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CAUSE DI BEATIFICAZIONE
tratto dal n. 03 - 2002

La memoria di un martire


Inchiesta sulla causa di beatificazione del vescovo salvadoregno ucciso nel 1980. Tra le diffidenze di chi ancora lo considera un tribuno estremista. E i sospetti di chi teme si voglia spiritualizzare la sua figura, fino a renderla irreale


di Gianni Valente


Romero giovane sacerdote

Romero giovane sacerdote

«È un martire. Sì, monsignor Romero è un martire». Era lunedì 19 novembre scorso e le parole sussurrate da Giovanni Paolo II non lasciavano dubbi su cosa l’anziano Pontefice pensa in cuor suo dell’arcivescovo di San Salvador trucidato ventidue anni fa sull’altare di una cappella d’ospedale, mentre celebrava la messa, ai tempi della guerra civile. A raccogliere le intime riflessioni del Papa quel giorno c’erano alcuni vescovi salvadoregni in visita ad limina, tra cui Fernando Sáenz Lacalle, successore di Oscar Arnulfo Romero alla sede di San Salvador. Sono loro che, dopo aver registrato con prontezza il messaggio cifrato contenuto nelle fioche parole papali, lo hanno subito fatto “girare” nei successivi incontri avuti con alti prelati della Curia romana. Il 23 novembre, di venerdì, della lapidaria definizione di Romero pronunciata dal Papa veniva messo al corrente anche Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.
L’aneddoto girato nei sacri palazzi a fine novembre è solo una sequenza della complessa partita a scacchi in corso da anni intorno alla causa di beatificazione di monsignor Romero.
Papa Wojtyla vanta tra i suoi record più difficilmente eguagliabili il numero dei santi (456) e dei beati (1288) saliti all’onore degli altari durante il suo lungo pontificato. In alcuni casi eccezionali, di forte impatto simbolico e devozionale, le procedure ordinarie dei processi hanno ricevuto significative accelerazioni. Nei prossimi mesi, con le canonizzazioni di padre Pio (16 giugno) e di Josemaría Escrivá de Balaguer (6 ottobre) questa pastorale della santità dell’era wojtyliana vivrà due eventi di grande momento. Riguardo a Romero, c’è da tener conto che dal 1983, su esplicita indicazione del Papa, per le cause di beatificazione di chi riceve il martirio in odium fidei è prevista una corsia preferenziale, che rende facoltativa l’attestazione di miracoli avvenuti per intercessione del martire.
Tutti questi fattori potevano far presagire un iter rapido della causa di beatificazione di Romero. Invece, dal ’96, quando il processo di canonizzazione è approdato a Roma dopo la chiusura della fase diocesana, i tempi sembrano essersi dilatati. Nonostante i ripetuti input inviati dalla Segreteria di Stato, per conto dell’appartamento pontificio, con l’indicazione di seguire con particolare premura l’iter per la canonizzazione del vescovo ucciso sull’altare. Nonostante le due lettere in cui l’episcopato salvadoregno, superando antiche divisioni, ha fatto conoscere a Roma i suoi voti unanimi per un rapido riconoscimento del martirio di Romero. E nonostante le numerose petizioni provenienti dai fedeli, come quella sottoscritta in poche settimane da tante istituzioni cattoliche come la Caritas internationalis e da più di sessantamila fedeli nel marzo del duemila, nel ventennale del sacrilego omicidio, in cui si auspicava di poter celebrare la beatificazione di Romero durante l’anno giubilare.
A chi già maligna su sabotaggi curiali in atto, le voci ufficiose della Santa Sede rispondono che i lavori per saggiare le virtù eroiche di Romero non sono affatto sospesi. Attualmente proprio la Congregazione per la dottrina della fede sta vagliando le omelie, il diario e gli scritti pubblici di monseñor Romero per attestarne la piena conformità alla dottrina cattolica e concedere il suo necessario nihil obstat. Sono già pervenuti all’ex Sant’Uffizio i pareri di alcuni degli esperti incaricati di setacciare l’opera omnia di Romero. Misurati dossier dove al massimo si aprono interrogativi sulla prudenza pastorale di alcune omelie di Romero, ma non si manifestano riserve di carattere dogmatico e dottrinale.
Eppure, le rassicurazioni non convincono i più sospettosi. Quelli convinti che nei palazzi vaticani si celino sotterranee resistenze alla canonizzazione di Romero. A tal proposito, si citano alcuni episodi. Quando, il 7 maggio dell’anno giubilare, si commemorarono al Colosseo i testimoni della fede del XX secolo, il nome di Romero, dapprima dimenticato, fu inserito in extremis in una delle preghiere recitate dal Papa durante la celebrazione. Dopo che lo strano vuoto di memoria aveva suscitato scalpore. E quando, qualche anno fa, l’ecclesiastico che predicava gli esercizi spirituali al Papa e alla Curia romana ricordò anche Romero tra i grandi testimoni della fede del nostro tempo, alla fine della meditazione fu animatamente ripreso da alcuni porporati latinoamericani. Amareggiati che fosse stata esaltata davanti al Papa una figura che ai loro occhi appariva come controversa e conflittiva. Quando, qualche mese dopo, venne pubblicato il libro di quelle meditazioni quaresimali, il nome di monsignor Romero non compariva, neanche in citazioni fugaci, in nessun capitolo.

Sopra una salvadoregna mentre mostra una foto di romero in occasione dei vent’anni dalla morte; sotto Romero  mentre celebra l’eucaristia sulla spiaggia di El Cuco, nella regione di San Miguel, nel 1948

Sopra una salvadoregna mentre mostra una foto di romero in occasione dei vent’anni dalla morte; sotto Romero mentre celebra l’eucaristia sulla spiaggia di El Cuco, nella regione di San Miguel, nel 1948

Un tandem per Romero

Ma bastano le riserve di qualche cardinale latinoamericano d’Oltretevere a far insabbiare la causa scomoda di Romero? Chi nega oscuri complotti fa notare che anche il “partito” che appoggia la canonizzazione di monseñor comprende supporter ecclesiasticamente influenti. Molte figure-chiave coinvolte nel processo appartengono alla prelatura dell’Opus Dei e alla Comunità di Sant’Egidio.
In Salvador è figlio spirituale del beato Escrivá l’attuale arcivescovo di San Salvador Sáenz Lacalle, che fu amico personale di Romero e lo ha definito «il testimone della fede più grande tra i salvadoregni», pregando pubblicamente «affinché un giorno la Chiesa, in virtù dell’infallibilità del Papa, dichiari ufficialmente che monsignor Romero è un martire», pur riconoscendo le difficoltà della causa e ricordando che «i processi di beatificazione e canonizzazione sono molto severi e non vengono influenzati da tendenze e pressioni esterne». Appartiene al clero dell’Opus Dei anche padre Jesús Delgado Acevedo, parroco della cattedrale di San Salvador e vicario generale dell’arcidiocesi, che ha seguito la fase diocesana del processo e ha scritto una delle biografie più misurate di Romero.
A Roma, la fiaccola è stata raccolta da esponenti della Comunità di Sant’Egidio. Il postulatore della causa di beatificazione è monsignor Vincenzo Paglia, il parroco di Santa Maria in Trastevere che Giovanni Paolo II ha voluto nominare vescovo di Terni. Il vicepostulatore è Mariano Imperato, un sacerdote napoletano anche lui legato alla comunità dalle origini trasteverine. E il professor Roberto Morozzo della Rocca, uno dei più apprezzati storici della “scuola” santegidina, ha passato parecchi mesi in Salvador a raccogliere testimonianze e a studiare materiale e documenti finora inediti conservati negli archivi diocesani e nei repertori privati, compresi i verbali delle riunioni della Conferenza episcopale che documentano gli screzi tra Romero ed altri vescovi salvadoregni. Una ricerca che dovrebbe prima o poi confluire in una nuova rigorosa e documentata biografia del vescovo martire.
Lo scorso ottobre, a un convegno scientifico su Romero tenutosi a Terni sotto l’egida di monsignor Paglia, è emersa la “strategia” coordinata degli sponsor ecclesiali della beatificazione di Romero. Le due relazioni portanti, tenute proprio da Morozzo della Rocca e da monsignor Delgado, avevano l’intento palese di sgombrare il campo dalle manipolazioni e dalle mistificazioni sorte intorno alla figura del vescovo ucciso sull’altare.

«Sono solo un catechista»

A chi fa di Romero un agitatore politico, e gli rimprovera di aver trascinato la Chiesa nel conflitto sanguinoso di quegli anni, ponendola al fianco dei movimenti di sinistra, nella sua relazione al convegno il professor Morozzo della Rocca ha contrapposto il profilo pieno di chiaroscuri di «un sacerdote e vescovo romano, obbediente alla Chiesa e al Vangelo attraverso la Tradizione», che però non era capo di qualche tranquilla diocesi europea. Ma doveva vivere e guidare il suo gregge «in quell’Occidente estremo e stravolto che era l’America Latina di quegli anni». Dove le forze militari e gli squadroni della morte reprimevano con ferocia un popolo intero per conto dell’oligarchia. Dove i sacerdoti e i catechisti venivano ammazzati e nelle campagne diventava pericoloso possedere un Vangelo. Dove bastava chiedere giustizia per essere bollato come comunista sovversivo. Secondo Morozzo vanno lette in quel contesto tutte le scelte di Romero. Come la sua asserita condiscendenza verso i preti impegnati in politica, o addirittura a fianco della guerriglia. Scrive il professore: «In realtà Romero – lo si evince bene dalle sue carte quanto dal suo diario e dalle sue omelie – temeva la politicizzazione del clero e delle comunità di base. Quel 10-15 per cento dei suoi sacerdoti che si muove apertamente in appoggio alle organizzazioni di sinistra è oggetto delle sue preoccupate attenzioni. Pubblicamente Romero non critica mai i suoi preti per non esporli alle rappresaglie dei militari e del governo. Non condanna le occupazioni di chiese, benché lo infastidiscano, per non offrire giustificazioni alle repressioni degli occupanti da parte dell’esercito. Questa condotta non deriva da un’inclinazione politica di Romero verso la sinistra; ma dalla sua prudenza e responsabilità di vescovo».
Il Romero rivoluzionario ed estremista, il vescovo di frontiera e di lotta anche all’interno della Chiesa, è nella ricostruzione di Morozzo un mito in buona parte prodotto dall’inconscia manipolazione del sistema mediatico. Non una vera e propria falsificazione, ma certo una caricatura della figura di Romero operata da stampa e giornali. Da intervistatori convinti di sapere già cosa Romero ha da dire, che appiattiscono il suo linguaggio così personale e originale “traducendolo” negli slogan in voga tra i lettori.
Romero, quello vero, non è mai l’eversivo agitatore di qualche nuova teoria politica. Anche i suoi interventi più estremi, quando dal pulpito fa i nomi e cognomi per descrivere l’oppressione del popolo, sgorgano da quella passione per la sorte dei poveri che è elemento ineliminabile della Tradizione della Chiesa.
Come accadeva ai grandi vescovi dei primi secoli cristiani, in una situazione di crisi drammatica e cruenta Romero si trova a dover difendere il clero perseguitato, protegge i poveri, chiede il rispetto dei minimi diritti umani, tenendo sempre presente il magistero pontificio e conciliare. Applica all’inferno di quegli anni («A me tocca in sorte di fare il pastore raccogliendo cadaveri») ciò che ha visto descritto nelle opere dei Padri. Ricorre a sant’Agostino e a san Tommaso per giustificare chi si solleva contro la tirannia sanguinaria. Cita la Populorum progressio. Pochi mesi prima di morire, quando un giornalista venezuelano gli rifà l’ennesima domanda sulla sua “conversione” da prete all’antica a pastore militante sbilanciato in politica, risponde: «La mia unica conversione è a Cristo, e lungo tutta la mia vita». E già nel ’78, a un giornalista tedesco che gli domanda se il suo pensiero teologico poggi sulla teologia della liberazione, lui risponde che il suo pensiero teologico «è uguale a quello di Paolo VI, definito nell’enciclica Evangelii nuntiandi». Nota il professor Morozzo: «È il mistero interiore di un vescovo, di un uomo con alto senso di responsabilità, che reagisce con dignità e rettitudine davanti al sangue versato, al dolore, al male largamente diffuso. Non occorre, per fare questo, essere di sinistra o di destra. Non occorre derubricare il proprio passato, la propria cultura, i propri ideali. Solo serve avere cuore».

Tra Ireneo e Pironio
Basta scorrere scritti e omelie di Romero, per cogliere l’impostazione tradizionale della sua formazione spirituale e la sua naturale estraneità ai nuovismi teologici. «Se c’è un titolo che mi inorgoglisce è questo: il catechista. Io voglio essere solo questo: il catechista della mia diocesi», dice in un’omelia domenicale del settembre ’79. Nel duemila, al ventennale dell’assassinio, il professor Armando Márquez Ochoa ha potuto addirittura raccogliere un Catecismo de monseñor Romero in domande e risposte, tutto ricavato dalle omelie e dagli scritti di monseñor, suddivise secondo criteri tradizionali (fede-liturgia-sacramenti-vita in Cristo-preghiera) e dove emergono le “fonti” della sua predicazione: la Bibbia, i Padri della Chiesa, il magistero della Chiesa, soprattutto i documenti del Concilio Vaticano II, quelli di Paolo VI e quelli delle conferenze dei vescovi latinoamericani di Medellín e Puebla.
Anche il saggio letto al convegno di Terni da padre Delgado offre contributi inediti per cogliere l’ordito cristiano della personalità di Romero. Si tratta dell’analisi di uno schedario di note, appunti e fotocopie (8400 schede) raccolti da Romero fin da quando, giovane seminarista, era ospite a Roma al Collegio Pio Latinoamericano e studiava all’Università Gregoriana. Delgado ha anche inventariato i 205 volumi che costituivano la piccola biblioteca personale di Romero, ancora conservati nelle stanze dell’hospedalito, l’ospedale delle Suore della Divina Provvidenza che fu la sua ultima residenza.
Sia le schede che i volumi analizzati forniscono l’identikit degli interessi e della formazione spirituale di Romero. Tra le schede si trovano gli appunti del tempo della Gregoriana, schemi per le omelie e le classi di catechismo, raccolte di frasi dei Padri della Chiesa, riassunti di testi dai quali Delgado conclude che «il 60 per cento della letteratura consultata dal giovane Romero riguardava la vita mistica e la santità». Tra gli autori cari alla sua gioventù si notano il predicatore san Crisostomo, il difensore della fede dei semplici sant’Ireneo, e poi Roberto Bellarmino, Columba Marmion, Jules Lebreton. Uno spazio consistente (duecento schede) è riservato a testi di devozione al Sacro Cuore di Gesù. Le schede dedicate ai temi sociali riprendono gli scritti di sant’Ambrogio contro l’oppressione dei poveri, e quelli del profeta Neemia sull’usura e lo sfruttamento.
Se si suddividono per temi i 205 volumi conservati all’hospedalito, il settore più consistente della libreria di Romero risulta essere quello delle opere di spiritualità (25 volumi) e quello delle opere sulla dottrina della Chiesa e sul magistero dei papi (16 volumi). L’autore ecclesiastico contemporaneo più gettonato è l’argentino Eduardo Pironio, creato cardinale da Paolo VI nel ’76, amico e consolatore di Romero nelle sue ultime visite romane, piene di incomprensioni. Secondo Delgado, «Romero incontrava nel pensiero di questo autore una formulazione della teologia della liberazione molto aderente al Vangelo e alla dottrina sociale della Chiesa». Gli altri testi liberazionisti presenti nella biblioteca di Romero (12 volumi) costituivano secondo l’analisi di Delgado la sezione meno consultata dall’arcivescovo. «I libri dedicati a questa teologia sono intatti come il giorno in cui monseñor li comprò o, per meglio dire, glieli regalarono… Visto lo stato di pulizia in cui si presentano, ne deduciamo che coloro che glieli regalarono avevano più interesse a che Romero li leggesse, di quanto interesse prestò ad essi Romero stesso». Il profilo che Delgado trae dai suoi studi sulla formazione di Romero è perentorio: «Come studente di teologia a Roma, Romero ignorò totalmente le correnti dialettiche, esistenziali ed ermeneutiche della teologia protestante che dall’inizio del secolo forgiavano una nuova cultura teologica, i cui venti soffiavano per le università d’Europa, suscitando uragani di crisi di fede tra gli studenti». Romero, «che aveva poca curiosità per la teologia come scienza», non si appassiona neanche alle controversie sulla Nouvelle Theologie che proprio negli anni Cinquanta scuotevano le accademie teologiche. «Nomi di teologi come il domenicano belga Chenu o il gesuita francese De Lubac non appaiono nello schedario di letture e consultazioni di Romero. Invece, sono preferiti nomi come san Giovanni della Croce, santa Teresa d’Avila, don Columba Marmion, e il padre De la Puente».
I primi disperati soccorsi  dopo l’agguato del  24 marzo 1980

I primi disperati soccorsi dopo l’agguato del 24 marzo 1980

Di chi è Romero?
«Romero è nostro», disse più volte Giovanni Paolo II durante la sua visita in Salvador nel 1983, mentre il protocollo ufficiale tentava di far cadere un cono d’ombra sulla memoria del vescovo ucciso sull’altare.
Fin dai primi anni dopo il martirio si è sentita la legittima urgenza di difendere la memoria di Romero dalle infinite strumentalizzazioni tentate post mortem. L’hanno condivisa anche molti amici di Romero, sostenitori della sua stessa linea pastorale profetica. Nel 1982 il suo successore Arturo Rivera Damas indirizzò addirittura ai sacerdoti una circolare pubblica con disposizioni in proposito. C’era scritto: «Dobbiamo evitare di convertire in un mito il suo ricordo. Non dobbiamo permettere che si trasformi in bandierina politica di bande, partiti e organizzazioni».
Oggi, dopo ventidue anni, i dubbi e le esitazioni che circondano la causa di beatificazione di Romero tradiscono ancora preoccupazioni analoghe, pur con una valenza esclusivamente ecclesiale. Si va coi piedi di piombo, anche perché non si vuole legittimare il modus operandi di alcuni settori del variegato “popolo di Romero”. Quella sinistra ecclesiale latinoamericana, contrastata con durezza sotto il pontificato wojtyliano, che secondo alcuni si sarebbe “appropriata” della memoria di Romero, esasperandone la caricatura di vescovo militante delle rivendicazioni popolari. In questa prospettiva, un allungamento dei tempi della canonizzazione è visto come un passaggio obbligato per far decantare le tensioni. Per liberare il campo dalle caricature arbitrarie e far emergere il vero Romero, sacerdote devoto, pastore sensibile alle sofferenze del suo popolo.
Jon Sobrino, il teologo liberazionista dell’Università Centroamericana (Uca) è da alcuni considerato il grande “manipolatore” della memoria di Romero. Una relazione del convegno di Terni ha attribuito a lui l’icona del Romero “politico” che ha spopolato nei decenni scorsi in tutta l’America Latina. Lui e i suoi confratelli gesuiti, tra cui c’era anche padre Ignacio Ellacuría e i suoi cinque compagni trucidati da un commando militare nel dicembre ’89, sono stati più volte accusati di avere influenzato Romero. Insinuazioni a cui ha sempre risposto senza imbarazzo, ammettendo gli sforzi suoi e dei suoi confratelli per convincere Romero a seguire la linea pastorale espressa dalla Conferenza delle Chiese latinoamericane a Medellín (1968). Di recente, in una conferenza pubblica, Sobrino ha lasciato intendere che la figura di Romero potrebbe ora subire manipolazioni di nuovo taglio. Quelle di chi vuole a tutti i costi spiritualizzare la sua figura. Puntando i riflettori in maniera esclusiva sui suoi interessi spirituali e sulla sua vita interiore, dopo che per tanto tempo si è guardato solo al Romero militante: «Devo confessare» ha detto Sobrino «che la parola “spiritualità” mi pone a disagio e mi fa un po’ di paura. Perché si suole contrapporla a ciò che è materiale e storico. Per questo, la parola spiritualità ci può portare a un mondo invisibile, addirittura a un mondo irreale. La cosa può essere tragica, se si parla della spiritualità di monsignor Romero. Perché se c’è una cosa che sicuramente monsignore non fece, fu quella di vivere in un mondo irreale, di alienarsi dalla realtà salvadoregna. Non cadde in questo pericolo, frequente nella storia della Chiesa e tipico delle persone spirituali. Quelle che, come diceva Péguy, “siccome non sono della terra, credono di essere del cielo; poiché non amano gli uomini, credono di amare Dio”. Per la Chiesa di oggi il pericolo più grande mi sembra questo cadere nell’irrealtà. Della Chiesa di Romero si potevano dire molte cose. Si poteva dire che aveva molti limiti, che commetteva errori e peccati. Però non si poteva dire che la Chiesa di monsignor Romero non fosse salvadoregna e non fosse “reale”».
Considerazioni di un uomo di parte. Ma, almeno in parte, colgono nel segno. Se la spiritualità di Romero viene riscoperta solo in chiave dialettica e strumentale, contro le mistificazioni altrui, si finiscono per mettere in ombra alcuni tratti tra i più originali della sua figura. Come la scoperta, attestata anche dagli studi di Morozzo e Delgado, che in Romero le espressioni più spinte ed estreme della sua lotta contro l’oligarchia e a sostegno dei settori organizzati del popolo sgorgavano proprio dalla radicale fedeltà alla Tradizione, che da sempre riconosce la predilezione del povero come scelta stessa di Dio. A meno che il puntare i riflettori sugli elementi spirituali non sia un escamotage per rimuovere il vero punto incandescente che sta dietro tutta la vicenda martiriale di Romero. E che ha dato un sigillo unico alle persecuzioni subite dalla Chiesa latinoamericana negli ultimi decenni. Quello a cui accennava due anni fa Gregorio Rosa Chávez, vescovo ausiliare di San Salvador, rispondendo alle domande di 30Giorni: «La Chiesa ha canonizzato martiri del comunismo e del nazismo. Romero, come tanti altri sacerdoti dell’America Latina, è stato ucciso da persone che si dicevano cristiane e che vedevano in lui un nemico dell’ordine sociale occidentale. Romero è un martire della società occidentale cristiana. Riconoscere questo sarebbe una novità».
Dal cielo, dove si trova, monseñor avrà certo la pazienza di sorridere. E di aspettare che i suoi tanti attuali amici, così diversi, si mettano d’accordo.


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