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MOSTRE
tratto dal n. 06 - 2001

Caravaggio, uno sguardo sull’oggi


Così Longhi, cinquant’anni fa, sintetizzava il genio del pittore lombardo. E spiegava: Caravaggio, per un istinto, spazzava via tutto l’aspetto rievocativo. L’unico tempo che accendeva il suo interesse era il presente. Il passato e il futuro non erano cosa sua. È questa la chiave di lettura più adeguata per leggere la bellissima mostra di Roma su Michelangelo Merisi


di Giuseppe Frangi


In queste pagine, la Madonna di Loreto, la Deposizione e la Cattura di Cristo dipinti da Caravaggio fra il 1602 e il 1605

In queste pagine, la Madonna di Loreto, la Deposizione e la Cattura di Cristo dipinti da Caravaggio fra il 1602 e il 1605

Cinquant’anni fa, presentando a Milano la mostra che avrebbe consacrato Caravaggio all’attenzione del mondo, Roberto Longhi provò a sintetizzare con una formula molto efficace la novità e lo stupore del grande artista lombardo: scrisse che l’occhio del Caravaggio era un occhio concentrato sull’oggi (il corsivo era proprio di Longhi). Sia che raccontasse episodi della vita di Cristo, sia che dipingesse quadri devozionali, Caravaggio, per un istinto, spazzava via tutto l’aspetto rievocativo. L’unico tempo che accendeva il suo interesse e quindi la sua forza creativa era il presente; il passato e il futuro non erano cosa sua. Longhi, per rafforzare questa sua intuizione, aveva anche scritto che il Caravaggio faceva della pittura come oggi si fa il cinema. Accendeva i riflettori su persone in carne ed ossa, che usava come modelli. Si sentiva psicologicamente a suo agio nella fragilità dell’istante, nella casualità con cui la realtà compone il suo ordine nel disordine della vita. Il quadro era un fotogramma, un attimo acceso da un imprevisto stupore e l’attimo successivo destinato a essere sostituito da un altro.
Crediamo che a cinquant’anni di distanza, pur avendo accumulato infinite conoscenze sulla vicenda di Caravaggio, questa sia ancora la chiave di lettura più adeguata per la sua grandezza. E la bellissima mostra che il 30 luglio chiuderà a Roma l’incredibile forcing di esposizioni caravaggesche degli ultimi tre anni offre molti spunti per rileggere il Caravaggio come pittore dell’oggi. Tre di questi spunti hanno anche un legame cronologico molto serrato: sono frutti della stagione creativa più prolifica del Caravaggio, quella che segue le due commissioni che lo consacrano all’attenzione di tutti (San Luigi dei Francesi e la Cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo) e precede la fuga da Roma (1605) dopo il delitto di Ranuccio Tomassoni. In quei tre anni Caravaggio, già pregiudicato ma ricco, vive per l’unico periodo della sua vita in una casa sua, a vicolo San Biagio, dove si trasferì, uscendo una prima volta di prigione nel settembre 1603. Era una casa su due piani, uno adibito a studio, l’altro ad abitazione. Qui nacquero tutti i capolavori di quegli anni, dalla Morte della Vergine, alla Madonna dei Palafrenieri dipinto per San Pietro. E qui venne dipinta quella Deposizione che nell’edizione londinese della mostra faceva parte del percorso e che a Roma, giustamente, è stata lasciata ai Musei Vaticani.

Il Nicodemo
Per questa tela Caravaggio ricevette la commissione nel 1602: era destinata ad un altare di Santa Maria in Vallicella, la chiesa di san Filippo Neri. Sistemato nella seconda cappella di sinistra, faceva da anello di congiunzione tra i misteri dolorosi e i misteri gloriosi che decoravano le cappelle della chiesa, secondo il piano iconografico voluto da san Filippo Neri stesso. La tela, costruita con l’essenzialità e la sapienza dei grandi, raccoglie sei personaggi, lungo una linea obliqua che segue la diagonale del quadro e che dà un senso drammatico di caduta verso il luogo del sepolcro dove sta per essere deposto il corpo di Cristo. Il primo personaggio in alto è Maria di Cleofa, la mamma di Giacomo minore, il cugino di Gesù; il secondo è Maria Maddalena, che è contraddistinta dal fazzoletto e dalle lacrime; al suo fianco, con il braccio destro spalancato e il viso attonito, in uno dei gesti più sintetici del senso di maternità che la pittura abbia mai conosciuto, c’è la Madonna. Infine, a sostenere il corpo di Cristo, ecco san Giovanni, l’apostolo “che Gesù amava”, che con la mano sfiora la piaga del costato, e l’anziano Nicodemo, che come Giovanni stesso ricorda nel suo Vangelo, andò anche lui al sepolcro: «Vi andò anche Nicodemo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e aloe di circa 100 libbre» (Gv 19, 39).
È una figura commovente per quella sua monumentalità contadina, a piedi nudi e gambe possenti, per quel gesto semplice ma così vero delle due mani che si legano tra di loro nello sforzo di sostenere il corpo del Signore. Ma Nicodemo, come ha ricostruito recentemente Rodolfo Papa, in questo quadro ha anche un’altra funzione. È lì a rappresentare Caravaggio stesso, secondo una tradizione inaugurata da Michelangelo nella Pietà conservata al Museo del Duomo di Firenze. Lì Michelangelo aveva scolpito le proprie sembianze in quelle di Nicodemo; qui Caravaggio riprende quegli stessi tratti somatici. E il motivo sta in una tradizione, secondo la quale Nicodemo avrebbe dipinto il primo ritratto di Cristo, un crocifisso miracoloso conservato a Beirut. Vera o no che fosse quella tradizione, Nicodemo comunque incarnò nell’iconografia un ruolo particolare: quello dell’artista-testimone. Nicodemo-Michelangelo per Caravaggio diventa così il prototipo dell’artista, colui che non solo rievoca un fatto accaduto, ma lo riconosce nell’oggi. Come se dicesse: «Tutto quello che vedete è vero perché io ne sono stato testimone oculare; non fosse così non sarei stato in grado di dipingere questo quadro».


La cattura
Caravaggio, questa volta con le sue sembianze, appare anche in un altro quadro importante di questi anni: La cattura di Cristo, dipinto per la famiglia Mattei, sempre in quell’autunno 1603. Lo storico americano Irving Lavin ha appena pubblicato uno studio (Donzelli editore) su questo quadro, che è stato ritrovato in Irlanda nel 1990 e che ora è conservato al museo di Dublino. Analizzandolo ha potuto verificare la fedeltà, ancora una volta quasi letterale, di Caravaggio al racconto evangelico. Sulla sinistra della scena infatti un giovane fugge via, mentre un soldato che cerca di catturarlo resta solo con il suo mantello in mano. È l’episodio raccontato da Marco e che si riferisce, secondo molti esegeti, a Giovanni («Vi fu però un giovane che lo seguiva, con il corpo nudo avvolto in un panno di lino, e lo presero. Ma lui lasciata la tela di lino fuggì via nudo», Mcý14, 51-52). Il giovane che fugge gridando ha il mantello rosso, uno dei segni distintivi dell’apostolo amato da Gesù. Ma se lui scappa dalla sinistra del quadro, dalla destra entra invece un personaggio che inequivocabilmente ha i tratti di Caravaggio. Tiene una lanterna tra le mani, e sembra quasi alzarsi in punta di piedi per poter meglio allungare il collo, attirato dalla curiosità per quanto stava accadendo. Non ha l’armatura, ma certamente fa parte del gruppo della soldataglia venuta con Giuda a catturare il Signore. Forse il suo compito è quello di illuminare il luogo per aiutare il riconoscimento, ma in realtà la luce che batte sul volto afflitto e mite di Gesù viene da un’altra fonte. Che ci fa lì Caravaggio? Lavin con una tesi un po’ ardita, pur se supportata da qualche appoggio bibliografico, spiega che Caravaggio con la lanterna cerca la strada che porta a Gesù. Forse, con più semplicità, si potrebbe supporre che quei suoi occhi sgranati e quella sua bocca semiaperta nella tensione curiosa per quanto stava accadendo, sono quelli di un testimone quasi casuale e inconsapevole. Del resto, solo un occhio così ignaro poteva cogliere un particolare che nella foga sarebbe sfuggito a tutti: e sono le mani del Signore, con le dita intrecciate e le palme rivolte in basso, nel segno dell’obbedienza al volere di un altro. Gesù si consegna, e quelle mani sono l’immagine commossa della sua mitezza e della sua bontà.


Loreto
Sempre in quello scorcio dell’anno 1603 Caravaggio riceve la commissione per un quadro destinato a diventare uno dei suoi capolavori più famosi: è la Madonna di Loreto, dipinta per la chiesa di Sant’Agostino a Roma. Qui il pittore si chiama fuori e porta sulla scena due pellegrini, raccattati tra le migliaia di poveri che popolavano Roma in quegli anni. Se ne stanno in ginocchio di spalle e il particolare dei piedi nudi di lui, sporchi e così reali, è uno di quei particolari che hanno segnato una svolta nella storia dell’arte. Davanti a loro appare Maria; ha in braccio un Gesù bambino già cresciuto e con addosso la vitalità di un ragazzetto di borgata. Immaginate cosa potesse aver pensato Caravaggio quando gli avevano chiesto di dipingere la Madonna di Loreto. La sua prima preoccupazione sarà stata quella di non cadere nella favola. Così fa appoggiare Maria allo stipite di un portone di Campo Marzio. E i pellegrini rinnovano il gesto che facevano tutti i pellegrini a Loreto, quello di fare il giro della Santa Casa in ginocchio. Un gesto che ancora oggi molti pellegrini ripetono. Ai pellegrini di Caravaggio è accaduto che, completato il giro della Casa, si siano trovati, sull’uscio, proprio Maria in persona con il Bambino in braccio. Presente e reale: per Caravaggio non poteva essere altrimenti.


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