Il coraggioso padre Martina
Giulio Andreotti
Padre Giacomo Martina con la copia del suo ultimo libro Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814 -1983), edito da Morcelliana
In effetti, nella ricostruzione di un lungo periodo, che va dalla ripresa dopo la soppressione al “generalato” di padre Arrupe, la cronaca si svolge in un alternarsi puntuale di grandi eventi (come i rapporti tra la curia dei Gesuiti e il Vaticano) e di atteggiamenti di singoli padri all’interno e all’esterno dell’ordine. Sempre con la precisione e la serenità di questo grande storico.
Sullo sfondo vi è l’analisi della continua ricerca di punti di incontro tra modernità e tradizione. Di quest’ultima, intransigente e un po’ chiuso custode appare il preposito Janssen, mentre con padre Arrupe – reduce dalle bombe nucleari di Hiroshima – il salto di qualità andò forse oltre i limiti.
Ho letto con crescente attenzione le quattrocentoventisette pagine ponendomi sotto tre punti di vista: il debitum che ho verso la Compagnia per la mia formazione; i loro rapporti con la politica; le caratteristiche di alcuni padri molto contestabili.
La scuola – con il mio status di orfano di guerra – l’ho frequentata negli istituti pubblici. Un giorno potei dire a Fidel Castro, apprezzandone la sottigliezza dialettica, che lui mi batteva perché aveva studiato dai gesuiti. Ebbi però dai padri tre sussidi formativi. Il primo nella Lega missionaria studenti, dove, a parte l’ammirazione e lo stupore per le Chiese lontane, si imparava a conoscere il mondo autentico, ben oltre i testi di geografia; e con punte di vera specializzazione. Ad ognuno di noi era affidata un’area su cui riferire a fine d’anno. Così, quando, dopo la guerra, l’Indocina divenne un problema spinosissimo, io potei stupire attingendo ad una mia conferenzina del 1936.
Altro elemento formativo fu la congregazione mariana Mater Amabilis, diretta spiritualmente da un prelato della Segreteria di Stato – monsignor Antonio Colonna – ma ospitata presso l’antico noviziato dei gesuiti a Sant’Andrea. Si osservava una democrazia interna e il prefetto era eletto dai congregati a scrutinio segreto. Qui, ad un passo dal Quirinale, feci e vinsi le mie prime elezioni.
Ad aiutare monsignor Colonna venivano dall’Università Gregoriana alcuni professori. Ricordo l’austriaco padre Luigi Naber e l’italiano padre Agostino Tesio. Quando morì monsignor Colonna, lo sostituì il gesuita padre Giampietro: colto e molto pastorale.
Nella Mater Amabilis non vi era alcuna venatura politica. Monsignor Colonna ci raccontava, della Conciliazione del 1929 con l’Italia, due curiosi particolari. Era stato lui, esperto in matematica, a fare l’aggiornamento contabile dell’indennizzo che dopo Porta Pia era stato rifiutato e che l’Italia aveva ora pagato. Come autorevole minutante aveva anche partecipato alla cerimonia nel Palazzo lateranense, incaricato di passare l’asciughino sulle firme di Gasparri e di Mussolini.
In una vicina congregazione, la Prima Primaria, al Caravita, l’infiltrazione dei comunisti cattolici fu invece profonda, tanto da far estromettere dalla Compagnia il padre Giuliano Prosperini.
Terzo elemento per me incisivo fu la frequentazione con alcuni padri, a cominciare, giovanissimo, dal padre Garagnani, nelle sue stupende conferenze, fino agli incontri – alcuni molto intensi e qualche volta polemici – legati al corso della mia lunga vita pubblica.
Durante il liceo l’orientamento dominante nei professori non era tendenzialmente favorevole ai gesuiti, fatta eccezione – ma come grecista – per l’autorevole padre Rocci e per il suo vocabolario. Accenni critici alle vicende risorgimentali in verità non venivano molto analizzati, ma ricorrevano frequentemente.
In materia sono tornato molto più tardi, approfondendo attraverso la lettura dell’opera fondamentale del padre Martina la figura di Pio IX. Sul tema il padre è tornato anche nel saggio che sto recensendo. Vi si narra che alla vigilia del crollo di Porta Pia il Papa disse all’inviato regio conte Ponza: «Non sono profeta né figlio di profeti, ma vi dico che non entrerete o se entrerete non ci rimarrete». Non so se la previsione possa collegarsi – ma con una lunga attesa – alla estromissione della monarchia settantasei anni dopo. Ad ogni modo il Quirinale non fu propizio alla casa regnante: Vittorio Emanuele II morì prima di Pio IX a soli cinquantasette anni; Umberto I fu assassinato; Vittorio Emanuele III e Umberto II morirono in esilio. E fu tutto.
Del conte Ponza, si annota che ebbe un fratello gesuita, Alessandro; e la stessa caratteristica è sottolineata del garibaldino Nino Bixio: il fratello Giuseppe fu apostolo attivo in California e in Australia. Sono queste attraenti annotazioni, che rendono vivacissima la prosa del padre Martina.
La curia generalizia della Compagnia di Gesù in borgo Santo Spirito, nei pressi della basilica di San Pietro
Tuttavia una certa autonomia di giudizio non venne mai meno. Attratto, ad esempio, dal corporativismo, apparve a lungo il padre Brucculeri, ma sempre con attenzione a non intrupparsi tra i propagandisti del ventennio.
Anche nelle polemiche dottrinali la Civiltà Cattolica rispecchiò più che il pensiero della Compagnia, la direttiva del Vaticano (attenzione: non sempre coincidente con quella personale del papa; come è palese riguardo al controverso abate Rosmini).
Padre Rosa lo incontrai solo una volta per parlargli di un problema universitario. Faceva tenerezza per una nevralgia del trigemino che lo tormentava, ma mi riservò tanta attenzione e mi dette consigli preziosi per fronteggiare i cattolici comunisti senza fare demonizzazioni e ostracismi personali. Al padre Rosa fece seguito padre Rinaldi e quindi padre Martegani, finissimo diplomatico e perfetto sacerdote. In più occasioni mediò tra l’intransigenza voluta dall’alto verso i politici italiani di parte cattolica e l’intelligente comprensione per situazioni difficili, viste da vicino. A padre Martegani si deve la provvida novità del trasferimento a Villa Malta, sede di grande prestigio e di rara possibilità di raccoglimento in pieno centro di Roma. Passò poi alla curia generalizia con mansioni importanti. Quello che appare straordinario è la diversità di tipi umani dei direttori. Padre Sorge, ad esempio (non ho conosciuto padre Gliozzo), sembrò preoccupato di non invadere campi politici, ma di fatto si dedicò a far maturare a suo modo il “dopo” di una Democrazia cristiana di cui avvertiva il logoramento. Intensi i suoi contatti personali. Un personaggio notevole – Giovanni Spagnolli, già presidente del Senato – dopo essersi consigliato con lui decise di ritirarsi dalla vita politica. Io stesso in un colloquio a Villa Malta ebbi l’impressione di analogo suggerimento. Non lo seguii e forse feci male. Avrei risparmiato ad altri tante iniziative per estromettermi.
A dirigere la Civiltà Cattolica dopo padre Sorge fu chiamato padre Tucci, persona di grande comunicativa umana e politicamente extra partes. Nei nuovi indirizzi della Chiesa, con i viaggi apostolici del Papa, occorrevano collaboratori di classe per la preparazione, sia organizzativa che culturale. Al primo compito fu preposto il vescovo americano monsignor Marcinkus (più tardi coinvolto, a mio avviso ingiustamente, in polemiche parabancarie vaticane ed ora esemplare sacerdote in cura d’anime nell’Arizona). Padre Tucci – ora cardinale, residente a Villa Malta – con grande finezza e molta apertura verso le caratteristiche dei Paesi visitati e le gerarchie locali, si occupava della preparazione intellettuale e politica delle trasferte papali.
La statua di Gesù all’interno del giardino della curia generalizia della Compagnia di Gesù
Un secondo aspetto del libro di padre Martina riguarda il rapporto dei gesuiti con l’evoluzione e le involuzioni della politica italiana, anche nella realtà del secondo dopoguerra. I tempi nuovi affrancavano i padri sia dal coinvolgimento secolare in opinabili indirizzi, come la tormentata polemica postemporalista, sia da condizionamenti talvolta acrobatici in un sistema italiano dittatoriale. Verso il partito politico di cattolici dichiarati occorreva benevola attenzione, ma non di più. Si inserisce qui anche il tema dell’atteggiamento di Pio XII verso De Gasperi. In una recensione ad un mio libro il padre Martina ha osservato che io cerco di minimizzare il contrasto; e forse è vero, dato uno stato d’animo di affetto verso il presidente e nello stesso tempo di grande devozione a papa Pacelli, anche per bilanciare le tante ingiuste critiche che continuano ad essere a lui rivolte.
Sulle elevate doti morali di De Gasperi persona, il giudizio ammirato di Pio XII è espresso nell’indirizzo rivoltogli nell’udienza del ventennale della Conciliazione, da lui minutato con cura. Non piaceva tuttavia al Papa la collaborazione governativa coi laicisti dichiarati né reputava sufficiente l’anticomunismo democratico. Dalle carte dell’allora monsignore (poi cardinale) Pietro Pavan, che svolse presso De Gasperi una missione affidatagli dal Pontefice nel 1952, si apprende che gli si chiedevano spiegazioni del perché non avessimo fatto come i tedeschi ponendo fuori legge il Partito comunista. In tale linea si colloca la benedizione papale alla improvvida, cosiddetta Operazione Sturzo sempre del 1952. Si era divisata la spoliticizzazione delle elezioni amministrative di Roma facendo confluire in un anonimo listone di benpensanti democristiani, monarchici e missini. A parte lo scarso interesse delle stesse destre, il sostegno del Papa fu immediatamente ritirato quando ebbi modo di fargli avere – tramite la fedele madre Paschalina – un appunto sulle conseguenze disastrose che l’evento avrebbe avuto per la sussistenza del governo De Gasperi. Noterò tra poco la parte che in questo pasticcio ebbe il padre Riccardo Lombardi sul quale il Martina ha – ed esprime – opinioni molto severe.
L’anno successivo, 1953, De Gasperi andò in crisi per l’abbandono dei suoi alleati storici, verso i quali l’elettorato era stato, per usare l’espressione di Saragat, “cinico e baro”. Allo sfiduciato ottavo governo De Gasperi subentrò il Ministero monocolore Pella che passò alle Camere per l’appoggio dei monarchici, che lo avevano invece negato a De Gasperi. Qui entra in giuoco come consigliere politico il padre Giuseppe Messineo, non solo panegirista del nuovo primo ministro, ma fustigatore in un duro articolo di tutta la politica degasperiana.
Qualche settimana più tardi esplose un contrasto tra il governo e i due gruppi parlamentari democristiani. In un proposito di rimpasto Pella aveva designato come ministro dell’Agricoltura l’onorevole Aldisio: democratico perfetto e artefice dello Statuto di autonomia della Sicilia. Di fatto la scelta appariva come antitesi o almeno forte correzione della politica riformatrice di Segni: di qui il veto democristiano, aggravato da una presa di posizione del Quirinale che contestava ai gruppi parlamentari, non tenendo conto che era nelle loro mani la “fiducia”, il diritto a escludere candidature.
Realisticamente Pella non si irrigidì, nonostante gli stimoli di padre Messineo a «tener duro, tanto dovranno venire in ginocchio a scusarsi». I labirinti della vita politica sono complessi e qualche volta inafferrabili anche per chi vive all’interno. Improvvisato consigliere del principe, il buon padre Messineo esercitò una perniciosa influenza. Intanto a minare il governo tecnico non erano De Gasperi né i deputati e senatori democristiani ma gli ex alleati governativi della Dc pentiti di essersi messi fuori giuoco silurando De Gasperi. Non trovarono però alcun riscontro nello stesso De Gasperi, mentre al progetto di restaurazione del quadripartito – numericamente possibile anche se con stretti margini – lavorò intensamente Mario Scelba, che in un discorso a Novara dette fuoco alle polveri. De Gasperi non era stato preavvertito e non condivise la manovra. Attribuire a lui la liquidazione di Pella è storicamente un falso. Comunque Scelba, che in verità nel luglio 1953 era stato trattato male (con lo spostamento – che rifiutò – dall’Interno alla Difesa) non beneficiò nell’immediato della liquidazione di Pella. All’interno della Dc il risentimento verso Saragat e gli altri affossatori di De Gasperi era molto forte. E non pochi si chiedevano perché mai gli ex alleati pentiti non favorissero il ritorno di De Gasperi alla guida del governo (stato d’animo in parte vero, in parte maggiore pretestuoso). Nacque così l’incarico a Fanfani per un monocolore che, secondo sprovveduti consiglieri, avrebbe ottenuto la non belligeranza sia dei monarchici che dei socialisti. Con mia grande sorpresa e preoccupazione, Fanfani volle me al Ministero dell’Interno e andò da De Gasperi a chiedergli di convincermi.
Un’illustrazione di Achille Beltrame raffigurante Pio XI con Benito Mussolini in un’udienza dell’11 febbraio 1932
Attraverso queste due travagliate esperienze e l’interregno per così dire amministrativo di Pella, la legislatura doveva ormai approdare ad una certa stabilità. E fu Scelba il candidato naturale. Padre Messineo fu costretto a riconoscere che nessuno era andato in pellegrinaggio a chiedere scusa a Pella per la vicenda Aldisio.
De Gasperi, pur in condizioni fisiche molto logorate, si dedicò intensamente ai problemi europei e a ricompattare la Democrazia cristiana. Scelba e Fanfani (governo e partito) erano elemento di stabilità; ma all’interno della Democrazia cristiana operavano fermenti di contrasto che al Congresso nazionale di Napoli a fine giugno furono solo in apparenza superati. Con uno sforzo fisico immane, De Gasperi parlò per molte ore, dettando un autentico testamento politico-morale.
Nel frattempo però lo stesso De Gasperi aveva avvertito l’esistenza di sottili manovre a lui ostili, ispirate forse dal timore di una sua possibile candidatura nel 1955 alla successione di Einaudi.
Si inserisce in questo quadro la falsa “lettera trappola” in cui cadde Guareschi su una sua richiesta agli Alleati nel 1944 perché bombardassero Roma. Ma vi fu purtroppo anche un articolo della Civiltà Cattolica nel marzo di quel 1954 dal titolo solenne I cattolici e la vita politica, autore il padre Messineo ma con annunciato accredito personale del Papa.
Raramente ho visto De Gasperi così amareggiato. Mi chiamò di mattina presto a Castel Gandolfo e lo trovai eccitatissimo. Aveva preparato alcune cartelle di note polemiche di commento e mi incaricò di scrivere un articolo di ferma risposta al padre.
Eppure aveva detto con chiarezza quale sarebbe stato il suo atteggiamento nelle tre ipotesi possibili. Se il Papa si fosse convinto della bontà delle sue tesi, benissimo. Se avesse detto che lasciava a lui nella sua responsabilità specifica le linee-guida, altrettanto bene. Se invece avesse espresso il suo dissenso, egli, cattolico osservante si sarebbe messo da parte. Più di così era impossibile.
Vedersi ora contestato in toto era troppo.
Gli dissi – ed era così – che non avevo ancora letto l’articolo e che mi sarei dedicato con cura alla redazione della risposta. Sapevo che, lasciando passare un giorno, la sua giusta ira si sarebbe attutita e poteva darsi luogo ad una replica meno polemica. Così fu. All’indomani tornai a Castello e potei suggerire che era meglio rinunciare alla replica. In verità lo scritto del padre Messineo era saccente e presuntuoso, ma non così politicamente offensivo come gli era sembrato.
Da una lettera del padre Messineo al padre Martina venti anni più tardi vedo che lo scrittore aveva tra l’altro attribuito a De Gasperi un discorso a Novara, confondendolo con quello, già citato, di Scelba.
Il messaggio di saluto di Pio XII (nella foto sopra) ad Alcide De Gasperi in occasione della sua visita in Vaticano l’11 febbraio 1949,nel ventesimo anniversario dei Patti Lateranensi
Una ovvia mia propensione a sottolineare risvolti politici non mi impedisce di ringraziare il padre Martina per aver messo in luce figure bellissime di suoi confratelli impegnati fortemente nella cura d’anime come eroici cappellani militari. E sono anche commoventi le pagine riservate ai gesuiti in Albania, con uno dei padri fucilato sotto quel perfido regime comunista.
Ma devo riservare qualche attenzione a tre figure cronistoricamente di spicco: il padre Tacchi Venturi, il padre Arrupe e il padre Riccardo Lombardi.
Il primo, che aveva vissuto tutto il tormento della Compagnia compreso l’esilio, è citato come l’ecclesiastico che aveva libero accesso a Palazzo Venezia e talvolta lo si definisce “il confessore di Mussolini”.
Sta di fatto che occupandosi del possibile acquisto della Biblioteca Chigiana che lo Stato aveva rilevato nel 1919 con l’omonimo palazzo si trovò a parlarne con Mussolini in persona, arrivato da pochi giorni al potere. Con un gesto munifico, appreso l’interesse del Papa alla questione, Mussolini decretò la donazione alla Santa Sede della preziosa Collezione. Un così eccellente mediatore venne ad avere di conseguenza grande e prestigiosa notorietà. Di qui, tre anni dopo l’incarico affidatogli dal cardinal Gasparri di trattare con don Sturzo l’abbandono della Segreteria del Partito popolare e, subito dopo, l’andata via dall’Italia.
L’intervento e la mediazione del padre lungo gli anni successivi furono richiesti con esito alterno per moltissimi casi personali. Non brillante il comportamento verso Buonaiuti, ma sul povero don Ernesto continuò l’ostracismo anche con due ministri “laici” alla Pubblica istruzione.
Il padre Tacchi Venturi fu autorevole collaboratore dell’Enciclopedia italiana.
Quanto scrive padre Martina su padre Riccardo Lombardi conferma un giudizio non positivo che ho sempre coltivato. Occorre però molta precisione al riguardo.
Il fine, che si riprometteva, di un profondo rinnovamento sia della Chiesa che dell’Italia era suggestivo. E negli scritti sul primo dei progetti si trovano non pochi spunti di quella che fu la successiva stagione conciliare. Purtroppo si riteneva, per usare una dizione canonica, immediatamente soggetto solo a se stesso ricevendo gli stimoli direttamente da Gesù. Tanto è vero che alza bruscamente la voce ritenendo in errore il patriarca Roncalli, ma ha uno scatto collerico anche in udienza da Pio XII che è costretto a rammentargli chi era il Papa.
La crociata del padre Lombardi si svolse non solo per le piazze d’Italia – affollate, eccitate e plaudenti – ma nelle lingue del posto in molti Paesi esteri. Annunciava ovunque un grande riscatto sociale, profetizzando che il potere sarebbe stato conquistato dalle plebi. Osserva il padre Martina che l’effetto negli Stati Uniti era limitato per una scarsa conoscenza dell’inglese. Ma anche l’ambasciatore del Brasile osservò che per fortuna credeva di parlare portoghese.
Si diceva che le sue antipatie per De Gasperi e un po’ per tutto il sistema postbellico derivassero anche dal trattamento di epurazione che aveva colpito suo padre, autorevole professore e senatore del Regno. Di altro avviso era invece la sorella Pia, distinta parlamentare democristiana. Al fratello Gabrio si dovette più tardi il referendum contro il divorzio, in sé ineccepibile («non possiamo vietare» disse Paolo VI «il ricorso ad un mezzo legittimo per cancellare una legge che riteniamo ingiusta») ma causa di un forte indebolimento del peso politico dei cattolici. L’ostilità al divorzio fu percentualmente più forte nelle due Camere che nel voto popolare, non esclusa la città di Roma.
Sarebbe però scorretto stigmatizzare globalmente il padre Lombardi non riconoscendo – a parte la sua buona fede – la bontà di alcune sue iniziative, a cominciare dalle Esercitazioni per un mondo migliore. Innovando sullo schema ignaziano degli esercizi, dove i fedeli osservano in clausura più giorni di rigoroso silenzio, ascoltando le meditazioni e le riforme della guida spirituale (ricordo l’aulico padre Marchetti) il modello di padre Lombardi era un dibattito serrato tra tutti i partecipanti, scelti di norma in categorie omogenee. Due volte partecipai ad un turno per i politici e devo dire che furono giornate affascinanti e costruttive.
Diverso era il padre Lombardi nelle cose terrene. La sera del fallimento dell’Operazione Sturzo mi fece al telefono una lunga paternale sostenendo che dovevo assolutamente trovare la formula per ripristinare il disegno cosiddetto sturziano (in verità suo e di Gedda). Ero stanco e molto teso per il rischio al quale la vita politica era stata esposta e alla fine gli dissi seccamente che non so cosa intendesse fare lui, ma per mio conto me ne andavo a dormire. Riattaccai bruscamente il telefono e con grande carità il padre in seguito non mostrò di rammentarsi lo sgarbo.
Al ricordo di padre Lombardi si abbina quello di padre Rotondi, sua “spalla” per molti anni, ma con conquista progressiva di autonomia per dar vita ad un movimento (l’Oasi) di intensa spiritualità. Per una combinazione avevo assistito molti anni prima al Leoniano di Anagni – dove Virginio era seminarista – alla chiassosa reazione dei suoi familiari ai quali stava annunciando la decisione di entrare nella Compagnia.
Ai motivi già illustrati di riconoscenza personale debbo aggiungere uno, singolare, vissuto poco dopo la nomina a presidente della Fuci. In vista del Congresso nazionale vi era l’abitudine di chiedere in giro qualche contributo, dato che gran parte dei fucini dovevamo ospitarli gratis. Dalla curia generalizia dei gesuiti ricevemmo un riscontro, di grande condivisione per l’iniziativa e per i temi programmati, accompagnato dall’annuncio che per la buona riuscita sarebbero state celebrate cento messe. Il Congresso, nonostante le enormi difficoltà belliche, andò benissimo. L’insegnamento che l’uomo non vive di solo pane colpì molto me e tutta la presidenza.
Tra i grandi sommovimenti del dopoguerra vi fu anche la bufera interna della Compagnia. Correnti profonde di rinnovamento ecclesiale movimentarono la Chiesa in molte regioni del mondo. Impulsi contrapposti si incrociarono, nel tentativo di arginare sia le correnti dissacranti del comunismo internazionale, sia l’aridità spirituale di una società capitalista sempre più disumana.
Truppe scelte per le battaglie di Dio, i gesuiti risentirono più di altri della congiuntura. Si imponeva loro di adottare innovazioni effettive, ma senza compromettere le linee maestre della tradizione.
Se nell’America Latina si scatenarono entro la Chiesa i cosiddetti movimenti di liberazione, simboleggiati congiuntamente dal Vangelo e dal fucile, un po’ dovunque fermenti molto intensi scossero le situazioni mettendo in crisi specialmente i soggetti più deboli e provocando dolorose fuoriuscite.
Caratteristica della Compagnia è la fedeltà indiscussa al Papa. Forte era ancora l’eco del caso Billot, con la conclusione della rinuncia alla porpora del gesuita francese simpatizzante per l’Action Française contro l’avviso della Santa Sede. Questa volta non erano però così isolati, ma la richiesta molto diffusa, specie nei padri più giovani, di ridiscutere anche i punti fermi essenziali della preparazione e dell’apostolato nella Compagnia.
Il funerale di padre Arrupe il 9 febbraio 1991. Sono riconoscibili il cardinale Carlo Maria Martini, padre Peter-Hans Kolvenbach e Giulio Andreotti
Ho già accennato altrove a colloqui con il padre Arrupe nella mia abitazione, dalla quale si vede dall’altra parte del fiume la statua del Cristo sovrastante la curia generalizia. L’occasione immediata delle riservate visite erano alcuni problemi particolari della Compagnia da affrontare senza la rigidità dei rapporti formali Chiesa-Stato. Ma forse non dispiaceva al padre di potersi sfogare senza rischi di indiscrezioni e con una intuita comprensione del suo dramma.
Più tardi sempre in casa mia ebbi modo di conoscere da vicino una delle crisi personali che tanto angosciavano il padre generale. Ad un gruppo di ragazzi, amici dei miei figli, era aggregato uno meno giovane di loro, vestito sempre in jeans e maglioncino. Seppi che era un importante gesuita brasiliano ed ero incoscientemente lieto di sapere che vi fosse un assistente ecclesiastico nella comitiva. Un giorno i miei figli mi dissero che il “padre” aveva detto loro che la Chiesa non era più quella affascinante di un tempo; e lui per così dire abbandonava la veste, perché non gliela avevo mai vista indossare. Forse feci male, ma commentai rievocando quel che diceva Pio XI dinanzi alle crisi dei sacerdoti: «Come si chiama la signora?». I ragazzi si scandalizzarono, ma, mogi mogi, pochi mesi dopo mi dissero che il padre si sposava.
Sarebbe stolto attribuire la grande crisi che fronteggiò padre Arrupe con un problema di ragazze. Vi era un turbamento diffuso, culturale e sociale, verso il quale occorreva comprensione e rispetto. Non era possibile fustigare uomini che con fedeltà e sacrificio si erano formati e avevano lavorato per molti anni al servizio di Dio. Occorreva prudenza, moderazione, fiducia.
Tra le giornate più sofferte della sua vita vi fu quella nella quale dovette dar lettura del severo richiamo che, pur nel suo brevissimo pontificato, Giovanni Paolo I aveva indirizzato all’Ordine perché i padri «non si sostituissero ai laici trascurando il proprio dovere specifico dell’evangelizzazione».
Il 7 agosto 1981, al rientro da un viaggio in Estremo Oriente, padre Arrupe, colpito da un ictus cerebrale, designava vicario generale l’americano padre O’Keefe, un libero pensatore del momento (pessima una sua intervista ad un giornale olandese). Ma intervenne il Papa con la nomina del padre Dezza (più tardi cardinale) a delegato speciale, incaricato di predisporre la congregazione generale, convocata per il 2 settembre 1981. Il giorno successivo venivano accettate le dimissioni del padre Arrupe ed eletto al suo posto il padre Peter-Hans Kolvenbach, tuttora alla testa della Compagnia.
Certamente sono stati anni di grande bufera quelli sofferti in diciotto anni a borgo Santo Spirito dal padre Arrupe che morì nel 1991. Ma anche il suo successore non ha avuto vita sempre facile con il Vaticano. Padre Martina lo illustra in modo efficace pur se alcuni dissensi non sono facili a comprendersi all’esterno (come l’opposizione alla generalizzazione del quarto voto, quello speciale dell’obbedienza al papa).
Forte sottolineatura nel saggio del padre Martina viene data alla nomina ad arcivescovo di Milano del cardinale Carlo Maria Martini, rievocandosi l’unico precedente di diocesi italiana affidata ad un gesuita (Boetto a Genova durante la guerra). Di Martini sono giustamente messe in luce le grandi doti anche di biblista in relazione all’attualità sofferta della Terra Santa.
Nella carrellata su centosessantanove anni di movimentata vita dei gesuiti in Italia mi ha colpito un episodio. Il giorno di Natale del 1913 il Papa inviava una lettera nella quale subito dopo il riconoscimento dei meriti secolari ammoniva la Compagnia a «tenersi lontana dal contagio pestilenziale del mondo» e ad evitare «uno spirito mondano, una leggerezza negli animi, lo studio di temerarie novità».
Il padre generale Wernz replicò con una appassionata missiva il 13 luglio 1914 ma non ebbe riscontro. Pio X morì il 20 agosto; poche ore prima il padre Wernz lo precedette nel mondo migliore. Sic transit gloria mundi.