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BLACKOUT IN ITALIA
tratto dal n. 11 - 2003

La sindrome svizzera


Un saggio per capire perché l’Italia è finita improvvisamente al buio domenica 28 settembre scorso. L’assetto del sistema elettrico nel nostro Paese prima e dopo il decreto Bersani


di Franco Velonà


La cupola di San Pietro durante il blackout  di domenica 28 settembre 2003

La cupola di San Pietro durante il blackout di domenica 28 settembre 2003

Il monopolio elettrico
Le ragioni tecniche ed economiche (oltre quelle politiche), che nel ’62 portarono alla costituzione dell’Ente elettrico, giustificavano ampiamente un monopolio pubblico, anziché privato (come di fatto era per le intese esistenti tra Edison, La Centrale, Sip, Sade, Sme ecc., che si erano ripartite il territorio nazionale per evitare qualsiasi concorrenza nei rispettivi programmi di investimento).
L’Enel nacque dall’integrazione di circa 1200 imprese elettriche (molte medio-piccole, oltre le grandi sopra citate) con notevoli differenze nelle caratteristiche tecniche del macchinario e degli impianti relativi. Le tensioni di esercizio nella rete di distribuzione (linee a media tensione) erano più di una trentina; gli italiani privi di energia elettrica erano più di un milione e mezzo (solo i più anziani ricorderanno cosa era la vita senza elettricità nelle nostre campagne).
I cosiddetti baroni dell’energia elettrica ottenevano laute rendite di posizione perché le centrali erano soprattutto idroelettriche (che avevano allora il predominio della produzione, oggi tenuto dalle centrali termoelettriche a olio o gas) ed erano caratterizzate da lunghissimi tempi di ammortamento (40-50 anni) e da costi nulli di combustibile. L’interconnessione tra le varie reti locali era relativamente scarsa.
Agli inizi degli anni Sessanta non era più eludibile un massiccio ricorso a centrali a combustibili fossili (e, anche, nucleari), quasi sconosciute a dirigenti e tecnici dei decenni precedenti e vi era bisogno di più estese competenze specifiche, ma pesavano soprattutto le incertezze circa la prevedibilità della vita (20-25 anni) dei nuovi impianti e circa i prezzi da pagare nel medio-lungo termine per i combustibili.
Anche con queste più difficili condizioni, le società elettriche volevano conservare i privilegi da sempre goduti, scaricando sulla collettività i maggiori oneri. Ne derivò una contesa tra privati e fautori del pubblico; ma il primo governo di centrosinistra, per la forte determinazione di un piccolo gruppo di notevole spicco intellettuale (tra cui mi piace ricordare in particolare Felice Ippolito e Ugo La Malfa), portò alla costituzione dell’Ente nazionale per l’energia elettrica, cioè di un monopolio pubblico che doveva assicurare il soddisfacimento dei crescenti fabbisogni di energia elettrica (anche con ricorso a centrali nucleari) e applicare condizioni più uniformi a tutti gli utenti, alimentando anche aree prima lasciate senza energia elettrica.
Il monopolista nazionale, bene impostato nelle nuove strutture centrali e compartimentali, ha potuto assolvere ai compiti previsti attraverso un’efficace standardizzazione degli impianti di produzione e delle reti di collegamento, nonché attraverso una adeguata pianificazione dello sviluppo del sistema per fare fronte ai consumi di energia elettrica in rapida espansione (valeva allora la regola di un raddoppio ogni dieci anni). Vennero, così, realizzate numerose centrali termoelettriche, sviluppata la rete ad alta tensione (380 kW) per l’interconnessione a livello nazionale e con l’estero (riducendo le perdite per la trasmissione a distanza), realizzati impianti idroelettrici con accumulo (anche mediante pompaggio) per la fornitura delle punte del carico e fu costituito il Centro nazionale di controllo a Roma (nucleo dell’attuale Grtn [Gestore della rete di trasmissione nazionale spa]) per un esercizio ottimale e sicuro della rete primaria. Dalla intensa attività di progettazione e di standardizzazione dei principali sottosistemi e grazie alle economie di scala, consentite dalle dimensioni e dall’unitarietà dell’Enel, sono scaturiti notevoli riduzioni del costo del chilowattora in termini reali e un progressivo miglioramento della qualità del servizio reso.
Due ragazzi durante una visita guidata nella centrale termoelettrica di Montalto di Castro

Due ragazzi durante una visita guidata nella centrale termoelettrica di Montalto di Castro


La transizione
Ma la Russia è... vicina; tanto da farci risentire – più di ogni altro Paese al mondo – del disastro di Chernobyl (non sul piano ambientale; ma su quello delle affrettate decisioni politiche, con l’abbandono sconclusionato del nucleare come fonte energetica “indigena”) e, poi, della caduta della cortina di ferro (cui è seguita una diffusa propensione in Italia ad abbattere il buono con il marcio del monopolio elettrico).
A partire dalla metà degli anni Novanta, nessuno più si è preoccupato della vulnerabilità intrinseca di un sistema così complesso come quello elettrico e tutti hanno ceduto al fascino della liberalizzazione e della privatizzazione o di una deregulation, spesso confuse tra loro. Si è ignorata – con l’eccezione di alcuni dirigenti del settore bollati di conservatorismo e di arroganza (si è sentito perfino sostenere in pubblico che era meglio fidarsi, più che dei tecnici, di incompetenti perché meno di parte!) – l’estrema fragilità di una realtà in cui domanda e offerta devono bilanciarsi istante per istante, quale che sia il livello di potenza richiesto. La terminologia relativa al mercato e alle sue leggi ha del tutto soppiantato la considerazione di problemi come “la regolazione della tensione”, “la regolazione della frequenza”, “la potenza reattiva” (una specie di entropia, altro termine astruso), la potenza di riserva “calda e fredda” necessaria per evitare pericolose instabilità al mutare delle condizioni di regime. In un sistema di per sé evolutivo, si è supposto che i problemi tecnici fossero stati tutti risolti e che le spa dovessero affrontare solo quelli di altra natura.
L’accresciuta disponibilità di gas naturale e il connesso rapido sviluppo della tecnologia delle turbine a gas, anche per servizio di base e soprattutto in ciclo combinato (turbina a gas-turbina a vapore) con gli alti rendimenti che ne conseguono, hanno favorito progetti energetici di altri soggetti industriali; che hanno, comunque, puntato preferenzialmente sulle dismissioni di potenza imposte all’Enel (diventato incumbent).
Non era certamente facile trovare un equilibrio, tra competitività e garanzie, che assicurasse un servizio pubblico di tale importanza. Ci si è, quindi, limitati a eliminare le regole che impedivano la concorrenza, tralasciando provvedimenti o adeguamenti dettati dalle nuove condizioni che tutelassero e migliorassero la qualità del servizio (l’economicità su cui si puntava era bloccata invece dall’impiego preponderante di idrocarburi liquidi e gassosi, negli impianti vecchi e nuovi, a costi fuori dal nostro controllo e dominanti sul costo complessivo del chilowattora).
E proprio un governo di centrosinistra (diverso dal primo) doveva avviare il processo di demolizione del monopolio e dei suoi risultati, anche di quelli benigni.
Furono messi da parte coloro che avevano decenni di esperienza nel settore elettrico; furono scelti nuovi vertici dell’Enel spa sufficientemente spregiudicati e iniziò la corsa verso “il piccolo è bello”, “il metano ti dà una mano”, “il privato fa sì i suoi interessi, ma anche quelli della collettività”. Così alla cultura tecnico-scientifica di difficile acquisizione è subentrata quella più popolare degli slogan, basati nel caso migliore su pure ideologie.
Sono state ignorate importanti conseguenze negative di una privatizzazione affrettata e sono state prese decisioni anche contraddittorie tra loro e con il buon senso: creare un’autorità di regolazione indipendente per poi chiedersi “ma da chi dipende?”; separare la gestione della rete ad alta tensione dalla proprietà, quasi si trattasse della gestione di un condominio immobiliare; abolire per decreto una duplicità di attori dove esistevano già (mi riferisco alla distribuzione dell’energia elettrica in alcune grandi città come Roma, Milano, Torino), in contraddizione con l’assunto della competitività o, almeno, della comparazione delle “performance”; decretare lo smantellamento accelerato (non si sa bene a quale fine) della centrale nucleare di Caorso, con dispendio di risorse umane e finanziarie senza alcun ritorno economico e senza disporre nemmeno di un deposito nazionale di rifiuti radioattivi; non prestare alcuna considerazione agli effetti a medio-lungo termine conseguenti alla mancanza di una strategia di diversificazione delle fonti energetiche. Si è creduto al potere magico del libero mercato, applicato a un bene (che è un servizio essenziale) del tutto diverso dalle altre merci, quando occorrevano invece forti regolazioni per assicurare la copertura della curva della domanda in tutte le possibili condizioni.
Si può dire, in sintesi, che nell’era preBersani c’erano responsabilità chiare e competenze affidabili nelle varie articolazioni del sistema elettrico (l’Enel, all’atto della nazionalizzazione, aveva fatto tesoro delle competenze maturate nelle società elettriche private precedenti). Dopo sono prevalse – anziché decisioni meditate e sottoposte a rigorose analisi anche dal punto di vista ingegneristico – intuizioni e pressioni di vario tipo (speculativo, ideologico, pseudoambientalistico).
Si può dire che – oltre alla caduta del muro di Berlino sul piano internazionale – le difficoltà incontrate al nostro interno nel realizzare nuove centrali di produzione e linee di trasporto, a causa delle forti opposizioni locali, hanno aperto la strada a una privatizzazione sommaria (peraltro non ancora conclusa), agevolata sul piano tecnico dalla disponibilità di impianti a gas naturale, con minori potenze unitarie rispetto alle precedenti centrali termoelettriche, meno costosi, di più immediata costruzione e di più facile esercizio.
Si sono depauperate competenze tecniche preesistenti e si sono avute pericolose derive nella qualificazione degli addetti ai lavori, con un progressivo abbandono della meritocrazia (iniziato già negli ultimi anni dell’Enel) e con una crescente sottovalutazione di importanti problemi tecnici.
Considerazioni di tipo sociopolitico sono diventate prevalenti e gli assetti cui si è pervenuti sono stati il risultato di accordi tra gruppi diversi, ma comunque interessati a demolire l’esistente, senza tentare di conservare e migliorare quanto vi era di efficiente nell’assetto precedente.
L’obiettivo prioritario è stato quello di cambiare, abbattendo i monumenti del passato e non seguendo nemmeno linee coerenti: si è giunti a rimproverare all’Enel di non aver costruito nuovi impianti, mentre si imponeva allo stesso di dismettere aliquote importanti delle sue centrali, di vario tipo, per favorire la concorrenza!

Il prossimo futuro
Cosa si può fare oggi per recuperare efficienza e migliorare la qualità del servizio elettrico?
Innanzitutto va individuato un vero “centro di comando”, che abbia come obiettivo principale la sicurezza del sistema, assicurando la disponibilità di potenza e di energia necessarie per soddisfare la domanda anche in situazioni anomale. Autorità di governo, gestore della rete nazionale, autorità di regolazione per il settore, Enel spa (ancora dominante tra i vari protagonisti industriali) devono avere precise responsabilità nell’assicurare una elevata qualità al servizio pubblico; va anche evitato che l’introduzione di ulteriori soggetti (la Borsa elettrica, l’acquirente unico, gli enti locali, altre società ecc.) renda ancora più confuso il quadro attuale.
Occorre riprendere al più presto nella dovuta considerazione idonee forme di pianificazione per la copertura, nel medio-lungo termine, del fabbisogno di energia elettrica (crescente anche in questi anni di recessione), oltre che assicurare la migliore gestione e utilizzazione del parco esistente.
È necessario un maggiore realismo nella difesa di aspetti ambientali di natura globale; l’Italia, dopo tutto, ha un’incidenza modesta, in relazione ai suoi consumi limitati, rispetto a quella di altri Paesi industrializzati. È certamente peggio dover poi recedere di fronte a emergenze che saranno sempre più probabili se non verranno risolti i problemi strutturali del nostro sistema energetico.
Il principio di precauzione, spesso invocato e certamente fondamentale in tutti gli aspetti della vita, non deve trasformarsi nel campo energetico in un’opposizione sistematica, direi ideologica, a ciò che può andare a beneficio della collettività: senza energia non c’è sviluppo e senza sviluppo non c’è progresso sociale.
Si può certo preferire di rinunziare ai benefici che la moderna tecnologia mette a disposizione, ma bisogna allora essere disposti ad accettare un tenore di vita diverso, nonché le conseguenze di disservizi e disfunzioni. A questi porterebbero oggi un’esasperata fiducia nelle possibilità immediate di nuove (o, forse, antiche) fonti energetiche o di una produzione di energia elettrica distribuita sul territorio, senza più bisogno di una robusta rete di collegamento (come è avvenuto nel caso, ben diverso, della telefonia).
L’assetto attuale del settore elettrico – a parte le forme non è sostanzialmente quello di una liberalizzazione efficace con conseguente riduzione dei prezzi, come più volte promesso; è il risultato di una demolizione del “vecchio” senza sufficiente predisposizione e attuazione del “nuovo” (e sono passati quasi dieci anni!).
Può darsi che un governo del Polo delle libertà riesca a effettuare interventi a livello centrale che pongano rimedio ai guasti di una “privatizzazione” attuata senza una giusta tutela di valori preesistenti.
E va senz’altro auspicato che, con il cosiddetto federalismo energetico, si possano meglio armonizzare esigenze e disponibilità, con processi del tipo “Bottom-up” e con una maggiore responsabilizzazione di Regioni ed altri enti locali.
Gli obiettivi su cui è facile convergere sono la sicurezza della fornitura di energia, la riduzione dei prezzi ai consumatori e la attenuazione dell’impatto ambientale. Ma, come ha lucidamente scritto nel suo ultimo editoriale l’amico Edgardo Curcio, è impossibile conciliare dette preferenze con il rifiuto sia ad accettare le necessarie infrastrutture (dalle centrali ad impianti che sostituiscano le discariche), sia a comprendere i limiti tecnologici e i costi attuali dello sfruttamento di nuove forme di energia primaria.
Anziché spiegare semplicemente tutto ciò alla gente, si punta su altre complicazioni: nuovi decreti (certificati bianchi dopo quelli verdi), nuove Borse e nuove società (come le Esco). Cose che possono aumentare l’intermediazione politica, e non solo, ma non affrontano il problema di fondo (espresso da Zorzoli nelle sue riflessioni sul blackout) e, cioè, che – in un’economia di mercato e con l’estensione dei collegamenti internazionali – occorre comunque essere in grado di produrre nel proprio ambito territoriale, e a prezzi competitivi, l’energia richiesta.
Buona parte del diagramma di carico, incluse le punte, va assicurata in loco, a livello nazionale, come è stato nei decenni passati in cui i collegamenti con l’estero avevano sostanzialmente il carattere di un mutuo soccorso in condizioni particolari di uno dei Paesi interconnessi (la stessa regola valeva per le società private, prima dell’Enel, nell’ambito delle rispettive aree). Diversamente, come abbiamo tristemente sperimentato, e non solo in Italia, la vulnerabilità del sistema elettrico aumenta all’estendersi della ampiezza dei collegamenti.

Considerazioni conclusive
Rifacendomi a quanto ricordato all’inizio di questo mio intervento vorrei, nel concludere, richiamare l’attenzione dei decisori sulla importanza che – a parte l’assetto organizzativo – hanno la preparazione e la professionalità, cioè l’impegno degli addetti al servizio elettrico. Senza un adeguato patrimonio tecnico di risorse umane da un lato e con derive demagogiche sul piano sociopolitico dall’altro, la complessità del sistema per la fornitura, istante per istante, dell’energia elettrica richiesta dal Paese è tale da far temere guasti e inconvenienti con sempre maggiore frequenza. La costante di tempo del decadimento della qualità del servizio è abbastanza elevata (e cioè di anni, come quelli che occorrono per la costruzione di nuovi impianti) ed è solo per questo e, ovviamente, per la lungimiranza di coloro che avevano portato il sistema elettrico italiano a un livello tra i migliori al mondo, che cominciano a manifestarsi oggi gli effetti negativi di quanto fatto, o non fatto, negli ultimi dieci anni.
Le perdite economiche conseguenti a un blackout – a parte i disagi per la collettività che lo subisce – sono di gran lunga superiori a quelle connesse con una extracapacità; ma non credo che valutazioni di questo tipo rientrino nelle leggi del mercato!
Oltre alla selezione degli addetti, la diversificazione delle fonti, la pluralità degli approvvigionamenti e chiare definizioni delle responsabilità nel governo del sistema elettrico nazionale devono diventare i veri pilastri su cui costruire il futuro energetico di un Paese di civile democrazia, come il nostro.
Il mercato liberalizzato va opportunamente regolato; altrimenti, essendo il sistema elettrico di natura intrinsecamente gerarchica, può degenerare nel caos. Il corretto bilanciamento tra l’introduzione della concorrenza nella fornitura di potenza a energia elettrica e l’obiettivo di un crescente miglioramento della qualità del servizio non è certamente facile da raggiungere e va adattato alle diverse realtà, ma occorre non concedere troppo alle aspirazioni e agli interessi di singoli o di gruppi. Il mio pensiero va a Prova d’orchestra, un film di Fellini non abbastanza apprezzato in generale, in cui si manifestava l’impossibilità di una buona esecuzione senza una idonea armonizzazione e guida dei contributi dei diversi strumenti!


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