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ORTODOSSI
tratto dal n. 01 - 2004

Primato o egemonia? La storia di una separazione


A 950 anni dallo scisma fra i cristiani d’Oriente e d’Occidente (1054) e a 800 anni dalla quarta crociata (1204): due date fatidiche fra loro strettamente collegate non solo dalla ricorrenza pluricentenaria


di Lorenzo Cappelletti


La Basilica di Santa Sofia, costruita sotto l’imperatore Giustiniano (527-565), consacrata nel 537, divenuta moschea con l’occupazione ottomana nel 1453 e oggi adibita a museo, Istanbul, Turchia. Il 16 luglio 1054 il legato papale Umberto di Silvacandida depose sull’altare di Santa Sofia la bolla di scomunica contro il patriarca bizantino Michele Cerulario

La Basilica di Santa Sofia, costruita sotto l’imperatore Giustiniano (527-565), consacrata nel 537, divenuta moschea con l’occupazione ottomana nel 1453 e oggi adibita a museo, Istanbul, Turchia. Il 16 luglio 1054 il legato papale Umberto di Silvacandida depose sull’altare di Santa Sofia la bolla di scomunica contro il patriarca bizantino Michele Cerulario

Quando il 7 dicembre 1965, a conclusione del Concilio Vaticano II, da latini e greci fu «cancellata dalla memoria» la reciproca scomunica avvenuta nel lontano 1054, quella data di oltre nove secoli prima divenne sicuramente più popolare. Sicuramente più di quanto non lo fosse all’epoca dei fatti.
Se si sta alle fonti, infatti, come insegna il buon metodo storico, il primo dato che colpisce è che «lo scisma del 1054 è del tutto ignorato dalla storiografia bizantina contemporanea», come tutti gli autori ricordano citando la toria dell’Impero bizantino di Georg Ostrogorsky (p. 293) che tuttora fa testo anche a Occidente. Tale data costituì e costituisce una cesura solo per la storiografia di una parte determinata della cristianità. Non a caso è stata scelta per aprire il quinto volume di una delle imprese storiografiche “franche” più impegnative degli ultimi anni, l’Histoire du christianisme della Desclée (già tradotta in tutte le lingue principali), dedicato significativamente all’Apogeo del papato e espansione della cristianità (1054-1274), laddove tale data invece «non segna una rottura nella storia generale della Chiesa bizantina» (ivi, p. 16).
Per questo non sarà improprio concentrare l’attenzione anche sulle interpretazioni oltre che sulle fonti. Mai come in questo caso, per comprendere bisogna ricorrere non solo ai fatti, ma anche agli interpreti. Perché in questa storia di separazione «i fatti possono essere enfatizzati in un senso o nell’altro» ammonisce Giorgio Fedalto, uno degli storici che possono vantare più esperienza sulla questione (Le Chiese d’Oriente, vol. I, p. 112).

I fatti
Cominciamo dai fatti. Senza enfasi.
Il 1054 è l’ultimo anno del debole governo di Costantino IX, sposo di Zoe, l’ultima rappresentante, con la sorella Teodora, della dinastia macedone. Con tale dinastia (la cui storia, nel 1917, alla vigilia della fine di ogni Impero, fu narrata con passione da Léon Bloy in Costantinople et Byzance, da poco pubblicato in italiano da Medusa) l’Impero bizantino aveva toccato il suo apogeo, ma ormai si trovava sulla via del tramonto dopo la morte del grande Basilio II (†1025). Non è un dato qualsiasi. Come non è un dato qualsiasi che questa potente dinastia per oltre un secolo e mezzo aveva mantenuto relazioni tutto sommato amichevoli con Roma. «Non fu, contrariamente a quanto si è spesso pensato, il “cesaropapismo” bizantino a provocare la rottura. […] Fu una peculiare combinazione di fattori, in cui ad un papato forte e alieno da ogni compromesso si contrapponeva un patriarcato altrettanto forte, compreso della coscienza della propria dignità e affiancato da un Impero debole» (Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, pp. 305-306).
La resa dei conti inizia in periferia, nell’Italia meridionale, da secoli oggetto delle contrapposte pretese giurisdizionali dei patriarcati romano e costantinopolitano. Sarebbe troppo lungo rifarne la storia. Basti dire che, a partire dai primi anni dell’XI secolo, «l’intreccio della politica pontificia con gli interessi dei Normanni e dell’imperatore tedesco nell’Italia meridionale provoca in questa regione una situazione nuova», scrive il grande bizantinista Hans-Georg Beck nella Storia della Chiesa diretta da Hubert Jedin (vol. IV, p. 533). In effetti suscitava scalpore a Bisanzio l’appoggio dato da Roma non solo ai Normanni, insediatisi fra Puglia e Campania a spese dei bizantini, ma anche all’insurrezione irredentista del greco latinizzato Meles a Bari. Guarda caso, proprio in quegli anni a Costantinopoli si comincia a non menzionare più il papa regnante nella liturgia e viceversa solo allora (1014) il Filioque viene introdotto nella liturgia romana. Non prima, come ha dimostrato con perizia da filologo Vittorio Peri in diversi saggi ora raccolti nel secondo dei due accuratissimi volumi Ta Oriente e da Occidente. Le Chiese cristiane dall’Impero romano all’Europa moderna, Editrice Antenore, Roma-Padova 2002.
Al momento dello scisma, però, le circostanze sembravano essere favorevoli a un incontro più che a uno scontro. Infatti, intorno alla metà dell’XI secolo, era in vista un’operazione antinormanna frutto di un’intesa fra bizantini, tedeschi e latini a cui si era adoperato il barese Argiro, figlio del Meles di cui sopra. Il papato riformatore intendeva scrollarsi di dosso anche il peso della protezione dei Normanni. I conti, però, erano stati fatti non solo senza di loro, ma anche senza Michele Cerulario, il patriarca costantinopolitano la cui «personalità tempestosa per non dire rivoluzionaria rappresenta un’eccezione nella storia dei patriarchi bizantini» (Storia della Chiesa, dir. Jedin, vol. IV, pp. 533-534). Per impedire l’intesa, costui mise in atto un’azione di rottura, chiudendo i monasteri e le chiese latine a Costantinopoli, e affidando la propaganda antilatina alla penna di Leone, un funzionario del Palazzo costantinopolitano elevato all’arcivescovado bulgaro di Ochrid (contro la propria tradizione, anche la Chiesa bizantina agiva in senso accentratore in questo momento).
Incaricato della risposta a Roma è Umberto di Silvacandida che la redige rimproverando più di novanta errori ai greci. È anch’egli un rivoluzionario, in un palatium lateranense che comincia a essere trasformato in curia (cioè corte) proprio da Leone IX: di essa formalmente non fanno parte «i veri grandi realizzatori della riforma» (p. 12), come Umberto, scrive Edith Pásztor, che ha studiato specificamente la questione in vari saggi contenuti in Onus Apostolicae Sedis. Curia romana e cardinalato nei secoli XI-XV; la loro partecipazione «avviene ormai chiaramente al di sopra delle strutture del palatium» (ivi, pp. 12-13). Gli uffici tradizionali sono svuotati di significato. Umberto, proveniente dallo stesso ambito riformatore di Leone IX e nominato da lui alla sede suburbicaria di Silvacandida, non era stato inserito nei quadri del palatium con la nomina a bibliotecario (cioè Segretario di Stato). «Ciò nonostante gli viene affidata una parte di primo piano nella sua politica e nella preparazione di vari atti e lettere ufficiali. È la prima volta che un vescovo suburbicario partecipa attivamente agli affari della Chiesa romana senza avere la carica di bibliotecario» (ivi, p. 11). Le forme non sono mai indifferenti.
Tant’è vero che papa Leone IX, nelle vesti di generale che non gli competevano, arma un esercito e prende in prima persona la guida dell’operazione contro i Normanni in Puglia, venendo sconfitto e fatto prigioniero nel giugno 1053.
San Leone IX  papa (1049-1054) e Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli, miniatura tratta da un manoscritto greco del XV secolo, Biblioteca Nazionale, Palermo.

San Leone IX papa (1049-1054) e Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli, miniatura tratta da un manoscritto greco del XV secolo, Biblioteca Nazionale, Palermo.

Ma proprio questo indebolimento del papato rafforzava le ragioni dell’intesa fra bizantini e latini. Così, nel gennaio 1054, i legati papali capeggiati da Umberto di Silvacandida sono inviati a Costantinopoli per ritessere la trama dell’accordo e sono accolti con onore dall’imperatore. L’ambasceria, però, trascurando che anche a Bisanzio è in corso una rivoluzione, si inganna nel considerare l’imperatore l’interlocutore maggiore. Così il patriarca si adombra. Umberto pure. Si scatena la bagarre dialettica. Umberto fa tradurre in greco la sua precedente risposta polemica e si impegna in una deplorevole disputa dove taccia di eresia, a casa loro, molti usi dei greci, legittimi anche se difformi dalla tradizione latina. Lo scontro si conclude alla fine colla deposizione sull’altare di Santa Sofia, il 16 luglio 1054, della bolla di scomunica contro il patriarca Cerulario e i suoi seguaci. Costui, convocato il sinodo qualche giorno dopo, ritorce la scomunica contro i latini. Così «l’incontro, che doveva sanzionare un accordo, divenne causa di un attrito maggiore» (Fedalto, Le Chiese d’Oriente, vol. I, p. 113).
Con tutto ciò non si era davanti a niente di realmente nuovo, si erano solo acuiti i dissapori, causati, fra l’altro, non da due uomini troppo attaccati alla rispettiva tradizione, ma da due rivoluzionari. Il gesuita Wilhelm de Vries, scomparso nel 1997, dopo aver dedicato tutta la sua lunghissima vita a mantenere vivo il dialogo con l’Oriente, poteva dire qualche anno fa (purtroppo resta ancora valido, ci sembra) che, «propriamente parlando, oggi ortodossia e cattolicesimo sono lontani uno dall’altro più di quanto non lo fossero allora, verso la metà del secolo XI» (Ortodossia e cattolicesimo, p. 75).
Cosa ha fatto precipitare la situazione?
Quel che seguì.

Le crociate
I due decenni che seguono il 1054 sono quanto mai amari per l’Impero bizantino. Non è solo l’histoire bataille a riconoscere nella sconfitta di Mazinkert da parte dei Turchi e nella perdita di Bari, ultimo caposaldo bizantino nella penisola italiana preso dai Normanni, entrambe avvenute nel 1071, i due episodi emblematici, ai suoi estremi confini, di un arretramento generale. A Oriente, infatti, ad opera dei Turchi, l’Impero perde definitivamente Armenia, Cappadocia, Cilicia e Asia minore. La riconquista della Sicilia da parte di Ruggero il Normanno, e l’acquisizione dell’indipendenza del Montenegro e della Croazia privano Bisanzio degli ultimi suoi punti di forza a Occidente.
Benché questa débâcle, in Occidente, avvenga sotto l’alta protezione che Gregorio VII dà ai movimenti nazionalisti, chiamiamoli così, è a lui che il nuovo imperatore bizantino chiede aiuto per l’Oriente. Gregorio menziona questo appello in una sua lettera del 1074: «I cristiani d’oltremare, che vengono falcidiati dai pagani con stragi inaudite e uccisi quotidianamente come animali, così che il popolo cristiano è ridotto a niente, spinti da condizioni davvero miserabili, umilmente si sono rivolti a me implorando che io soccorra in qualunque modo questi nostri fratelli, affinché non scompaia, non sia mai!, la religione cristiana nel nostro tempo».
L’accoglienza di tale appello, almeno idealmente, perché Gregorio non è in grado di mettere in atto il progetto, segna il vero inizio delle crociate, di quel movimento armato che si realizza non più dietro l’impulso dell’imperatore cristiano ma del papa: «ad me», scrive il Papa, è rivolta l’implorazione perché io soccorra i nostri fratelli.
D’altronde Gregorio, nella stessa lettera, si dice mosso a questa impresa anche dal fatto che la Chiesa di Costantinopoli «concordiam apostolicae sedis exspectat». Un sogno sembrava potersi avverare: la cristianità che si riuniva sotto un unico capo che era allo stesso tempo l’unico pastore. Un sogno coltivato fin dall’epoca dei Carolingi, quando la deriva imposta da costoro aveva allontanato i latini dai greci. In effetti, se fra VIII e XI secolo era cresciuto il distacco non solo politico dell’Occidente dall’Oriente cristiano, era stato proprio a causa dei Carolingi, con il loro arroccarsi su una dottrina delle immagini difforme da quella stabilita nel Concilio II di Nicea e sul Filioque. «Non si è soliti parlare abbastanza dello scisma della Chiesa carolingia dalla Chiesa di Roma e dai patriarcati della Chiesa bizantina ancora in comunione con lei consumatosi tra l’VIII e l’XI secolo» scrive seccamente Vittorio Peri (Da Oriente e da Occidente, p. 738). «L’inizio dello scisma millenario tra Occidente ed Oriente trova la sua genesi storica proprio in questo scisma della Chiesa carolingia dalla Chiesa greca d’Oriente, non condiviso all’epoca dalla Chiesa romana» (ivi, p. 742).
Ritorniamo alla fine dell’XI secolo quando, al di là di ogni scisma, l’anelito di portare aiuto ai fratelli d’Oriente e di liberare il Santo Sepolcro fu, comunque, talmente travolgente che nel luglio 1099 Gerusalemme è liberata.
Gli accenti di entusiasmo e di religiosità di quegli anni, però, già «non si possono capire seguendo criteri storici posteriori, anche di pochi secoli all’impresa» avverte acutamente Fedalto, perché, da una parte, alla liberazione del Santo Sepolcro si era accompagnata l’occupazione di terre e la formazione di principati (cfr. Fedalto, La Chiesa latina in Oriente, vol. I, p. 82), dall’altra, la riforma gregoriana stava svolgendo i suoi effetti. «Si può affermare senza timore di sbagliare che la crociata non sarebbe stata possibile senza tutta quella preparazione che va sotto il nome di riforma gregoriana e che trovò in Gregorio VII l’esponente di maggior rilievo. È vero che la riforma era diretta in primo luogo a una rivalutazione spirituale della Chiesa, con la conseguente correzione degli abusi e il ristabilimento dell’autorità pontificia e vescovile; tuttavia il fenomeno di centralizzazione papale da essa comportato ebbe la conseguenza di conferire una dinamica molto più espressiva a una qualsiasi decisione, comprese quelle rivolte all’ordine civile. Certamente il papa non concepiva la Chiesa come disincarnata dalla realtà temporale; se ci si salva nella storia, è appunto la storia che deve essere salvata e redenta dal cristiano. Senza un intervento negli affari temporali si resta alla mercè dei nemici» (ivi, pp. 76-77).
I crociati assaltano  Costantinopoli nel maggio 1204, Jacopo Negretti, detto Palma il Giovane, Palazzo Ducale, Venezia

I crociati assaltano Costantinopoli nel maggio 1204, Jacopo Negretti, detto Palma il Giovane, Palazzo Ducale, Venezia

L’improvvida deviazione che avrebbe portato ad occupare Bisanzio nel 1204 da parte dei Veneziani e dei Franchi (il nome di tutti gli occidentali, nel gergo bizantino), e a posteriori a giustificare questo con lo scisma, era nella logica di questo movimento di riforma.
Non mette conto andare a scandagliare la scandalosa efferatezza della quarta crociata, che peraltro sarebbe rimasta per sempre nella memoria dei greci. Non mette conto soffermarsi a precisare che il papa Innocenzo III fu ingannato dai Veneziani: per la stessa natura della crociata, la responsabilità gravava sul suo capo. Conviene piuttosto considerare che la crociata era stata mossa dall’idea che la cristianità fosse una sola, quella latina. All’inizio, anche per la scarsa conoscenza della realtà articolata del cristianesimo orientale; dopo un secolo e oltre, anche per un progetto di conquista. All’inizio, quell’idea consentiva di poter correre in aiuto di fratelli; dopo un secolo e oltre, di punirli in quanto scismatici. Non a caso la letteratura sulla crociata, dopo la presa di Costantinopoli del 1204, in seguito alla quale non si forma solo un Impero latino d’Oriente, ma anche una gerarchia latina in Oriente, si interessa allo scisma più che a Gerusalemme. Che pure era di nuovo da liberare, visto che nel 1187 era stata ripresa da Saladino. Ma ora «era lo scisma della Chiesa greca ad attirare la principale attenzione degli autori. […] Era finita l’epoca gloriosa degli appelli per liberare il Santo Sepolcro, ne era maturata un’altra, quella della evangelizzazione […]. La crociata alla quale in sempre minor numero si dava credito, era diventata altra cosa: era stata l’occasione per aprire la strada dell’Oriente alla Chiesa latina o, se si vuole, a tener lontano dall’Europa l’Islam» (ivi, pp. 82-83). Si potrebbe dire: l’Oriente cristiano tendenzialmente cancellato per il fatto di trovarsi sulla strada di Gerusalemme. «Essendo il papato romano il centro di ogni possibile cristianità, chi non l’avesse riconosciuto come l’unica forma canonica nell’Europa cristiana postgregoriana, con giuramento di obbedienza e di fedeltà, con ciò stesso perdeva il titolo giuridico ad occupare una chiesa con beni e pertinenze» (ivi, p. 89).

Riforma e egemonia
Torniamo indietro sia cronologicamente che geograficamente, nell’Occidente della seconda metà dell’XI secolo. Il «giuramento di obbedienza e di fedeltà» ci riporta infatti alla formula dell’omaggio feudale che, in “Riscossa antifeudale della Chiesa”, come titolava il capitolo su Gregorio VII, Giorgio Falco vedeva abolito dal «più tremendo distruttore del vecchio mondo feudale e il più grande creatore di una nuova realtà storica» (La Santa Romana Repubblica, p. 148). Contrariamente a quel che sosteneva e sostiene questo idealismo storico-filosofico (con la realtà di lutti e rovine che si porta dietro), la riforma gregoriana non spazza via i rapporti feudali, li fa propri per spazzare via il precedente coordinamento dei poteri. Nell’Europa cristiana postgregoriana il vassallaggio si rafforza, ma a parti invertite. È quel che ha spiegato in lungo e in largo nelle sue opere il compianto Cinzio Violante, da ultimo in quella sintesi breve ma efficacissima, quasi un testamento, che è Chiesa feudale e riforme in Occidente (sec. X-XII). Introduzione a un tema storiografico. «Con la riforma ecclesiastica romana il processo di feudalizzazione della Chiesa non rallentò, anzi si intensificò. […] La “riconquista cristiana del mondo” per restaurare ed estendere la Cristianità e soprattutto per assicurarla da nuove prevaricazioni dei poteri secolari fu condotta dalla Chiesa pure con mezzi feudali, come la creazione di Stati vassalli» (ivi, p. 149). «Al papato non interessava tanto la proprietà terriera quanto la possibilità di avere a disposizione dei vassalli da impegnare nelle imprese militari» (Storia della Chiesa, dir. Jedin, vol. IV, p. 472). Questo è l’intreccio reale: perché, fra l’altro, proprio «le esigenze finanziarie della lotta per le investiture e della preparazione delle crociate» (Violante, Chiesa feudale e riforme in Occidente [sec. X-XII], p. 157) determinano il «crescente inserimento della Chiesa stessa, di tutte le sue istituzioni e – a un certo punto – della stessa Sede apostolica nello sviluppo dell’economia monetaria […]. Specialmente Gregorio VII, Urbano II e lo stesso Pasquale II, fautore della povertà, furono costretti dalle nuove grandi esigenze di spesa, che si erano create per motivi religiosi, a impinguare le finanze pontificie con nuove entrate» (ivi).
Non fu soltanto perché intendeva correggere abusi che la riforma creò scompiglio e resistenze. Anche gli antipapi del periodo (ovverosia i papi obbedienti all’imperatore, d’Occidente in questo caso), come un Clemente III, erano impegnati a riformare la vita del clero, cioè a lottare contro il concubinaggio e la simonia. «La stessa Chiesa del regno di Germania, che era posta interamente sotto il controllo imperiale, ci appare adesso, in genere, ben ordinata e funzionante nel secolo XI […]. In realtà l’immagine che le fonti filopapali, in particolare quelle “gregoriane”, davano delle Chiese che resistevano alla riforma romana […] era determinata da una forte contrapposizione ideologica» (ivi, p. 153). E quale Chiesa sarebbe stata più resistente di quella greca, quale avrebbe meritato la stampa peggiore?
Dicendo questo non si mette in questione la santità né di Leone IX, né di Gregorio VII; non si mette in questione il primato romano. Ci si chiede semplicemente se quella libertas, di cui il primo a parlare fu proprio Leone IX, non fu rivendicata anche e soprattutto per un progetto di egemonia. L’Histoire du christianisme riconosce francamente che «Roma aveva di mira l’installazione della libertas romana nella misura in cui il papa si sostituiva all’imperatore e, offrendo a suo modo libertà alle Chiese, al contempo garantiva loro la sua protezione e il suo controllo» (p. 15). È su questo che, all’interno dello stesso partito gregoriano, Pier Damiani prende le distanze da Ildebrando e da Umberto di Silvacandida, perché non condivide il «passaggio da una ecclesiologia sostanzialmente unitaria, in cui il potere temporale laico dell’imperatore e l’autorità spirituale del papa erano un tutto inscindibile, realizzabile in vari modi e secondo varie istituzioni, a una ecclesiologia il cui assunto fondamentale era invece la piena libertas Ecclesiae» (Violante, Chiesa feudale e riforme in Occidente [sec. X-XII], pp. 132-133).
Il peana che Giorgio Falco innalza a tale libertas non crediamo faccia bene alla Chiesa, come forse sono portati a credere anche tanti ecclesiastici; fa parte del battage ideologico che si serve della riforma gregoriana per portare acqua, anzi lacrime e sangue, a altri mulini: «La Chiesa era finalmente libera, cioè, dopo quasi due secoli di sforzi disperati, era riuscita a riformare il clero, a districarlo dai tentacoli del laicato e della mondanità, e moveva ora col suo esercito gerarchico, immenso, compatto, obbediente ad un comando, verso la conquista dell’egemonia europea» (La Santa Romana Repubblica, p. 254). Tali mulini non si curano se tutto questo porta «una guerra più paurosa ed universale», necessaria gestazione del futuro: «La riforma che culmina con Gregorio VII non porta agli uomini la pace; anzi una guerra più paurosa ed universale. […] Sotto la fervida, battagliera operosità dell’accentramento romano si vien plasmando una seconda Europa, dopo quella di Carlo Magno, più stabile, vasta, consapevole di sé; le moltitudini che premono per venire alla luce – protagonisti di domani – sono chiamate come testimoni e partecipi della lotta» (ivi). Tali mulini non si curano della custodia del depositum, ma di salmodiare «della più grande rivoluzione del Medioevo, della più profonda fede politica e religiosa. […] Gregorio VII è la rivoluzione e l’avvenire» (ivi, p. 255). Pura enfasi.


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