La Cappella Paolina di Michelangelo
Una lettura degli affreschi di Michelangelo nella Cappella Paolina in Vaticano. Benedetto XVI, dopo il recente restauro, ha detto: «I due volti stanno l’uno di fronte all’altro. Si potrebbe anzi pensare che quello di Pietro sia rivolto proprio al volto di Paolo, il quale, a sua volta, non vede, ma porta in sé la luce di Cristo risorto. È come se Pietro, nell’ora della prova suprema, cercasse quella luce che ha donato la vera fede a Paolo»
di Giuseppe Frangi
![<I>Crocifissione di san Pietro</I>, Michelangelo, Cappella Paolina, Città del Vaticano [© Osservatore Romano/Associated Press/LaPresse]](/upload/articoli_immagini_interne/1254756134755.jpg)
Crocifissione di san Pietro, Michelangelo, Cappella Paolina, Città del Vaticano [© Osservatore Romano/Associated Press/LaPresse]
«Non posso negare niente a papa Pagolo»: così Michelangelo prima della fine di quello stesso anno inizia a lavorare sulle due pareti di sei metri per sei che gli erano state riservate. È un uomo comunque ancora pieno di energia, nonostante l’età e nonostante sentisse di non avere «il ciervello seco». La ricostruzione delle giornate lavorative, resa possibile dalle moderne tecniche di restauro, ci rivela una persona capace di affrontare una grande quantità di lavoro in una giornata. Alla fine in tutto saranno 172 giornate (85 per la Conversione di san Paolo e 87 per la Crocifissione di san Pietro), distribuite nell’arco di sette anni, con l’interruzione del 1544, quando venne fermato da problemi di salute.
L’impresa iniziò dalla parete sinistra, con la scena della Conversione di san Paolo. Michelangelo aveva tra le mani la prima traduzione in volgare degli Atti degli Apostoli, curata da Antonio Brucioli, l’amico presso cui si era rifugiato durante la sua fuga da Firenze nel 1529: «Et essendo tutti noi caduti in terra, udimmo una voce che mi parlava… Et io dissi, chi sei Signore? Et quello disse, io sono Giesu che perseguiti». Michelangelo reimmagina l’episodio imperniandolo su quei due fattori: il “mi parlava” e il “chi sei Signore”. Quindi un’interlocuzione diretta e una presenza fisica. È una reinterpretazione dirompente, rispetto alle immagini un po’ imbarazzate dei tanti pittori che lo avevano preceduto. Michelangelo fa irrompere Cristo dall’alto della scena, come presenza fisica, reale. Non è sogno e non è neppure una bella e solenne apparizione come quella di Raffaello per gli arazzi vaticani. La figura di Cristo sembra rovesciarsi verso Paolo, con una soluzione che anche Caravaggio terrà ben presente per la prima versione dei quadri della Cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo. Non tutti condivisero e compresero la rappresentazione della conversione di Paolo proposta da Michelangelo. In ambienti curiali non mancarono le critiche come quella di Giovanni Andrea Gilio, l’ecclesiastico censore del Giudizio universale, che nel 1564, appena morto l’artista, avrebbe scritto: «Però mi pare che Michelagnolo mancasse assai nel Cristo che appare a san Paolo ne la sua conversione; il quale fuor di ogni gravità, e d’ogni decoro, par che si precipiti dal cielo con atto poco honorato…».
![<I>Conversione di san Paolo</I>, particolare, Michelangelo, Cappella Paolina, Città del Vaticano <BR>[© Osservatore Romano/Reuters /Contrasto]](/upload/articoli_immagini_interne/1254756244365.jpg)
Conversione di san Paolo, particolare, Michelangelo, Cappella Paolina, Città del Vaticano
[© Osservatore Romano/Reuters /Contrasto]
Sulla parete di fronte Michelangelo viene chiamato a rappresentare invece la crocifissione di Pietro. Le giornate lavorative si fanno più numerose, le aree affrescate di volta in volta, più piccole. Il soggetto aveva molti e celebri precedenti, da quello del Sancta Sanctorum, per passare all’affresco di Cimabue di Assisi sino alla predella di Giotto nel polittico Stefaneschi, oggi conservato nei Musei Vaticani. Dal punto di vista semplicemente compositivo, questo soggetto aveva dato sempre dei grattacapi agli artisti, perché la croce rovesciata di san Pietro lasciava una grande spazio vuoto in alto. Cimabue lo aveva risolto sollevando in modo innaturale la croce; Giotto facendo volare due angeli all’altezza dei piedi del santo. Michelangelo, come da sua natura, innova in senso drammatico l’iconografia. Anziché rappresentare il fatto compiuto, sceglie di raffigurare l’istante precedente, cioè l’azione dell’innalzamento della croce. La scena così viene accesa da un dinamismo sconvolgente, attorno alla croce non ancora verticale ma inclinata. Chi assiste è segnato dal dolore, dalla paura, o, dall’altro lato, dalla crudeltà. E c’è addirittura chi, al centro della scena, uscendo allo scoperto come amico di Pietro, tenta di avvicinarsi ai carnefici ma viene trattenuto per un braccio e richiamato alla prudenza, da un altro evidentemente del suo gruppo (l’episodio viene raccontato nella Legenda aurea: dove però si sostiene che sarebbe stato lo stesso apostolo a calmare l’amico). Ma l’epicentro dell’invenzione di Michelangelo è certamente il volto di Pietro, che con un gesto imprevisto e pieno di forza si solleva sul busto e rivolge lo sguardo all’indietro. Michelangelo lavorò moltissimo su questo punto dell’affresco, correggendolo a secco, per rafforzare il gesto di Pietro, l’unico personaggio della scena che guarda fuori dalla scena. Perché lo fa? E chi guarda? Tradizionalmente si è sempre sostenuto che lo sguardo fosse rivolto ai cardinali raccolti in conclave, in quanto la Paolina, come raquo;.