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TOLKIEN
tratto dal n. 01 - 2004

Una gran bella favola, e nulla più


L’autore del Signore degli anelli visse da cattolico praticante soprattutto grazie alla fede della madre e diffidò delle idee spiritualiste e gnosticheggianti del gruppo letterario degli Inklings. Con cui, a torto, viene spesso confuso


di Giovanni Ricciardi


John Ronald Reuel Tolkien

John Ronald Reuel Tolkien

Per più di vent’anni, dal 1939 al 1962, un gruppo di professori universitari ebbe l’abitudine di ritrovarsi ogni martedì in un tranquillo pub di Oxford, l’Eagle and Child. Erano gli Inklings, un circolo letterario allora piuttosto informale, ma destinato a grandi fortune: il cinema li immortalò nel celebre Viaggio in Inghilterra del 1994. Due personalità emersero tra loro: Clive Staples Lewis e John Ronald Reuel Tolkien. Il primo raggiunse la fama a partire dagli anni Quaranta per una serie di libri di successo, tra cui le Lettere di Berlicche, gustoso epistolario tra un diavolo apprendista e il suo più esperto precettore sui modi più raffinati per tentare gli uomini. Tolkien sarebbe divenuto celebre dal 1954, grazie al Signore degli anelli, il romanzo più venduto e discusso del Novecento: oltre 100 milioni di copie dalla pubblicazione a oggi, senza contare la colossale versione cinematografica di Peter Jackson, il cui terzo episodio è in questi giorni nelle sale di tutto il mondo.
Lewis e Tolkien si conobbero nel 1926 al Merton College di Oxford. Erano entrambi giovani professori della facoltà di Lettere. Lewis, brillante e affabile, proveniva dalle file dell’alta borghesia protestante dell’Ulster. Dichiaratamente agnostico, convisse a lungo con una donna divorziata molto più grande di lui, Janie Moore, conosciuta durante la guerra quando lui aveva 18 anni e lei 45.
Tolkien, più schivo e riservato, aveva quattro figli, nati dal matrimonio con Edith Bratt. Era vissuto in ristrettezze fino all’approdo a Oxford, e anche allora lo stipendio riusciva a malapena a coprire le spese di una famiglia numerosa. Inoltre, caso raro per un docente universitario nell’Inghilterra di quegli anni, era diventato un cattolico devoto e fervente, grazie all’esempio della madre e del tutore, il padre oratoriano Francis Xavier Morgan.

La fede di Mabel
Tolkien era rimasto orfano di padre in tenera età. La giovane madre, Mabel Suffield, si era dovuta appoggiare economicamente alla famiglia d’origine per via della magra eredità lasciata dal marito. Quando però nel 1900 chiese improvvisamente di entrare nella Chiesa cattolica, il padre John, rigido metodista, non volle perdonare alla figlia un passo per lui incomprensibile. La donna, rimasta sola e priva di ogni sostegno, si trovò improvvisamente in estrema povertà. La situazione si aggravò quando Mabel contrasse il diabete nel 1904 e, priva di cure, si spense nel giro di pochi mesi. Ronald aveva allora undici anni.
«Quando penso alla morte di mia madre» scriveva Tolkien nel 1965 al figlio Michael «stremata dalle persecuzioni, dalla povertà e dalle conseguenti malattie, nello sforzo di trasmettere a noi ragazzi la fede, e quando ricordo la minuscola camera da letto che dividevamo, affittata nella casa di un postino di Rednal, dove lei morì tutta sola, troppo malata per ricevere l’estrema unzione, trovo molto duro e amaro il fatto che i miei figli si allontanino dalla Chiesa. Naturalmente Canaan sembra diversa a quelli che l’hanno raggiunta provenendo dal deserto; e gli ultimi abitanti di Gerusalemme possono sembrare spesso degli sciocchi o delle canaglie, o peggio. Ma in hac urbe lux solemnis” mi è sempre sembrato vero».
La famiglia di Tolkien divenne così l’Oratorio dei Padri di san Filippo Neri. Qui Mabel aveva incontrato il buon padre Morgan, che era stato il suo direttore spirituale. Prima di morire, nel timore che i figli fossero ricondotti nell’alveo protestante, lo aveva nominato tutore dei Tolkien fino al compimento della maggiore età.
Ronald trovò in lui un precettore esigente ma premuroso, col quale nacque, negli anni, un rapporto di profonda amicizia. Il sacerdote provvide a fargli terminare gli studi, fino all’approdo alla facoltà di Lettere, e a educarlo alla fede e ai sacramenti: «Mi sono accostato con amore all’eucarestia fin dall’inizio» scriveva nel 1941 «e con la grazia di Dio non me ne sono mai distaccato».
Vennero poi l’esperienza della guerra, il matrimonio, una rapida e brillante carriera accademica, l’incontro con Lewis.

Conversione e dissidio
A Oxford, Tolkien trascorreva molto tempo con l’amico, nelle stanze del college o in lunghe passeggiate serali. Lewis, incuriosito dalla religiosità di Tolkien, tornava spesso a porgli domande sulla fede. Poi, inaspettatamente, nel 1931, giunse alla conclusione di essere approdato al cristianesimo. Sulle prime, Tolkien ne fu felice – anche se Lewis tornò al protestantesimo irlandese dei suoi padri – ma la conversione dell’amico, alla lunga, piantò anche il seme del loro dissidio.
«Per il fatto di aver trovato Dio» scrive Michael White, biografo di Tolkien, «trovato Cristo ed essere diventato un credente, Lewis immediatamente si buttò nel ruolo dell’apologeta cristiano, ruolo che lo rese famoso molto oltre Oxford. Con una fretta che Tolkien considerava indecorosa, Lewis aveva pubblicato Le due vie del pellegrino (1933). Poi fra il 1940 e il 1941, durante il servizio nella contraerea, scrisse Le lettere di Berlicche, che uscirono a puntate su una rivista cristiana e che, quando divennero un libro, pubblicato nel 1942, ebbero un successo internazionale». Lewis divenne in breve un “campione” della “pubblicistica” cristiana: «Dalla fine degli anni Quaranta» scrive White «e in tutti gli anni Cinquanta, Lewis scrisse una lunga serie di libri di grande successo commerciale ognuno molto diverso dall’altro, usando una varietà di generi, ma in cui saltava sempre fuori il tema sottostante di servirsi dell’allegoria per esporre il suo punto di vista religioso».
Alcune immagini de Il ritorno del re, il film che chiude la trilogia dedicata alla saga del Signore degli anelli

Alcune immagini de Il ritorno del re, il film che chiude la trilogia dedicata alla saga del Signore degli anelli

Tolkien rimproverava a Lewis questa “sovraesposizione mediatica” della conversione. Gli sembrava sconveniente farne la “chiave” di un successo letterario. E infatti nelle opere di Tolkien la fede non è mai esplicitamente messa a tema. Emerge invece chiaramente nelle lettere scritte ai figli soprattutto durante la Seconda guerra mondiale. Come quella indirizzata a Christopher, impegnato al fronte, l’8 marzo 1944: «Se non riesci a raggiungere la pace interiore, e a pochi è dato raggiungerla (men che mai a me) nelle tribolazioni, non dimenticare che l’aspirazione a raggiungerla non è inutile, ma un atto concreto. Mi dispiace di doverti parlare così e in modo così incerto. Ma non posso fare niente di più per te, carissimo […]. Se già non lo fai, prendi l’abitudine di pregare. Io prego molto (in latino): il Gloria Patri, il Gloria in excelsis, il Laudate Domino, il Laudate pueri Dominum (a cui sono particolarmente affezionato), uno dei salmi domenicali; e il Magnificat; anche la Litania di Loreto (con la preghiera Sub tuum praesidium). Se nel cuore hai queste preghiere non avrai mai bisogno di altre parole di conforto».
Del resto, se gli Inklings e il rapporto con Lewis furono letterariamente uno stimolo importante per Tolkien, è anche vero che le sue storie nacquero anche come un atto d’amore verso i figli, che ne furono i primi destinatari. Quando il primo libro di Tolkien, Lo Hobbit, fu dato alle stampe nel 1937, la fiaba era stata già raccontata “oralmente” ai bambini parecchi anni prima. A quel tempo Lewis era già uno scrittore di successo. Anche il romanzo di Tolkien ebbe un buon gradimento, e l’editore gli chiese un seguito della storia, quello che poi sarebbe divenuto Il Signore degli anelli.

Non celebra Lucifero
Lewis lodò Lo Hobbit con recensioni lusinghiere, ma l’amicizia tra i due non era più quella di un tempo. A Tolkien non piaceva soprattutto la strana influenza che su Lewis esercitò sempre più pesantemente, dalla fine degli anni Trenta in poi, un nuovo membro degli Inklings, lo scrittore Charles Williams. «Membro devoto della Chiesa d’Inghilterra» scrive White, «Williams era contemporaneamente affascinato in maniera ossessiva dal misticismo e dall’occulto. Faceva parte di un famoso gruppo iniziatico come l’Ordine dell’Aurora dorata di cui era membro il famigerato Aleister Crowley [il fondatore del satanismo moderno, ndr], ma la domenica andava in chiesa a pregare».
La produzione letteraria di questi membri del gruppo aveva per Tolkien qualcosa di ambiguo. Le loro storie, sulla scia della tradizione favolistica moderna, erano pericolosamente attratte dal fascino dell’esoterico e dell’occulto. Mentre Tolkien continuava, faticosamente, a scrivere, il rapporto con l’amico si andava incrinando ormai definitivamente. Il Signore degli anelli, che ebbe una lunghissima gestazione, fu letto alle riunioni degli Inklings solo fino a un certo punto. Negli anni Cinquanta Tolkien non le frequentava quasi più.
Quando infine il libro fu pubblicato nel 1954, il successo fu subito inaspettatamente travolgente. Da allora a oggi se ne è scritto moltissimo. Disprezzato dalla maggior parte dei critici letterari, bollato in Italia come un pasticciato revival di antiche saghe celtiche, amato alla follia da schiere di lettori in tutto il mondo, Il Signore degli anelli non è solo un romanzo fantastico, ma un vero e proprio poema epico in prosa. Un’opera che divide i suoi ammiratori incondizionati dai suoi feroci detrattori. Vi si sono voluti vedere i significati più diversi: Tolkien è stato di volta in volta figlio dei fiori, fascista, nostalgico del Medioevo. Ma rifuggì sempre da questo tipo di interpretazioni: «Io penso che le storie fantastiche» scrisse «abbiano un loro modo di rispecchiare la verità, diverso dall’allegoria, o dalla satira (quand’è elevata), o dal “realismo”, e per alcuni versi più potente. Ma prima di tutto la storia fantastica deve riuscire come racconto, divertire, piacere, e anche commuovere a volte, e sempre nell’ambito delle credenze (letterarie) del suo mondo immaginario. Riuscire a ottenere tutto questo è stato il mio obiettivo principale».

Vale la pena però di riportare il giudizio che del romanzo diede, nell’introduzione all’edizione italiana, Elémire Zolla, mettendo a confronto la saga di Tolkien con la tradizione della fiaba moderna e contemporanea: «Una differenza sottile e radicale, come fra la notte e il giorno, discrimina Tolkien, segnatamente da Graves, Williams e Powys: egli non cerca la mediazione tra male e bene, ma soltanto la vittoria sul male. I suoi draghi non sono da assimilare, da sentire in qualche modo fratelli, ma da annientare». In tutti codesti moderni favolisti, «sempre si assiste a una calata negli inferi non per debellarli ma per farsi contagiare, sì da ricevere una diabolica energia. […] In breve, ci si ritrova nell’atmosfera consueta, moderna, erotica, intrisa di confusioni, androgina, che fu inaugurata da Blake, che è stata nella scorsa generazione formulata da Jung. […] Il fascino che sprigiona da Tolkien proviene dal suo completo ripudio di quella tradizione sinistra. La sua fiaba non celebra il consueto signore delle favole moderne, Lucifero».

«L’unica grande cosa
da amare sulla terra»
Quando il gesuita Robert Murray gli scrisse d’aver trovato la sua storia profondamente cattolica, nonostante Dio non fosse nominato neppure una volta, Tolkien ne fu immensamente consolato: «Mio caro Rob, mi ha specialmente rallegrato quello che tu hai detto […] e hai rivelato persino a me stesso alcune cose del mio lavoro. Penso di sapere esattamente che cosa intendi con dottrina della Grazia; e naturalmente con il tuo riferimento a Nostra Signora, su cui si basa tutta la mia piccola percezione di bellezza sia come maestà sia come semplicità. Il Signore degli anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. […] Perché a dir la verità, io consciamente ho programmato molto poco; e dovrei essere sommamente grato per essere stato allevato (da quando avevo otto anni) in una fede che mi ha nutrito e mi ha insegnato tutto quel poco che so». Quella fede Tolkien cercò in tutti i modi di custodire e lasciare in eredità ai figli. Due di loro, John e Priscilla, scelsero la vita religiosa.
In vecchiaia, con la notorietà e la fortuna economica, tentò in tutti i modi di preservare la privacy. Aveva conosciuto il successo ma perduto molte amicizie; aveva conservato l’unione con Edith, anche se a prezzo di incomprensioni e difficoltà. «Mi sono innamorato di tua madre» scrisse una volta a Christopher «quando avevo circa diciotto anni. Profondamente, come si è dimostrato – anche se naturalmente difetti di carattere e di temperamento hanno fatto sì che spesso io sia sceso al di sotto dell’ideale che mi ero proposto». Del resto, «solo un uomo molto saggio, arrivato al termine della sua vita, potrebbe esprimere un equo giudizio su quale persona, fra tutte, avrebbe fatto meglio a sposare! Quasi tutti i matrimoni, anche quelli felici, sono errori: nel senso che quasi certamente (in un mondo migliore, o anche in questo, pur se imperfetto, ma con un po’ più di attenzione) entrambi i partner avrebbero potuto trovare compagni molto più adatti. Ma la vera anima gemella è quella che hai sposato. Di solito tu scegli ben poco: lo fanno la vita e le circostanze (benché, se c’è un Dio, queste non sono che i Suoi strumenti o la Sua manifestazione)».
Negli ultimi tempi si tormentava temendo di essere stato un cattivo padre. E tuttavia sapeva di aver sempre cercato di comunicare ai figli ciò che per lui era l’essenziale: «Al di là di questa mia vita oscura, tanto frustrata» scriveva a Michael, «io ti propongo l’unica grande cosa da amare sulla terra: i Santi Sacramenti. Qui tu troverai avventura, gloria, onore, fedeltà e la vera strada per tutto il tuo amore su questa terra, e più di questo: la morte. Per il divino paradosso che solo il presagio della morte, che fa terminare la vita e pretende da tutti la resa, può conservare e donare realtà ed eterna durata alle relazioni su questa terra che tu cerchi (amore, fedeltà, gioia), e che ogni uomo nel suo cuore desidera».


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