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PRESENTAZIONE
tratto dal n. 02/03 - 2010

Montini e Agostino


Sant’Agostino negli appunti inediti di Paolo VI.
Aula magna, Palazzo del Bo, Padova martedì 25 novembre 2008


di Maria Tilde Bettetini


Maria Tilde Bettetini

Maria Tilde Bettetini

Sono quasi commossa per essere stata invitata a questa festa dedicata a un Papa e a sant’Agostino. Sono qui soltanto in veste di filosofa e studiosa di sant’Agostino, autore dal quale cerco di fuggire da una ventina d’anni con scarsi risultati, perché una volta che si comincia a lavorare su Agostino è difficile trovare una via di fuga. Ho scritto anche libri su altri temi, insegnato altre cose, ma non c’è nulla da fare: adesso sono ricaduta nell’Introduzione a Agostino.
Quindi sono grata di essere qui perché, oltre al fatto di essere milanese, e papa Montini è stato arcivescovo di Milano, non ho molti altri titoli per intervenire, mentre gli altri relatori ne hanno moltissimi. Sono anche quasi commossa, dicevo, perché sono stata un po’ costretta a leggere questi appunti di papa Montini e per me, che conosco abbastanza i testi agostiniani, si sono rivelati di grande interesse.
Per prima cosa devo riconoscere il valore scientifico di questo libro. Il fatto di mettere in ordine, di seguito, uno dietro l’altro, questi appunti senza pretendere di trovare un ordine cronologico, e di riportare filologicamente in maniera perfetta quello che ha scritto papa Montini, con la traduzione in parentesi quadre, o con un riferimento più preciso dove possibile, è lavoro di grande interesse sia per lo storico della Chiesa sia per lo storico dell’agostinismo: infatti affrontando sant’Agostino si finisce per studiare tutta quella caterva di produzione culturale, filosofica, teologica che a partire dai testi di Agostino, contro Agostino, per Agostino, “per colpa” di Agostino, gli ultimi milleseicento anni ci hanno portato.
Perché è molto interessante questo volume? Perché riporta gli appunti di un Papa che scrive per sé e quindi con il cuore aperto, libero, senza preoccupazioni, senza paludamenti accademici né ecclesiastici. Nel foglio 5, per esempio, c’è una citazione che dice: «Timeo enim Iesum transeuntem et manentem...»1, «Temo infatti Gesù che passa e che rimane...». È un’espressione che, tolta dal contesto, il Sermone 88, è fortissima: «Ho paura di Gesù sia quando se ne va, sia quando rimane». E lo ha trascritto Paolo VI!
Allora proprio alcune di queste espressioni che si trovano qua e là forse ci fanno capire di più dell’uomo, della mente e del cuore di questo Papa che non magari i discorsi ufficiali. Ecco, questi appunti sono come un entrare senza bussare nella vita quotidiana, nel cuore, nei pensieri di un Papa. Però io non sono esperta di Paolo VI e allora mi limito – nel tempo che non voglio rubare a don Giacomo – a prendere in esame due citazioni agostiniane di Paolo VI e a vedere come tra di loro queste due citazioni, tra l’altro molto famose, interagiscano e come ci possano far comprendere chi le ha annotate con cura.
La prima è nel foglio 4, interamente dedicato al rapporto con il sensibile, quindi con il mondo corporeo, con la corporeità. Nella prima riga Paolo VI scrive: «L’uomo moderno non» – e “non” è termine sottolineato – «percorre di grado in grado tutte le cose corporee». E giustamente spiega poi che il riferimento è alla visione di Ostia presente nel libro IX delle Confessioni, cui poi faremo riferimento. Poi di nuovo c’è una citazione dal De vera religione intitolata “Eccesso del sensibile”, dove si parla del fatto che soltanto una mente pura può vedere Dio, non certo i sensi. Qui abbiamo l’Agostino neoplatonico e tutta la diatriba, distesa per quindici secoli, per dire che Agostino e certi agostinismi sono stati nemici del mondo e del corpo, e quindi anche dell’umano nella sua quotidianità e della storia nel suo svolgersi. Questo è un agostinismo un po’ mistico, un po’ troppo platonico, rispetto a quello che poi vedremo.
In verità a me sembra, anche se poi Agostino non si legge mai abbastanza, di trovare in questo autore due fortissime tensioni che a volte contrastano – ma in quale mente geniale non si trovano contrasti? – e a volte si trascinano l’una con l’altra; e mi colpisce che tutte e due siano molto presenti nelle citazioni di papa Montini.
La prima è questo sospetto verso il sensibile, la cui presenza in tali appunti è motivata anche dal fatto che papa Montini scrive in un’epoca di consumismo all’arrembaggio, in un momento di scatenamento e anche di rivalsa delle forze della corporeità, della sensibilità (fenomeno che poi è andato prendendo strade rivolte più verso il marketing e magari meno verso pretese ideologiche o filosofiche). Questo sospetto, questa tensione anticorporea si ritrova in Agostino sia nella visione di Ostia – quella avuta con la mamma, Monica, prima che essa muoia – sia in altre pagine delle Confessioni (ma anche in altri libri).
Qual è il brano cui fa riferimento papa Montini quando dice che l’uomo moderno non percorre di grado in grado tutte le cose corporee? È il brano in cui Agostino ci racconta come, «all’avvicinarsi del giorno in cui [Monica] doveva uscire di questa vita [...], accadde [...], secondo i tuoi misteriosi ordinamenti» – non dimentichiamoci che le Confessioni sono un dialogo con Dio, quindi c’è sempre un tu a cui ci si rivolge –, che lì «nel giardino della casa che ci ospitava [...], lontani dai rumori della folla, intenti a ristorarci dalla fatica di un lungo viaggio [...], conversavamo [...] soli con grande dolcezza»2. Questa mamma è sempre dolcissima. Era una mamma che sapeva anche farsi valere, Agostino però la ricorda con dolcezza. «Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi, cercavamo fra noi, alla presenza della verità, che sei tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi»3. Quindi parlano tra loro della vita eterna. Leggo dalla traduzione di Carlo Carena, che in parte abbiamo rivisto insieme4: «Condotto il discorso a questa conclusione: che di fronte alla giocondità di quella vita il piacere dei sensi fisici, per quanto grande e nella più grande luce corporea» – ricordiamo che la luce è la più grande realtà materiale per Agostino –, «non ne sostiene il paragone, anzi neppure la menzione; elevandoci con più ardente impeto d’amore proprio verso di quello» – quell’id ipsum che non viene mai nominato come Dio, come essere, come sostanza, ma che è un “qualcosa” –, «percorremmo su su tutte le cose corporee» – e questa è la citazione fatta a memoria da Paolo VI – «e il cielo medesimo [...]. E ancora ascendendo in noi stessi» – quindi c’è un rientro in sé stessi, ed è tutto platonismo, naturalmente – «con la considerazione, l’esaltazione, l’ammirazione delle tue opere» – e quindi ammirando il mondo –, «giungemmo alle nostre anime e anch’esse superammo per attingere la plaga dell’abbondanza inesauribile, ove pasci Israele in eterno col pascolo della verità»5. I prati della verità sono i prati del Fedro di Platone, che Agostino non aveva letto, ma la sua espressione lo riecheggia: «ove la vita è Sapienza»6.
Qui il futuro è passato e il passato è futuro, siamo nell’eternità. «E mentre ne parlavamo» – quindi ancora ha spazio il linguaggio – Ecco quello di cui si lamenta Paolo VI, l’incapacità dell’uomo moderno, per usare il suo termine, di percorrere di grado in grado tutte le cose concrete, corporee, per superare addirittura sé stessi e il linguaggio. E poi c’è questo simpatico modo di esprimersi di Agostino, l’ascesa con la madre, questo attimo di silenzio e la caduta di cui sembra di sentire il tonfo con il «ridiscendere al suono vuoto delle nostre bocche»8. Ricadono nel parlare. Perdura soltanto un istante questa ascesa, che, tra l’altro, Agostino nei libri precedenti delle Confessioni dichiara di avere tentato più volte solo con l’aiuto della ragione, come era usanza nella mistica neoplatonica. I filosofi tendevano, anche attraverso forme di ascesi dura e severa, a superare sé stessi per attingere al primo principio: pensiamo a Plotino e a Porfirio. Agostino nel libro VII dichiara di non avere raggiunto lo scopo. Lo ribadisce due volte: umilmente racconta di non essere mai riuscito: vi riesce soltanto – a quanto ci risulta – in questo passo, con accanto la mamma, quindi in una situazione in cui si è già data la conversione ed è chiara, anche se non viene espressamente nominata, la potenza della grazia che lavora in lui e che gli permette di attingere per un istante alla sommità, per poi ricadere nel fragore della parola, delle cose.
Trascorso questo momento, Monica dice: «Cosa faccio qui?»9. E dopo pochi giorni muore. Un atteggiamento quindi, il suo, che sembra di rifiuto del mondo, o che assieme a uno sguardo di ammirazione brama di immergersi nell’eterno.
Ci sono parole simili che ritroviamo ancora citate da Paolo VI, quando, per esempio nel libro III delle Confessioni, Agostino ripercorre la propria adolescenza, che è un’adolescenza normale, non diversa, anzi molto più pacata dell’adolescenza di molti giovani a noi noti. È un’adolescenza normale per quel momento storico. Avere un figlio a sedici anni era normale, non sposare la madre del proprio figlio era consigliato dallo Stato romano quando c’era un problema di differenza sociale, perché il matrimonio presupponeva dei vincoli molto severi, soprattutto economici. E quindi l’immagine di Agostino grande peccatore diffusa dalle agiografie otto-novecentesche (immagine che prelude poi a quella del grande convertito) appare esagerata.
Noi sappiamo invece che il percorso di Agostino è lineare, è quello di un uomo inquieto – questo è chiaro fin dalle prime pagine delle Confessioni ed è comunque sempre dichiarato –, molto intelligente, molto ambizioso, il cui vero peccato, se vogliamo dire così, è proprio la grande ambizione. Quest’uomo ha un percorso in cui vuole conoscere tutto, compresa la vita carnale, compresa la verità che tenta di trovare nei Manichei, in Cicerone e così via; ma il suo è un percorso abbastanza regolare. Non ci sono grandi sbalzi, grandi cadute. Si tratta piuttosto di un lavorio interiore ed esteriore in cui la madre ha un suo ruolo, ma relativo (infatti il figlio spesso le dice di farsi da parte, e senza malintesi). Per esempio sappiamo che va a Roma dicendole: «Vado a salutare un amico; tu vai a pregare un momento in quella piccola cappella»; e poi riparte e la lascia sulla spiaggia, rifacendosi al topos virgiliano di Enea che lascia Didone... Tutto molto romantico, però, insomma, la povera Monica in quell’occasione attese tutta la notte che lui tornasse...
Nel raccontare sé stesso giovane, Agostino accentua invece l’aspetto della perversione. Dice: Io inquinavo la mia anima, avevo dentro di me un appetito insaziabile, la mia anima era «coperta di piaghe, si gettava all’esterno con la bramosia di sfregarsi miserabilmente a contatto delle cose sensibili, che pure nessuno amerebbe, se non avessero un’anima. [...] inquinavo la polla dell’amicizia con le immondizie della concupiscenza, ne offuscavo il chiarore con il Tartaro della libidine. Sgraziato, volgare, smaniavo tuttavia, nella mia straripante vanità, di essere elegante e raffinato»10. Poi, in seguito, dice: Dunque noi vogliamo godere, ma «amiamo anche la sofferenza» perché il nostro amore «sfocia in un fiume di pece bollente, in gorghi immani di oscuri piaceri, ove si muta e trasforma per proprio impeto, deviando e decadendo dalla sua limpidezza celeste»11. Ecco, è una visione terrificante. E anche quando tratta dell’amore dice: «Fui amato, raggiunsi di soppiatto il nodo del piacere e mi avvinsi giocondamente con i suoi dolorosi legami, ma per subire i colpi dei flagelli arroventati della gelosia, dei sospetti, dei timori, dei furori, dei litigi»12: una descrizione dell’amicizia – perché qui parla anche dell’amicizia –, dell’amore, della sensibilità corporea, dell’amore anche carnale, che è terrificante, che ha portato nei secoli a vedere in Agostino un fustigatore dei costumi oppure un uomo cattivo o un uomo buono a seconda del punto di vista. Però noi qui dobbiamo ricordarci che sta esagerando la sua cattiveria giovanile, per mettere naturalmente in risalto le meraviglie della conversione.
<I>Montini e Agostino</I>, Sant’Agostino negli appunti inediti di Paolo VI

Montini e Agostino, Sant’Agostino negli appunti inediti di Paolo VI

Lo si capisce leggendo altri passi, per esempio i due riportati nel foglio 44 da Paolo VI, di cui uno è famosissimo. Il primo è tratto dal De Trinitate e dice, citando un salmo, «Cercate il Signore»; e poi: «Lo si cerca per trovarlo con maggiore dolcezza e lo si trova per cercarlo con maggior desiderio»13, dove i termini non sono affatto “alti”. Si parla di dulcius, dolcezza, della stessa dolcezza di cui parlava quando si riferiva alla mamma e all’attrazione cattiva per le cose sensibili. Si diventa addirittura avidi nel cercare questa dolcezza. Questo brano è sullo stesso foglio che riporta un altro brano famosissimo. Lo lessi appena laureata, a Pavia, vicino alla tomba di sant’Agostino: «Tardi ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti amai!»14. «Sero te amavi, pulchritudo tam antiqua et tam nova! sero te amavi». Un passo colpevole, perché quando lo lessi, rimasi folgorata e ora eccomi qua. «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai, perché tu eri dentro di me e io fuori», con tutte le piaghe esteriori. «Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature»15. Qui ritroviamo quello che abbiamo sentito prima. Io, brutto, pieno di piaghe, mi buttavo sulla bellezza esterna. «Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te»16.
Verrebbe da dire: non c’è niente di nuovo. Di nuovo le creature con la loro bellezza, con la loro formosità – si parla di ista formosa, quindi con termini sempre molto carichi di valenza sensibile – «mi tenevano lontano da te». Ma ecco che «Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace»17.
Sono termini mistici questi? Sì. Ma sono termini di disprezzo per il sensibile? No. Sono termini in cui il sensibile viene utilizzato per comprendere un amore tutto spirituale, certamente, ma che non lascia insensibile il cuore, né lo spirito, né quello che c’è di più profondo dentro ciascuno di noi. È un gioco retorico, potrete dire. Sì, è vero: si usava, nel descrivere una situazione, un amore, un’amicizia, una persona, ma anche un paesaggio, i famosi loci amoeni, che toccano tutti i cinque sensi. Ma mai si era fatto con Dio in persona. E allora è vero sì che le tue creature belle «mi allontanavano da te», però quando tu hai bussato alla mia porta, io ti ho riconosciuto come bello, ti ho sentito, ti ho visto, ho sentito il tuo profumo, la tua fragranza, ho respirato la tua presenza, ti ho gustato. «Ho fame e sete di te», «ardo e brucio dal desiderio», exarsi: sono parole d’amore, sono parole che non potrebbe dire un uomo senza cuore, senza sensibilità, senza anima, senza corpo.
E allora mi ha commosso leggere gli appunti di Paolo VI per la sua meditazione, che noi siamo andati a indagare – mettendo il naso nella sua coscienza –, e trovare questi due aspetti con tutta la loro completezza. Da un lato, certamente, c’è una preoccupazione per l’eccesso del sensibile nell’uomo moderno (Paolo VI parla per un’epoca non tanto diversa, solo in parte differente da quella di Agostino) e contemporaneamente c’è questa dolcezza, che è la stessa dolcezza dell’amore per una donna, per un bambino, per una mamma e che evidentemente Paolo VI sentiva anche come sua.


Note
1 Agostino, Sermones 88, 14, 13.
2 Agostino, Confessiones IX, 10, 23.
3 Ibid.
4 Agostino, Le confessioni, a cura di M. Bettetini, trad. di C. Carena, Einaudi, Torino 2000.
5 Agostino, Confessiones IX, 10, 24.
6 Ibid.
7 Ibid.
8 Ibid.
9 Ibid. IX, 10, 26.
10 Ibid. III, 1, 1.
11 Ibid. III, 2, 3.
12 Ibid. III, 1, 1.
13 Agostino, De Trinitate XV, 32.
14 Agostino, Confessiones X, 27, 38.
15 Ibid.
16 Ibid.
17 Ibid.


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