrice ecclesiale, non trattenevano il loro illuminato disprezzo verso villeros così presi dai 2957504"> di Buenos Aires e il progressismo malinteso di alcuni ecclesiastici che magari venivano dall’Europa con una certa mentalità illustrada, illuminata. Da una parte c’era chi aveva visto e seguito la fede del popolo, il suo modo di viverla ed esprimerla. Dall’altra c’era la superbia di chi veniva da fuori a dar lezioni».
I cuochi del barrio preparano la minestra di carne e mais da distribuire durante la festa parrocchiale di santa Maria del Carmen, a Ciudad Oculta, la villa miseria nel quartiere di Mataderos. Insieme a loro c’è anche il cardinale Bergoglio
Dalla metà degli anni Ottanta anche in America Latina cambiano gli slogan con cui si fa carriera ecclesiastica. Viene apprezzato chi polemizza con la Teologia della liberazione. Nelle analisi dei nuovi conferenzieri ecclesiali à la page, compresi quelli che flirtano col liberismo montante, anche i curas villeros vengono considerati come un riflesso locale del terzomondismo cattolico in via di liquidazione.
Ma le villas, a Buenos Aires e in tutte le metropoli argentine, continuano a esistere. Passato il tempo feroce della dittatura, tornano a gonfiarsi anche con le masse di nuovi poveri, comprese quelle prodotte negli ultimi anni dal miraggio liberista di fine Novecento. I curas villeros continuano a condividere le vicende e gli affanni quotidiani del popolo che hanno scelto di seguire. Nei loro quartieri off-limits, dove i tassisti non entrano e non si avventura neanche la polizia, loro rimangono fedeli ai gesti più semplici della fede della loro gente: continuano a recitare rosari, costruire cappelle, celebrare tutte le feste della Vergine. Senza quasi volerlo, custodiscono tesori di devozione che altri sembrano aver perduto, tra un programma di coscientizzazione e una strategia di egemonia culturale.
«Un’icona in ogni casa, un’edicola in ogni incrocio»: questo aveva in animo per la sua Villa Rodolfo Ricciardelli, uno dei fondatori del movimento dei sacerdoti per il Terzo Mondo, che fu anche uno dei primi membri dell’equipo de los curas villeros, morto lo scorso 14 luglio dopo due anni di malattia. Lo ha ricordato il cardinale Bergoglio, celebrando i suoi funerali nella chiesa di Bajo Flores davanti alla gente del barrio – bambini, vecchiette, operai, i vecchi compagni e anche quelli nuovi, il drappello di giovani preti, tra i trenta e i quarant’anni, che oggi lavorano nelle villas. Quelli che continuano a camminare sulla strada iniziata da Mugica, Vernazza, Ricciardelli, padre Daniel de la Sierra. E tutto sembrano, meno che epigoni nostalgici di una stagione ecclesiale passata. «Il tempo che scorre rende più chiare le cose», spiega Guglielmo, parroco a Villa Retiro, nella chiesa di Cristo Obrero dove ora è sepolto Mugica. «Si vede meglio che anche per i primi l’unico criterio era il Vangelo. Amare i poveri vivendo in mezzo a loro, come ha fatto Gesù. Per alcuni di loro, in quel tempo difficile, ciò voleva dire anche coinvolgersi nelle lotte politiche. Ma questo aveva a che fare con le circostanze dell’epoca». Adesso, decantati i residui di ideologia, intorno al lavoro dei curas villeros cadono equivoci e malintesi. E fioriscono provvidenziali prossimità. «Lavoriamo con lo stesso spirito di chi ci ha preceduto», spiega padre Gustavo, parroco a Villa Fatima: «Le situazioni e i problemi sono diversi, ma ci unisce a loro la cosa più importante: l’ammirazione e la premura per la fede del popolo e per le sue devozioni». Dopo tante incomprensioni anche ecclesiali, al loro fianco c’è il vescovo. «Padre Bergoglio» racconta Gustavo «manifesta col suo stile l’opzione preferenziale per i poveri. Ha istituito tante nuove parrocchie nei quartieri operai. È stato lui a propormi di fare il prete in una villa, e lo ha chiesto anche ad altri sacerdoti appena usciti dal seminario». Tre anni fa i sacerdoti dell’equipo delle villas miserias erano meno di dieci, adesso sono una ventina, quasi tutti giovani. Ogni tanto, l’arcivescovo esce dalla curia di Plaza de Mayo e prende la metro, poi sale su qualche autobus, e si presenta in una o l’altra delle villas a benedire nuove mense popolari, celebrare battesimi e cresime, inaugurare nuove cappelle, far festa al santo o alla Vergine a cui è dedicata la parrocchia. Magari gli capita di fermarsi a mangiare con loro el locro, la minestra di carne e mais che cucinano all’aperto in enormi pentoloni. E intanto si rincuora, come un padre che guarda i suoi bambini giocare, perché «fa bene all’anima vedere cosa il Signore sa fare in mezzo ai suoi figli prediletti».
Padre Gustavo Carrara apre la piccola cappella di Santa Teresita del Niño Jesus, a Villa 3
All’ultima festa di san Cayetano, durante l’omelia, padre Bergoglio lo ha chiesto a tutti quelli che aveva davanti: una parte delle centinaia di migliaia di argentini che come ogni anno erano accorsi a intasare il quartiere periferico dove sorge il santuario, per chiedere grazie al santo del pane e del lavoro o per ringraziarlo di quelle ricevute. «Vi faccio una domanda: la Chiesa è un posto aperto solo per i buoni?»; e tutti in coro: «Nooo!». Il cardinale, di rimando: «C’è posto per i cattivi, anche?»; e gli altri, ancora tutti insieme: «Sìììì!!!». «Qui si caccia via qualcuno perché è cattivo? No, al contrario, lo si accoglie con più affetto. E chi ce l’ha insegnato? Ce lo ha insegnato Gesù. Immaginate, dunque, come è paziente il cuore di Dio con ognuno di noi».
Alla parrocchia di padre Pepe la vedono allo stesso modo. L’unica cosa che c’è da fare è tenere aperte le porte, rendere le cose più facili. «Qui tutti sanno che durante tutto l’anno si può venire alla parrocchia e fare la comunione o la cresima dopo qualche lezione di catechismo. Per i battesimi, basta arrivare un quarto d’ora prima della messa». L’ultima volta, nella festa di san Giovanni Battista, gli adulti che si son fatti cresimare erano più di centocinquanta. «La gente lavora, desde lunes hasta sábado. Bisogna tenerne conto: non bisogna imporre nessuna zavorra alle persone. Noi confidiamo nel lavoro della grazia, più che nello stratagemma di allungare i corsi di preparazione».
Sarà per la fiducia nella grazia, e per la “combutta” continua con la Vergine e i santi, che intorno al lavoro di Pepe e degli altri giovani curas villeros si assiepa e cresce una trama di vita sorprendente, un vortice spumeggiante di fatti, iniziative, cose da fare. Nella sola Villa 21, catechismo per mille bambini e adolescenti coinvolti nel “movimiento Exploradores” (una specie di gruppo scout salesiano fatto in casa), otto comedores, le mense popolari dove mangiano ogni giorno ottocento persone, appoggio scolastico quotidiano per seicentocinquanta chicos, scuole di calcio, di musica e di cucito, case per il recupero dei ragazzi drogati e dei niños che vivono nella strada, e poi, «per i chicos più rivoltosi», quelli che non vanno a catechismo, c’è la murga, “banda” di danzatori e tamburini («ma cominciamo sempre con un’Ave Maria, e la divisa è azzurra e bianca, perché sono i colori del manto della Vergine»); e ancora, i ritiri spirituali per i gruppi degli uomini e delle donne, per le famiglie… Una rete di carità traboccante e spensierata, dove c’è sempre tempo per tentare qualcosa, e c’è sempre qualcosa da tentare, per aiutare qualcuno a non perdersi, per chiedere che si riaccenda la speranza in chi sembra già perduto. Facendosi guidare da quello che succede.
Nel 2001, ad esempio, quando l’economia argentina è collassata, gli effetti sulla gente della villa sono stati devastanti. E anche quando le cose sono iniziate ad andar meglio, nessuno riusciva più a trovare lavoro, neanche qualche changa nelle case dei ricchi, «perché quelli delle villas non se li prende nessuno». Pepe e gli amici hanno capito che bisognava fare qualcosa. Così, chiedendo aiuto anche alla diocesi di Como, è nata la scuola professionale di Avenida Pepiri, dove cinquecento ragazzi della Villa stanno imparando a diventare elettricisti, marmisti, meccanici, fabbri. E panettieri, che tutta la settimana preparano il pane per i comedores della Villa. Adesso, le energie sono concentrate sul progetto di recupero dei drogacitos: nei fine settimana, il gruppo degli uomini della parrocchia va fuori città, per tirar su tra una messa e un asado la fattoria dove i ragazzi drogati che lo vogliono andranno a disintossicarsi. «È sulla strada per Luján, vicino al santuario», ammicca Pepe, «così anche la Vergine ci mette le mani…».
Il circuito di vita buona che attraversa la Villa è tutto intessuto intorno alle otto cappelle coi murales colorati e alle decine di edicole che Pepe e i suoi amici hanno sparso per vicoli e cortili: una rete di decine di luoghi dove pregare, dir messa, recitare rosari. E dove ogni occasione è buona per consacrare qualcuno – i bambini, gli uomini, le donne, i vecchi – alla Vergine paraguagia di Caacupé, o a quella boliviana di Copacabana, o a quella argentina di Luján, o a san Cayetano, a san Biagio, a San Giovanni, o a san Pantaleo. L’ultima volta è successo a trenta coppie di villeros, che Pepe aveva chiamato a un ritiro spirituale di due giorni nella Santa Casa di Avenida Independencia: «C’era anche il vescovo Oscar. Abbiamo pregato, celebrato messa, parlato delle pene e delle allegrie, e poi tutti i coniugi si sono consacrati alla Virgen de Luján. Qualcuno si è commosso. Alla fine, alcune coppie sono venute a chiedermi di celebrare in chiesa il loro matrimonio». Perché «sono parecchi, nella Villa, quelli che vivono insieme da anni, e stanno crescendo i loro figli, senza essere sposati…».
Il cardinale Bergoglio saluta i fedeli davanti al santuario di San Cayetano, nel giorno della festa del santo “del pane e del lavoro”
«Gracias, san Expedito, por tu milagros», sta scritto su uno striscione all’ingresso della Villa, nel barrio di Zavaleta. Il soldato romano, il santo delle cause urgenti, quello da cui tutti corrono quando il tempo si è fatto breve e il tunnel sembra senza uscita, trova sempre nuovi amici, nelle villas e in tutta Buenos Aires. Il miracolo che chiedono non è la rivoluzione, il mondo perfetto, ma una vita tranquilla, la salute dell’anima e del corpo, che ci sia un lavoro da fare per cui alzarsi la mattina, e che i ragazzi non si perdano nel labirinto nero della droga, dove tutto diventa buio. Per questo, come dice lo slogan della parrocchia, «Caacupé calla, reza y trabaja por su barrio»: Caacupé sta in silenzio, prega e lavora per il suo quartiere. Ora et labora. Come già succedeva più di trecento anni fa nelle reducciones dei Guaraní, anche qui a colorare i giorni non è il miraggio di un sogno da raggiungere, ma le gocce di quotidiana carità che irrorano la routine dei gesti e momenti ordinari. Quella silenziosa e senza misura che senza neanche accorgersene sparge intorno a sé Chula, la mamma di cinque figli che ogni giorno, nella sua casa trasformata anche in cappella, prepara la merenda e la cena per quaranta bambini della Villa, «perché lo avevo promesso a san Cayetano, se mio marito trovava lavoro». O quella di Pablo Ramos, arrivato dal Paraguay dopo essere scampato alle torture dei militari («ma si confondevano, noi eravamo della gioventù francescana, non facevamo male a nessuno»), che avrebbe voluto studiare da architetto, ma non ha rimpianti, e rende grazie a Dio perché nella Villa gli hanno dato modo lo stesso di costruire la cappella di San Blas, e per i suoi due «chicos flamantes», i suoi due splendidi figli «che quando li guardo così, mi danno forza e vita también».
Intanto, i missionari e le missionarie della parrocchia stanno distribuendo nelle casupole del barrio una nuova statuetta. La chiamano «el Cristo de la villa». L’hanno disegnata i ragazzi marmisti e scultori della barrio scuola di Pepiri, «dopo che i settari della Iglesia universal», racconta Pepe, «erano andati in giro a calunniarci, dicendo che noi predichiamo un Cristo morto». L’immagine l’hanno anche riprodotta sul murale della chiesa. Gesù sorride vittorioso e rassicurante, mentre sotto i piedi schiaccia la testa di un serpente. La mano che benedice è alzata verso il cielo, col braccio teso, come fanno i goleadores negli stadi quando segnano. «Se lui gioca con noi», dice Pepe ridendo, «anche quest’anno vinciamo il campionato».