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RIFLESSIONI
tratto dal n. 11 - 2008

Romania, un’eco che viene dall’anima


Il vescovo emerito di Civitavecchia racconta il suo amore per le aree rurali della Transilvania, così simili alle campagne della sua Calabria. E mostra i profondi legami umani che ci legano a quelle popolazioni


di Girolamo Grillo


Casa San Giuseppe di Odorhei, in Romania

Casa San Giuseppe di Odorhei, in Romania

Mi si domanda, talvolta, perché mai da alcuni anni trascorro le mie ferie estive in Romania. Non nascondo, in verità, che a spingermi verso quella nazione siano state soprattutto le suore romene, con la loro presenza nella mia abitazione vescovile di Civitavecchia. Ma se dovessi enumerare le ragioni di questa mia attrazione particolare, dovrei cominciare da lontano e soffermarmi su tante prospettive legate a motivazioni che si sovrappongono l’una sull’altra.
Lasciando da parte gli aspetti strettamente spirituali che per me, come è ovvio, sono il pane quotidiano, il vero motivo è che recandomi per la prima volta in Romania sono stato colpito dal fatto che, quasi in un attimo, nel cuore della Transilvania, mi sono ritrovato come quando ero bambino o ragazzo di campagna negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso.
L’impatto con la cultura romena durante il tragitto che, attraversando le gole dei Carpazi, da Bucarest va a Odorhei fu veramente straordinario. Improvvisamente un’eco lontana risuonò dalla mia anima. Sì! Proprio così: un’eco che veniva dall’anima.
Ero seduto accanto a un piccolo scrittoio situato in una stanzetta che mi era stata assegnata nella Casa San Giuseppe di Odorhei. Da lì, attraverso una finestra, osservavo un grande bosco che mi si parava davanti con le stesse caratteristiche delle radure della mia Calabria. Ne nacque una riflessione, successivamente pubblicata in Italia, in un libro dal titolo: Un’eco che viene dall’anima (Marietti, Milano). Un volume che non può essere compreso se non attraverso quest’ottica. Esso, infatti, è soltanto apparentemente un’autobiografia, ma, in effetti, non vuole essere altro che un raffronto antropologico, sociologico e psicologico tra il mondo della Calabria di circa settant’anni fa e quello attuale di molte zone della Transilvania, e naturalmente di altre aree ancora più povere e depresse della Romania.
È stato come un irrefrenabile ritorno indietro nel tempo. Accade spesso, infatti, che quanti amano la sociologia facilmente si addentrino nel campo dell’antropologia e della stessa psicologia del profondo. Niente di strano, quindi.
Certamente chi finora ha avuto tra le mani Un’eco che viene dall’anima non sarà riuscito, peraltro, ad andare oltre le varie linee autobiografiche che pur ci sono.
A richiamare alla memoria la vicenda umana di quel bambino di Calabria, non sono stati forse i ragazzi della stessa Casa della quale ero ospite? Quante volte ho avuto modo di ritrovarmi nel volto di quei bambini, nella storia della loro non facile esistenza, dei loro tuguri e delle tante ristrettezze familiari, morali, economiche e sociali. È proprio vero che il sociologo ha mille modi per condurre un’indagine. Ma il modo migliore è aderire strettamente alla realtà da descrivere ponendo la massima attenzione ai dettagli.
Quei ragazzi hanno spesso parlato dei propri genitori, delle proprie madri e dei propri padri. Ed ecco allora il confronto con mamma Elisabetta e con papà Francesco. È proprio a questo punto che verranno richiamati l’aspetto psicopedagogico, l’educazione ricevuta in famiglia, il problema dell’emigrazione dalla propria terra di origine, il mestiere del lavavetri, eccetera.
Il discorso sulla genitorialità vale, come è ovvio, sia per i ragazzi di Calabria che per i ragazzi della Casa San Giuseppe in Romania. I genitori di un ragazzo, qualunque sia la loro cultura, rappresentano una scommessa impegnativa sul piano della comprensione, come il paradosso secondo il quale il totale è diverso della somma delle sue parti. Si tratta, infatti, di un’esperienza che ha il carattere della definitività e della irreversibilità. Essa può passare attraverso la dimensione della corporeità e della sessualità, ma è soprattutto una faccenda di cuore, una scoperta squisitamente pedagogica, che spiega perché molti possono essere madri e padri, ma non veri e propri genitori. Quando quegli stessi ragazzi hanno visto piangere la loro direttrice per la morte della madre, le hanno detto: «Suor Emilia, ora che anche tu hai perduto la mamma certamente ci capirai meglio».
Un altro confronto interessante è tra la maniera di giocare di molti ragazzi della Casa di Odorhei e quella dei ragazzi di via Montanara, nel mio borgo natale. Sì, è vero: mi sono soffermato a lungo a guardare il gioco di quei ragazzi, che rappresenta una delle fonti più importanti di socializzazione, soprattutto perché impegna a riconoscere gli alleati e gli avversari, valorizzando la capacità di perseguire un obiettivo comune nel rispetto delle regole.
Il gioco dei ragazzi di Odorhei e di via Montanara rappresenta un contributo per allentare la tensione e lo stress della vita quotidiana, permette di recuperare una relazionalità in cui si condivide davvero il piacere di stare insieme, fa scoprire una gratuità che sostituisce la ricorrente strumentalità degli scambi sociali, offre la possibilità di mettere in comune con una certa generosità gli interessi e le disponibilità soggettive.
Parlando con gli stessi ragazzi (in uno stentato romeno), ho capito come la loro vita fosse anche stracolma di aspetti antropologici che mi rimandavano agli anni della mia infanzia e della mia adolescenza.
Ben conosciamo, ad esempio, il problema migratorio nelle sue molteplici sfaccettature umane e disumanizzanti: ed ecco, allora, nel libro, la vicenda di Mino, figlio di un emigrato calabrese negli Usa; un ragazzo che conosceva bene la tristezza del “lavavetri”.
Con la stessa prospettiva sono state affrontate altre questioni importanti:le figure più significative del proprio borgo, le ingiustizie subite a opera dei dittatori di turno, il rapporto tra ricchi e poveri. Non sempre tutti i lettori di Un’eco che viene dall’anima sono riusciti a comprendere che ogni episodio narrato è stracolmo di antropologia culturale, di psicologia e di sociologia.
Ai ragazzi di Odorhei faceva alquanto impressione sentir parlare di ricchezza. Come i ragazzi calabresi degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, essi si sentivano felici rispetto ai coetanei che passavano i loro giorni in una relativa agiatezza, perché capivano che questi ultimi non avevano la possibilità di vivere con maggiore coerenza il sogno di un mondo migliore. In effetti, solo la povertà avrebbe consentito il salto di qualità dalla logica dell’avere e dell’apparire a quella dell’essere. Grazie ad essa, gli uomini hanno potuto inventare la condivisione e la solidarietà e potranno continuare a esperire nuove forme di prossimità. Non a caso il grido «Beati i poveri» è ancora lì, dopo duemila anni di storia, a significare la direzione di marcia da percorrere per dare senso all’esistenza.
Alla fine di questa digressione, vorrei esprimere viva gratitudine ai ragazzi di Odorhei, per avermi fatto sentire, più che vibrante, una voce che veniva da lontano quasi per dire: «Prendi la penna e scrivi». In questo lembo di Romania ho rivissuto ancora i giorni più belli di un passato sempre presente nella mia anima.
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